I soldi della Chiesa. Oltre i luoghi comuni e le false notizie

Da dove arrivano le risorse e come vengono impiegate

Dei soldi della Chiesa si parla da sempre e spesso a sproposito. Questo articolo ci aiuta a fare chiarezza sulla realtà dei fatti prendendo in esame alcune delle principali fake news e gli stereotipi in circolazione sull’argomento che spesso penetrano anche nelle nostre comunità e carpiscono la buona fede di molti.
Questo contributo è uno stralcio di un articolo tratto da «Dialoghi» (n.3-2019), il trimestrale culturale promosso dall’Azione cattolica.
Il pontificato di papa Francesco, tra gli altri suoi effetti, ha anche quello di aver riportato l’attenzione sulla povertà della Chiesa («Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri» è una delle sue frasi programmatiche più citate). Dunque sui soldi, sul modo di impiegarli, sulla sobrietà necessaria dell’agire ecclesiale, sugli stili di vita degli ecclesiastici, anche e persino sui veri o presunti tesori favolosi che sarebbero nascosti qua e là e che farebbero della Chiesa stessa una holding a livello internazionale, più vicina al vituperato modello del «predica bene e razzola male» che a quello virtuoso della effettiva povertà evangelica. In realtà dei soldi della Chiesa si parla da sempre. E spesso a sproposito. Per una serie di luoghi comuni, per ignoranza dei dati fondamentali, per i residui fuochi fatui di certe leggende nere, talvolta anche per cattiva fede o premeditata volontà di screditamento. Sesso e denaro, del resto, sono le armi più affilate quando si vuole mettere in cattiva luce una istituzione come la Chiesa, in particolare la Chiesa cattolica con i suoi principali esponenti: il Papa, i cardinali, i vescovi, ma anche tanti sacerdoti, religiosi e religiose.
La disinformazione e la realtà dei fatti.
Vediamo, dunque, per chiarezza, quali sono le fake news più diffuse nel mondo dei media e qual è invece la realtà dei fatti.
L’8xmille va al Vaticano e in tal modo i soldi dei contribuenti italiani finiscono a uno Stato estero. Nulla di più falso. L’8xmille è stato istituito con una legge dello Stato – la numero 222 del 1985 – e i suoi proventi vanno alla Chiesa in Italia, rappresentata dalla Cei. La Conferenza episcopale italiana distribuisce poi sul territorio le somme, secondo una serie di regole che sono tutte pubblicate sui suoi organi ufficiali e rendiconta allo Stato, come la legge istitutiva richiede, l’impiego dei fondi. Questi stessi fondi, sempre secondo le prescrizioni della legge, devono essere destinati a tre precise finalità: sostentamento del clero, carità in Italia e all’estero, esigenze di culto della popolazione. In quest’ultima voce sono comprese ad esempio la costruzione di nuove chiese (specie nei quartieri periferici, dove la parrocchia supplisce a molte carenze dello Stato e diventa fattore di aggregazione sociale anche contro pericolose devianze) e la conservazione e il restauro dell’ingente patrimonio di beni culturali ecclesiastici, che costituisce una delle ricchezze del nostro paese anche in termini turistici.
Ogni anno la Cei riceve dallo Stato più o meno un miliardo di euro, ma è stato calcolato da fonti esterne alla stessa Cei che in realtà il valore delle opere sociali realizzate con quei fondi, e che dunque vanno a vantaggio di tutta la collettività nazionale, sia dieci-undici volte maggiore
L’8xmille non viene impiegato per la carità, ma va tutto ai preti. Anche questa è una credenza facilmente smentibile con i fatti. Innanzitutto, come già ricordato, sono tre le destinazioni dell’8xmille. E il dato circa la ripartizione effettuata ogni anno dall’assemblea generale della Cei dimostra che le proporzioni sono più o meno un terzo, un terzo e un terzo. Nel 2019 ad esempio 436 milioni di euro sono andati per le esigenze di culto, 384 per il sostentamento del clero e 285 per gli interventi caritativi. Inoltre, molte voci inserite tra le esigenze di culto della popolazione sono in realtà riconducibili a forme di carità, potremmo dire strutturale (non si dà direttamente il pesce, ma si insegna a pescare, per usare la nota metafora). Della costruzione di nuove chiese in quartieri periferici abbiamo già detto. Ma si possono citare anche i fondi per il “Progetto Policoro”, che ha fatto nascere oltre un migliaio di posti di lavoro, specie al Sud; e gli stessi restauri dei beni culturali ecclesiastici che creano committenza e dunque danno lavoro a imprese specializzate. Infine bisogna considerare un ulteriore elemento: prima dell’introduzione dell’8xmille, tutta la cifra che lo Stato dava alla Chiesa sotto forma di congrua (una specie di stipendio mensile per alcune categorie di sacerdoti) andava effettivamente al sostentamento del clero. Oggi dal 100 per cento siamo scesi a poco più di un terzo, liberando così risorse per le altre due finalità.
Il Vaticano non paga le tasse, in particolare l’Imu. È una di quelle affermazioni che, oltre a essere minate da grave inesattezza, sconfinano nel paradosso, o se si vuole nel grottesco. La Città del Vaticano è uno Stato sovrano e indipendente. Perciò non ha senso dire che deve pagare le tasse all’Italia. Sarebbe come affermare che la Francia o gli Stati Uniti debbano farlo. C’è però il caso degli immobili di proprietà dell’Apsa (un organismo della Santa Sede) che sono situati sul territorio italiano. Non è un patrimonio immenso: si tratta di circa 1.800 appartamenti a Roma e a Castel Gandolfo e di 600 tra negozi e uffici. Circa il 60 per cento degli appartamenti è affittato ai dipendenti vaticani a canone fortemente agevolato. Per questo patrimonio viene pagata integralmente l’Imu. Nel 2018 sono stati versati 5,4 milioni di euro al Comune di Roma, 338.000 euro per la Tasi sempre a Roma, più 164.000 euro per Imu e Tasi fuori Roma. L’Ires inoltre ha inciso per 3,3 milioni di euro. In totale si giunge a 9,2 milioni di euro. Con buona pace di chi sostiene che il Vaticano non paghi le tasse
I 35 euro per migrante sono un business per la Cei e il Vaticano.
I 35 euro non finiscono né nelle casse della Cei, né tanto meno in quelle del Vaticano o del Papa. Secondo perché tale cifra viene riconosciuta a enti con determinate caratteristiche, senza distinzione di appartenenza religiosa. Anche organizzazioni laiche li percepiscono e dunque non è un privilegio della Chiesa cattolica. Terzo perché il rapporto costi-benefici è di gran lunga a favore dei benefici.
Conclusione Questi sono solo alcuni degli esempi di informazione distorta in relazione ai soldi della Chiesa. Un’informazione che spesso penetra anche nelle nostre comunità e carpisce la buona fede di numerosi praticanti. Perciò occorre fare attenzione alle fonti alle quali ci si abbevera. Purtroppo nel panorama della comunicazione odierna ci sono molti pozzi avvelenati. Sta all’accortezza e al discernimento di ognuno selezionare le fonti certificate e confrontare le informazioni.

Mimmo Muolo è vaticanista e vicecapo della redazione romana del quotidiano «Avvenire».

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