Un bisogno nuovo di religione

C’è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile. Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata.
Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: «Qualunque cosa sia la religione – scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) – di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso… È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica… e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chiesto in prestito alla religione» (pag. 16).
Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro. La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana.
Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande. Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati… E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 8-10 e 16).
Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. «Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre.
Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso – e un senso vittorioso della morte – è la condizione per volersi ed essere pienamente umani. Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: «A la tarde de la vida te examinarán en el amor – Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».

Bruno Forte

Il Papa a genitori e insegnati: non siete avversari, collaborate per il bene dei ragazzi

Invita genitori e insegnanti a ristabilire la collaborazione reciproca e a siglare un nuovo «patto educativo» perché, avverte, «senza comunicazione frequente e senza fiducia reciproca non si costruisce comunità e senza comunità non si riesce a educare». Papa Francesco incontra nell’aula Paolo VI i rappresentanti dell’Associazione italiana genitori (AGe), che quest’anno festeggia 50 anni di vita, e racconta un aneddoto sulla sua infanzia: «Avevo dieci anni, e ho detto una cosa brutta alla maestra. La maestra ha chiamato mia mamma. Il giorno dopo è venuta mia mamma, e la maestra è andata a riceverla; hanno parlato, poi la mamma mi ha chiamato, e davanti alla maestra mi ha rimproverato e mi ha detto: “Chiedi scusa alla maestra”. Io l’ho fatto. “Bacia la maestra”, mi ha detto la mamma. E l’ho fatto, e poi sono tornato in aula, felice, ed è finita la storia. No, non era finita… Il secondo capitolo è quando sono tornato a casa… Questo si chiama “collaborazione” nell’educazione di un figlio: fra la famiglia e gli insegnanti».
È ai docenti, che in questi giorni si preparano a tornare in cattedra, che Francesco si rivolge: «Molte delle vostre energie», dice, «sono dedicate ad affiancare e sostenere i genitori nel loro compito educativo, specialmente in riferimento alla scuola, che da sempre costituisce il principale partner della famiglia nell’educazione dei figli. Ciò che fate in questo campo è davvero meritorio». Ma, denuncia il Pontefice, «oggi quando si parla di alleanza educativa tra scuola e famiglia, se ne parla soprattutto per denunciare il suo venir meno: il patto educativo è in calo». La famiglia, è la fotografia fatta da Francesco, «non apprezza più come un tempo il lavoro degli insegnanti – spesso mal pagati – e questi avvertono come una fastidiosa invadenza la presenza dei genitori nelle scuole, finendo per tenerli ai margini o considerarli avversari».

Insegnate ai vostri figli il discernimento morale ed etico

Occorre cambiare, è l’appello del Papa. E per fare questo cambiamento, sottolinea, «occorre che qualcuno faccia il primo passo, vincendo il timore dell’altro e tendendo la mano con generosità. Per questo vi invito a coltivare e alimentare sempre la fiducia nei confronti della scuola e degli insegnanti: senza di loro rischiate di rimanere soli nella vostra azione educativa e di essere sempre meno in grado di fronteggiare le nuove sfide educative che vengono dalla cultura contemporanea, dalla società, dai mass media, dalle nuove tecnologie. Se è giusto lamentare gli eventuali limiti della loro azione, è doveroso stimarli come i più preziosi alleati nell’impresa educativa che insieme portate avanti».
Francesco cita un proverbio africano: “Per educare un bambino ci vuole un villaggio”. «Perciò, nell’educazione scolastica», commenta, «non deve mai mancare la collaborazione tra le diverse componenti della stessa comunità educativa».
Francesco ricorda inoltre che «contribuire a eliminare la solitudine educativa delle famiglie è compito anche della Chiesa, che vi invito a sentire sempre al vostro fianco nella missione di educare i vostri figli e di rendere tutta la società un luogo a misura di famiglia, affinché ogni persona sia accolta, accompagnata, orientata verso i veri valori e messa in grado di dare il meglio di sé per la crescita comune». Infine, invita i genitori a considerare i figli come «il dono più prezioso che avete ricevuto» e a custodirlo «con impegno e generosità, lasciando ad essi la libertà necessaria per crescere e maturare come persone a loro volta capaci, un giorno, di aprirsi al dono della vita. E conclude: «Insegnate ai vostri figli il discernimento morale, il discernimento etico: questo è buono, questo non è tanto buono, e questo è cattivo. Che loro sappiano distinguere. Ma questo si impara a casa e si impara a scuola: congiuntamente, tutte e due».

La virtù della carità

La virtù della carità s. Tommaso la definisce (nella questione 65 dell’art. quinto) in questo modo: carità non solo significa amore verso Dio, ma anche una certa amicizia verso «qualcuno»; in questo rapporto sussiste una «mutua» comunicazione. Con questa relazione nasce una società di individui che nella loro attività cercano l’armonia con Dio e con gli uomini.
L’amore, come passione, non ha un carattere determinato; è pluriforme: nel superbo diventa esigente e tirannico, nel sensuale diventa bizzarro ed incostante, nell’egoista diventa materiale e volgare, nel geloso diventa cupo e sospettoso, nel sensibile diventa timido e delicato. Questo nel suo aspetto estrinseco ed intrinseco. Tutti abbiamo amato, amiamo ed ameremo; ciò avverrà affinché ci saranno sulla terra due esseri che cammineranno verso un unico ideale.
Un giorno cercavamo il bacio della mamma, ora il sorriso di un confratello, domani forse… l’abbraccio col Signore magari nell’atteggiamento paterno come appare nella parabola del «figliol prodigo»; sì, con le braccia aperte ai figli della luce e… delle tenebre. […] L’unica persona che poteva esistere senza associarsi a qualcuno, ha amato l’umanità; s’è lasciata crocifiggere e, ciò nonostante, ha continuato ad amare. Ora, perché non credere all’amore?
Cerchiamo di accostarci a questo che è stato il primo amore e proviamo ad assorbire tensionalmente quel bene che ci perfeziona. Questi beni, guardati con una concezione armonica del mondo, non li concepiamo su un piano orizzontale, ma l’uno si sovrappone all’altro con una perfetta gerarchia di valori, come nell’ordine dell’essere finito, così anche dell’amore.
La grande realtà: Dio è in noi e noi siamo in Lui; di questa universale relazione ne segue uno sviluppo che viene a comprendere anche colui che è periferico a noi stessi: il prossimo. Sono tre direzioni di carattere tridimensionale: altezza, profondità, latitudine. La sintesi di esse è l’amore che esige coordinamento e conformità all’Amore, quello del « mandatum novum… » ( Gv 13,34ss).
Viene spontaneo rifugiarci in un cuore amico; l’incalzare dei nostri affetti, come una valanga, desiderano riversarsi in qualcosa d’altro che rispecchi un po’ il nostro modus vivendi, il nostro ideale. Per questo che l’amico fedele diventa una «forte protezione», una salutare medicina della vita e dell’immortalità ( Eccl 6,14).
Si trova allora una corrispondenza: non è egoistica, ma si tratta di due inclinazioni naturali che si incontrano (spesse volte senza calcolo umano) e che, dopo l’iniziale sondaggio della comprensione vicendevole, scavano in profondità, fino a capire il quid che li ha fatti incontrare, amare, e li ha fatti sentire «fratelli», amici.
Come ho già detto, la sorgente dei due amori li porta a volere il bene comune; il bene è ciò che perfeziona; ora, avendo trovato un amico, ho trovato uno che mi arricchisce ed insieme ci sentiamo depositari di un autentico tesoro. Mi domando: chi è l’amico? Colui che sa assorbire la mia gioia, il mio dolore, sul quale potrò rovesciare la mia bisaccia, col quale potrò dividere l’ultima goccia della mia borraccia: un altro «me».
Mi scaricherò volentieri in lui, mi aprirò… e gli parlerò con un linguaggio semplice e sereno, con la confidenza generosa dei nostri comuni sentimenti. La glacialità dell’odio e del rancore non devono sussistere, anche se a volte un desiderio implacabile di vendetta ci suggerirebbe un’azione che però è contraria al vero comandamento (Mt 22,39).
Spesso viviamo nel deserto della vita e non riusciamo a dargli un palpito; ecco, l’amico che mi gravita intorno per dirmi una parola, per darmi da bere, per cercarmi un’ombra… E poi dicono che non c’è nessuno che ascolti il nostro lamento, che ci comprenda! Dunque, è accostandoci fraternamente che la Carità vive in noi: è questo il leitmotiv di tutta l’azione liturgico-missionaria della Chiesa.
Purtroppo il nostro non è un «realismo » che viviamo giorno per giorno, ma un «idealismo» appena abbozzato: sì, vogliamo amare il fratello «in Cristo», ma solo col sentimento, con le parole; manca in noi il gesto vigoroso che sopprima questa illusione sensoriale. Ecco l’etica messianica: il cammino armonioso delle anime, dei popoli; niente colored, niente white, niente segregazionisti, niente sbarre, posti di blocco, cortine di ferro, barriere!
Superiamo le ideologie personali, di carattere sentimentale, politico e religioso: amiamoci con coraggio attraverso Gesù con la nostra carne, con le nostre forze, con il nostro spirito; impariamo dal «Suo» stile! Perché fatichiamo ad amarci? Perché siamo degli egoisti. Non sappiamo seguire con sincronia la Sua azione nel modo che Lui ci ha insegnato: cingerci i fianchi con un grembiule e versare acqua in un catino e lavare i piedi agli altri viandanti. Dobbiamo scioglierci, non indurirci; vivere la dolcezza evangelica.
Personalmente direi che la carità si sviluppa nell’entusiasmo, ma stando all’inno paolino essa si trova nella pazienza, ed allora: scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto ( 1Cor 13). Perché (è questa l’ultima domanda) siamo tristi? Perché non abbiamo perdonato, non abbiamo amato: niente lacrime coccodrilline, ma il marchio cristiano fatto di bontà e di violenza; amore che sa perdonare anche all’adultera (Gv 8,10ss).
Per questo dobbiamo uscire da noi stessi, eliminare i ripiegamenti per metterci in orbita intorno all’amico. Realizzeremo così l’ultima preghiera sacerdotale di Gesù: … che essi siano una cosa sola, o Padre, come noi siamo una cosa sola! Attueremo anche il detto dell’Apostolo delle Genti: l’unità dello Spirito nel vincolo della pace ( Ef 4,3).
Non viviamo come fratelli, ma «siamo» fratelli. Gesù, dacci del tuo amore, così potremo amare! Mi ridesto e nel tramonto di questa sera ascolto un canto lontano… nei secoli, incominciato all’alba della vita: Amate!

David Maria Turoldo

La virtù cardinale della prudenza

La prudenza è la prima dell’elenco delle quattro virtù cardinali e non a caso. È una virtù decisamente poco cercata, anzi qualche volta vista come un rallentamento inutile, una moderazione non necessaria che impedisce uno sviluppo completo e rapido dell’io, una sua piena manifestazione.
La bulimia di esperienze, la logica digitale che fa credere tutto possibile e facile, (vero proprio perché facile!) evita la moderazione della prudenza, la irride come residuo del passato, davanti alla tentazione pervasiva e accattivante di provare tanto, tutto e sempre, con l’illusione di non pagare le conseguenze, protetti e nascosti dietro l’anonimato di uno schermo o perché non ci si rende conto degli effetti causati.
In realtà sono tutte ragioni che portano a dire che ne abbiamo ancora più bisogno! È una virtù, cioè una «disposizione abituale e ferma a fare il bene», come spiega il Catechismo (1803). Le virtù permettono non soltanto di compiere atti buoni ma di dare il meglio di sé, perché la persona virtuosa cerca e prepara il bene; lo sceglie in azioni concrete e lo rende possibile ad altri.
Le quattro virtù cardine di tutte le altre prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – rappresentano anche un ponte importante con l’intera città degli uomini, perché sono virtù «umane» e dispongono «tutte le potenzialità dell’essere umano a entrare in comunione con l’amore divino» (1804). Le virtù ci aiutano a distinguere comportamenti positivi dai negativi, il meglio dal mediocre, l’autentico dal falso.
E ne abbiamo un grande bisogno quando tutto è apparenza e facciamo più fatica nel discernimento, tanto che questo stesso appare inutile o è solo strumentale al proprio interesse, finendo per privilegiare le sensazioni, le emozioni, la superficie scambiata come verità dell’io. La prudenza è la virtù che fa discernere, distinguere, capire, interpretare quello che è secondo lo Spirito di Dio o invece contrario (1806).
La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. L’uomo «accorto controlla i suoi passi» (Proverbi 14,15). «Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione.
È detta « auriga virtutum – cocchiere delle virtù»: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. Un modello di prudenza è san Giuseppe, uomo giusto, che medita tra sé e che, prudente, ascolta il sogno e non il proprio istinto. Per questo è coraggioso, determinato, protettore della sua famiglia. Diventiamo prudenti proprio quando si ama qualcuno, quando siamo ‘per’ qualcuno.
La prudenza è senso di responsabilità, è agire facendosi carico delle proprie azioni perché un uomo prudente non gioca né con la propria vita né con quella degli altri, ne conosce il valore, sa che il tempo perduto non torna, che le occasioni mancate non si ripresentano, che le parole non dette sono molto amare e quelle dette male producono dolore profondissimo.
L’uomo senza legami, ‘dissoluto’ non è prudente, come il figlio giovane della parabola, perché è facilmente accecato dalle ricchezze e dal benessere e non si rende conto. Solo nella carestia rientra in se stesso e riscopre l’importanza di quel legame che gli sembrava un limite e dal quale si era voluto sciogliere. Ecco cos’è la prudenza: uomini che rientrano in se stessi e trovano così la gioia piena della casa del Padre, quella di cui hanno bisogno.
In un bellissimo affresco a Santa Maria in Trastevere la prudenza è raffigurata davanti a uno specchio, perché essa richiede riflessione, interiorità, ben diversa dal narcisismo. È una donna giovane nel viso di fronte, ma dietro è un anziano che guarda nella direzione opposta, perché la prudenza è circospetta, guarda intorno, non sospettosa, osserva ovunque. Il vecchio rappresenta la memoria, perché la prudenza si forma sapendo fare tesoro dell’esperienza.
La prudenza, però è giovane, guarda al presente perché non è segnata dall’amarezza e dal veleno della disillusione, che fa credere di essere sapienti, di governare la nostra vita e in realtà spegne solo la gioia e l’entusiasmo e ci fa perdere il desiderio che abbiamo nel cuore, la voglia di cambiare e di raggiungere quello che cerchiamo. La prudenza è piena di speranza, di futuro e proprio per questo non vuole perderlo.
La prudenza è la virtù del discernimento, dono che bisogna chiedere allo Spirito Santo e allo stesso tempo dobbiamo coltivare «con la preghiera, la riflessione, la lettura e il buon consiglio », si legge nella Gaudete et exsultate al punto 166. L’invito più diretto di Gesù a proposito della prudenza è legato all’andare in mezzo ai lupi. Il cristiano non resta al sicuro, protetto, evitando il lupo.
Ma, anche, il cristiano non ha paura del lupo. La prudenza non significa non vivere o una vita a metà, lo sconsiderato conservarsi che ne farebbe una tentazione e non una virtù. «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Cosa accade se siamo solo colombe?
La semplicità senza la prudenza ci espone alla disillusione, al credere di avere sbagliato tutto quando sperimentiamo la cattiveria del male. Quanto facilmente passiamo dall’ingenuità dell’amore al cinismo, induriti o avari perché non siamo stati furbi come serpenti. Unire questa ingenuità con una conoscenza non cinica ma concreta è la prudenza evangelica. Non è sbagliato fermarsi, sapere dire dei no, calcolare, conoscere.
E semplicità non è soltanto dire sì! Quando la semplicità si riduce a buonismo offriamo spazio e argomenti al suo contrario, cioè a furbi che pensano di essere realisti, ma in realtà non sanno più volere bene e vedono solo la loro convenienza! Semplicità è vedere il bene sempre, scegliere di andare incontro anche se non hai nulla, di compiere il primo passo per amore.
Senza semplicità ci omologhiamo al mondo e la nostra giustizia non supera quella retributiva degli scribi e dei farisei. Senza la semplicità finiamo per credere che l’uomo non cambia o io non lo so aiutare e così «occhio per occhio» e il mondo diventa davvero cieco. L’uomo prudente con intelligenza e profondità sa capire la storia, ma con la semplicità la supera e la cambia perché non diventa cinico, non si accontenta del mero sopravvivere, di tirare a campare o di prendere solo quello che conviene.
Prudente è chi sa guardare le cose come sono, senza preconcetti, liberi dalle deformazioni, dalla paura, dagli interessi personali o collettivi, dalle temibili semplificazioni che ci sembrano dare finalmente la chiarezza e la risposta attesa e invece cancellano la realtà, la riducono a quello che io vedo, non ne capiscono le correnti profonde e non la sanno cambiare.
E poi sappiamo che (2Tm 1,7) «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza». Sì, basta fidarsi completamente del Signore per sentirsi provveduti di ogni cosa. «Il nihil abentes e l’omnia possidentes (2Cor 6,10) si rinnova sotto i miei occhi quotidianamente. Sempre mi è vicina la preoccupazione del futuro. Ma sempre mi viene fornito il necessario, qualche volta sovrabbondante», scriveva Papa Giovanni nel suo Giornale dell’anima, sottolineando che «la semplicità è amore, la prudenza è pensiero».
Per questo il prudente e semplice non diventa profeta di sventura che vive di un passato spesso inesistente, ma nella storia, sa riconoscere sempre «i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa’. Semplici come colombe e prudenti come serpenti per cambiare il mondo e per sconfiggere il nemico della vita.

Mons. Matteo M. Zuppi

La virtù cardinale della temperanza

Lo scopo della temperanza è quello di governare nella persona umana gli slanci propri della sua natura. In tal senso, Aristotele insegnava che la temperanza «è una medietà relativa ai piaceri» (Etica Nicomachea III, 10). Il termine greco cui egli ricorre è edoné, che vuol dire piacere, ma pure gioia; godimento, ma pure compiacenza. Nella forma plurale indica le passioni, ma anche i desideri.
Sofocle, nelle sue tragedie aveva fatto ricorso a edoné per dire che si può essere «pazzi per la gioia» (Elettra 1153), ma pure ch’è possibile «buttar via il senno per la voluttà» (Antigone 648). Ecco, allora, l’importanza del termine medietà, usato da Aristotele: la temperanza è intermedia fra due eccessi, che nei casi estremi sono l’insensibilità e la sfrenatezza. Sono due forze opposte che possono lacerare una persona. Lo abbiamo veduto per Medea.
Altrettanto drammatica la vicenda di Mezio Fufezio, l’ultimo re di Alba Longa (VII secolo a. C.), che da Tullo Ostilio, l’antagonista re di Roma fu fatto legare ad una quadriga per le braccia e ad un’altra per le gambe sicché i cavalli, spronati in direzioni contrarie, strapparono le sue membra (cfr. Historiarum ab Urbe condita I, 28)! Così le passioni e i desideri possono rovinare gli uomini se non sono guidati dalla temperanza…
Tommaso condividerà sostanzialmente la tesi aristotelica, reinterpretandola ovviamente in senso cristiano e stabilendo che in ogni caso, come per le altre virtù umane, più importanti sono le virtù teologali. Cosa, però, la temperanza ha di proprio, rispetto alle altre virtù umane? J. Pieper, filosofo cattolico tedesco (1904-1997) che sulla lettura tomista della temperanza ci ha lasciato uno studio fondamentale, spiega bene che diversamente dalle altre, la virtù della temperanza tocca direttamente la persona.
Scrive: «La prudenza guarda alla realtà concreta di tutti gli esseri; la giustizia regola i rapporti con altri; con la fortezza l’uomo, dimentico di se stesso, sacrifica beni e vita. La temperanza, invece, è ordinata all’uomo stesso. Temperanza significa: prendere di mira se stessi e la propria condizione, dirigere sguardo e volontà su noi stessi» (La temperanza, Brescia-Milano 2001, 28).
La sua funzione propria, dunque, è moderare gli slanci della natura umana. Non che essa si opponga alle inclinazioni, ai desideri, alle simpatie, alle preferenze… La virtù della temperanza non nega tutto questo; invita, piuttosto, a farne un uso ordinato, armonico, costruttivo[…]. La temperanza non è nemica della gioia, ma della sua ricerca smodata, a tutti i costi, anche a discapito degli altri.
Una traccia di questa istanza la troviamo forse nel termine contrario di intemperanza, col quale s’indicano gli atteggiamenti scostanti, esagerati, “sopra le righe” al punto da destare irritazione e suscitare disgusto. Pensiamo, ad esempio, alle intemperanze nell’uso dei beni materiali, in particolare del denaro, e nell’uso del potere.
Nella Scrittura leggiamo che coloro «che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali» (1Tim 6, 9-10). Sono qui messi a tema questioni a noi purtroppo ben note, come gli acquisti e l’arricchirsi disonesti; le spese sfrenate per il lusso e i divertimenti… è implicito, però, anche il loro contrario che è l’avarizia (si pensi alla figura tipica dell’avaro disegnato da Molière).
Il testo biblico citato richiama pure la corruzione amministrativa e politica, che nasce dall’avidità personale o di gruppo; l’arroganza e la tracotanza nella gestione della cosa pubblica; l’uso spregiudicato del potere sì da “logorare chi non ce l’ha”, come recita un noto aforisma di Talleyrand, che in Italia ha la voce e il volto di un altro politico.
Ora, la virtù umana che, unitamente alla giustizia, può tagliare alla radice tutto questo è proprio la temperanza. Essa aiuta a porre degli argini alle passioni e questo non per annullarne, ma perché non giungano a scompaginare e destrutturare la persona e far sì, invece, di produrre effetti benefici per l’uomo […]. In relazione alla virtù della temperanza, la tradizione cattolica pone anche quella preziosa del buon umore, capace di mantenere il giusto equilibrio fra la battuta e lo scherzo volgare e scurrile e la freddezza insapore…
In fin dei conti l’umorismo è proprio l’arte di conservare la “giusta misura” ( métron) dal mondo per puntare meglio all’essenziale. Si tratta, però, anche di una questione cristiana, come ha simpaticamente spiegato G.P. Salvini S.J. in un articolo pubblicato lo scorso anno su “La Civiltà Cattolica” e intitolato L’umorismo di Dio (cfr. quaderno 2017 – 3/17 giugno 2017, 484-489).
Anche “L’Osservatore Romano” del 2-3 maggio 2015 nel numero 35 del mensile “donne chiesa mondo” aveva pubblicato alcuni intervento sul tema. È per questa pertinenza cristiana dell’umorismo e dell’ironia che nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018) Francesco ha ricordato che «il malumore non è un segno di santità» e che «a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio» (n. 126).
Lì come modello il Papa ha scelto san Tommaso Moro, il quale diceva di sé: «Mi si rimprovera di mescolare battute, facezie e parole scherzose con i temi più seri. Credo che si possa dire la verità ridendo. Di certo si addice meglio al laico, quale io sono, trasmettere il proprio pensiero in modo allegro e brioso, piuttosto che in modo serio e solenne, come fanno i predicatori ».
Di Tommaso Moro, Louis Bouyer scrisse che «pochi uomini, in tutta la storia inglese, sono al pari di Thomas More, tipici rappresentanti di quella forma di finezza, incomprensibile per il latino o il tedesco, che si è soliti chiamare humour» (in Erasmo tra Umanesimo e Riforma, Brescia 1962, 94). Se volessimo, allora, concludere con una preghiera il nostro incontro, potremmo recitare questa di Tommaso Moro, che il Papa ha inserito nella sua esortazione e che ci mostra bene il senso della virtù della temperanza: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia»

Mons. Marcello Semeraro