Psicologia di massa della pandemia

Quando prevale la protesta sulla proposta. E la responsabilità comune?

C’è un dato che colpisce e fa riflettere nelle reazioni che accompagnano in modo del tutto particolare questa seconda fase del terribile fenomeno del Covid-19. Consiste nel fatto che, mentre la tragedia nella sua nuda e implacabile oggettività, si presenta come un evento universale che potenzialmente mette a rischio tutti, uomini, donne, bambini, giovani, anziani, vecchi, la reazione della maggior parte di quanti stanno vivendo questa terribile esperienza è improntata a uno spirito particolaristico individualistico, familistico, corporativo, settoriale. Guardiamo al nostro Paese: si obbedisce (quando ciò avviene) alle regole imposte dal governo e messe in atto (non senza polemiche anche dure, come sappiamo) nelle regioni, province, comuni. Quindi si abbassano le serrande all’ora dovuta, si rinuncia ad attività che erano entrate, prima del virus, nelle abitudini collettive, nel train de vie consolidato. Ma lo si fa, quasi sempre e da parte di quasi tutti i soggetti interessati, non solo obtorto collo (giusta o sbagliata che sia questa reazione qui importa solo marginalmente), ma come un’imposizione di cui vengono percepite quasi solo (forse sarebbe meglio dire: senza quasi) le ricadute e le implicazioni che toccano gli interessi dei singoli, di questa o quella associazione, organizzazione, impresa: appunto il “particolare”. Sembra che nel gesto di chiudere le saracinesche, di ritirarsi in casa saltando l’aperitivo, di fare a meno della passeggiata serale, della “movida” notturna e così via, conti solo il sacrificio, il danno che Tizio o Caio subiscono, la retroazione negativa, la perdita che deriva dalle disposizioni governative. Assente appare, invece, l’eco interiore che dovrebbe essere suscitata dalla consapevolezza che, obbedendo a tali disposizioni, si offre (o si dovrebbe offrire), da parte di ciascuno, un contributo al bene comune, consistente in questo caso nel considerare la tutela della salute e della vita come l’imperativo principale ed essenziale da perseguire.

Nel dire questo non s’intende negare o sottovalutare gli errori, le inadeguatezze, i ritardi di chi deve decidere al livello superiore in un caso d’emergenza: ce n’è in abbondanza. Però la sensazione dominante, almeno così mi pare di poter affermare, è che quanti si oppongono ai provvedimenti in corso di attuazione lo fanno rimanendo chiusi nel loro intangibile orticello e che, dunque, la protesta prevalga nettamente sulla proposta. Non ci sono, da parte degli oppositori, a qualsiasi categoria appartengano e qualsiasi tipo di interesse rappresentino, suggerimenti concretamente attuabili, ma un secco NO all’azione del governo, quasi che, ognuno per sé, si accontentasse che, per quanto lo riguarda, le limitazioni, le chiusure, i divieti, vengano tolti, e basta. Cosa poi succeda negli altri settori della società è cosa che interessa molto marginalmente, una volta che il singolo interesse sia soddisfatto. Anche qui emerge e finisce per dominare il “particolare”. E non si può dire che i sindacati siano fin qui riusciti a dare unità a questa caotica opposizione di ciascuno a tutto. Insomma, un atteggiamento psicologico, ma anche morale e civile, che porti ad assumere una responsabilità comune nei confronti del dramma in corso è il grande assente dalla scena della seconda offensiva dell’epidemia.
Questo Paese, in più di un’occasione, a partire dagli anni del terrorismo, delle catastrofi naturali (chi può dimenticare gli “angeli del fango” al tempo dell’alluvione di Firenze?), a partire dalla solidarietà mostrata in tante occasioni disgraziate che abbiamo attraversato (penso, ad esempio, ai terremoti, alle inondazioni, alle piaghe endemiche dell’Italia) ha messo in campo una solidarietà di cui non è facile trovare esempi corrispondenti in altri luoghi del mondo. Questo sentimento di unità, di collaborazione, di comune e condivisa pietà ha segnato la società italiana per anni. Si è indebolito e progressivamente sta scomparendo dal momento in cui i costumi, la mentalità, i riti, della società opulenta hanno scavato, in un tempo relativamente breve, un solco profondo tra i cittadini, hanno intaccato il perseguimento del bene comune nelle istituzioni centrali e locali, hanno fatto dell’interesse, del profitto a tutti i costi, della corsa al successo, dell’egoismo, gli elementi che oggi dominano largamente in ogni campo.

È difficile che, anche nelle circostanze più gravi, come l’attuale, una società che ha imparato a considerare i diritti individuali, di gruppo, di consorteria, come la guida dei progetti di vita di così tanti uomini, donne, ragazzi, si ritrovi intorno a un fine che meriti di essere perseguito con spirito comunitario e che non sia coniugabile unicamente in termini di tornaconto economico. Nel momento in cui la logica dell’economia di mercato sottomette a sé con sempre maggior forza ogni altro obiettivo e fine, la politica perde la capacità e la possibilità di trovare consenso intorno a obiettivi diversi da quelli dell’homo oeconomicus.

La pandemia ha portato a galla una metamorfosi antropologica di portata che non sarebbe esagerato definire epocale. Al di là e al di sopra delle questioni strutturali che la pandemia c’impone di risolvere, c’è questo fattore, che richiede un gigantesco sforzo di ricostituire una socialità che sia coerente con il dettato costituzionale e con l’etica pubblica della democrazia. Per questo motivo l’educazione alla vita democratica non può non essere l’obiettivo fondamentale delle forze politiche e sociali fin d’ora perché il tempo perso è enorme e ora come mai fa sentire il suo terribile peso.

Pubblicato da Azione Cattolica; di Roberto Gatti. È stato presidente della Società italiana di Filosofia politica, di cui ora dirige il sito on line (www.sifp.it ). È direttore, insieme con Vincenzo Sorrentino, della rivista «Cosmopolis». Ha scritto sulla filosofia politica di Rousseau, sul giansenismo francese del Seicento, su Machiavelli, Hobbes e Locke. Lavora inoltre sul problema del male nel pensiero filosofico e letterario del Novecento e sulle teorie democratiche contemporanee.

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