La virtù cardinale della fortezza

Quando si parla di fortezza, si fa menzione anche di alcune figure bibliche che sono identificate con questa virtù. Sono soprattutto figure femminili, ricordate per il loro coraggio e la loro capacità di sovvertire i ruoli, che la parte maschile nelle rispettive storie aveva disegnato.
Ne ricordo due, che spero vi siano familiari: si tratta di brani biblici, legati alla tradizione giudeo – cristiana, ma sono anche pagine di alta letteratura, patrimonio quindi della cultura mondiale. La prima donna è Giaele, quella di cui Alessandro Manzoni ha scritto: «Quel che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio ed il colpo guidò».
La storia, narrata nel capitolo quarto del libro dei Giudici, è questa: l’esercito cananeo, guidato dal generale Sisara, attacca i Giudei che sono installati alle pendici del monte Tabor. Il comandante ebreo, Barack, sconfigge i nemici e Sisara, lasciato il suo carro, fugge a piedi e si rifugia nell’accampamento di Giaele, la cui famiglia è in pace con il re di Canaan.
Giaele lo invita ad entrare nella tenda e Sisara le chiede da bere e dà precise istruzioni per come la donna avrebbe dovuto comportarsi, se qualcuno fosse passato lì e avesse chiesto notizie su di lui. Giaele gli offre latte fresco da bere, ma mentre Sisara, stremato per le fatiche della battaglia, dorme profondamente, gli pianta nella tempia un picchetto della tenda. Viola gravemente le legge universale del rispetto dell’ospite ma, almeno dal punto di vista del popolo ebraico, compie un gesto di liberazione, ovviamente apprezzato e celebrato.
La seconda donna forte è Giuditta, alla quale è dedicato un intero libro della Sacra Scrittura. Giuditta, donna bellissima e virtuosa, mette a repentaglio la sua onorabilità e la sua vita, per salvare la città di Betulia dall’assedio del generale assiro Oloferne. Quello che rende degna di ricordo l’impresa di Giuditta è la sua capacità di utilizzare la bellezza per distruggere il nemico, il quale era invece convinto di essere riuscito a sedurre la vedova ebrea e di poterla fare sua concubina.
Dopo aver tagliato la testa a Oloferne, ed aver quindi precipitato nel disordine l’esercito assiro, Giuditta stessa celebra in un canto la sua impresa. Rievocando le varie fasi della storia, ella menziona il modo in cui ha ammaliato il rozzo generale e, tra gli elementi di seduzione, sottolinea i sandali: «Ella depose la veste di vedova per sollievo degli afflitti in Israele, si unse il volto con aromi, cinse i suoi capelli con un diadema e indossò una veste di lino per sedurlo.
I suoi sandali rapirono i suoi occhi, la sua bellezza avvinse il suo cuore e la scimitarra gli troncò il collo». Vale la pena di notare che ambedue queste donne, sia pure in maniera diversa, hanno utilizzato la propria femminilità, che la controparte maschile considerava segno di debolezza e di ovvia sottomissione, per diventare invece colei che domina e vince.
Con queste premesse, che ci introducono già a capire qualcosa dell’atteggiamento spirituale che ci è proposto da questa virtù, sono ora pronto a sfogliare le pagine del Catechismo della Chiesa Cattolica, in quel solo articolo che parla della fortezza. Lo troviamo nella Parte Terza, su «La vita in Cristo», nella prima sezione, su «La dignità della persona umana», nell’Art. 7, su «Le virtù», sezione dedicata a «Le virtù umane», n. 1808. «La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene.
Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. “Mia forza e mio canto è il Signore” (Sal 118,14 ). “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16,33 )».
Si capisce subito che la virtù della fortezza, anche se illuminata e resa più evidente in un contesto di fede cristiana, appartiene ad ogni uomo e donna, qualunque ne sia la condizione spirituale e la provenienza culturale o etnica. La fermezza e la costanza nella ricerca del bene sono atteggiamenti che vorremmo vedere incarnati in ogni persona che vive in questo nostro mondo e in questa nostra società, specialmente in coloro che sono investiti da mansioni e responsabilità pubbliche, che comportano sempre una dedizione piena al bene comune.
Quando il testo ci parla di «resistere alle tentazioni e superare gli ostacoli nella vita morale», siamo aiutati a capire il perché della pertinenza della definizione di fortezza come opera di fortificazione, e perché l’iconografia della virtù insista sull’atteggiamento militare della figura allegorica rappresentata. Si tratta, infatti, di una lotta, forse di una guerra, che ci accompagna per tutto il tempo della nostra vita.
Per ognuno di noi, la tentazione di vivere la nostra vita al ribasso è sempre presente. Gli ideali di onestà, fedeltà, correttezza professionale, lealtà, rispetto della norme per la vita sociale, sono continuamente messi a rischio, dalle possibilità che ci sono offerte e che sono, per così dire, pane quotidiano nella società in cui viviamo.
Se volessimo presentare una esemplificazione di queste situazioni, potremmo intrattenerci molto a lungo, ma il rischio sarebbe quello di cadere in una casistica dettagliata, con un rischio di fondo: contemplare i difetti che vedremmo incarnati in tante altre persone, e dimenticare le tentazioni nelle quali noi stessi cadiamo, sentendoci quindi garantiti come persone oneste e sostanzialmente rispettabili.
Mi permetto soltanto di darvi un esempio, che mi sembra significativo e che ho ascoltato proprio qualche giorno fa. Si riferisce ad una persona che apparteneva alla generazione dei nostri nonni e chi me ne ha parlato è un suo nipote. Aveva un piccolo esercizio commerciale e soffriva nel vedere che i suoi concorrenti adattavano i prezzi, in maniera che a lui sembrava non giustificata.
A chi insisteva con lui perché, per sopravvivere, seguisse la corrente e si adeguasse allo stile degli altri, rispose: «Proprio adesso, alla fine della mia vita, volete che cominci a vivere come la porcacchia?» Per chi non ne fosse a conoscenza, la porcacchia è una pianta che cresce sui muri, e striscia, come un rampicante.
Ecco un’immagine efficace per indicare che ci sono persone che tengono alla loro dignità, prima e al di là dei rendiconti immediati.
Non deve poi stupirci se questo stesso uomo, capace di difendere la sua onestà anche con proprio
svantaggio, durante il tempo della occupazione nazista della sua città, abbia salvato tante vite di
perseguitati Ebrei. Il testo del Catechismo, parla di una fortezza che «rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni ».
Non mancano, in questo senso, figure esemplari di chi ha vissuto questa virtù umana con grave rischio per la propria incolumità, senza lasciarsi intimorire neppure dalla possibilità di mettere in pericolo non solo la vita propria ma anche quella dei propri cari. È un modo di agire tipico dei prepotenti, a qualsiasi livello della società essi si trovino, quello di colpire persone innocenti per ottenere il silenzio complice di chi voleva alzare la testa contro la corruzione.
Vi assicuro che è una esperienza terribile il rendersi conto di aver provocato violenza e maltrattamenti contro persone a voi vicine, solo perché si è fatto coscienziosamente il proprio dovere. Ho il diritto di far soffrire, altri per quello che faccio io? È una domanda che fa tremare. Quanti esempi potremmo ricordare, in questo nostro Paese, di persone che mettono a rischio costante la propria vita nella lotta contro la criminalità organizzata, che si chiami mafia, o camorra, o sacra corona unita, o qualsiasi altro nome con cui si vogliono definire queste congreghe di delinquenti.
Quanti giudici e magistrati, carabinieri e membri della polizia, amministratori locali e uomini comunque coinvolti nella vita politica e sindacale, che hanno pagato con la vita la loro correttezza civile. E quanti stanno rischiando anche ora. La virtù umana della fortezza è vissuta ad ogni livello della società ed è la realtà concreta che ci fa sperare che, prima o poi, proprio grazie ad essa, l’onestà riuscirà a sconfiggere la delinquenza.

Mons. Giovanni Tonucci

Passi verso il sinodo dei Giovani

Istrumentum Laboris per il Sinodo dei Vescovi
Esercitare sui giovani il fascino di ideali grandi

Il documento si muove secondo il metodo del discernimento: fa il punto sulla condizione giovanile; la interpreta secondo criteri che colgano gli indizi di futuro che essa racchiude; orienta alcune decisioni che saranno oggetto della valutazione e delle scelte dei padri sinodali. Riconoscere, interpretare, scegliere sono i tre verbi che scandiscono la riflessione del documento e che dovranno guidare i lavori sinodali.
“Prendersi cura dei giovani non è un compito facoltativo per la Chiesa, ma parte sostanziale della sua vocazione e della sua missione nella storia” (n.1): così si apre l’Instrumentum Laboris per il prossimo Sinodo dei vescovi. Alla redazione finale di questo documento si è giunti attraverso un percorso molto partecipato: questionari, un seminario internazionale sulla condizione giovanile, una riunione presinodale che ha visto presenti trecento giovani provenienti da tutto il mondo e quindicimila attraverso i social. Si può dire che il Sinodo è iniziato molto prima della sua celebrazione, attraverso un’azione sensibile e convinta di ascolto delle comunità cristiane e soprattutto del mondo giovanile.

Il documento si muove secondo il metodo del discernimento: fa il punto sulla condizione giovanile; la interpreta secondo criteri che colgano gli indizi di futuro che essa racchiude; orienta alcune decisioni che saranno oggetto della valutazione e delle scelte dei padri sinodali.

Riconoscere, interpretare, scegliere sono i tre verbi che scandiscono la riflessione del documento e che dovranno guidare i lavori sinodali. “I giovani sono grandi cercatori di senso e tutto ciò che si mette in sintonia con la loro ricerca di dare valore alla propria vita suscita la loro attenzione e motiva il loro impegno” (n. 7); ma nel loro percorso spesso non trovano accanto a se’ adulti significativi, disposti ad accompagnarli nella loro ricerca, capaci di aprire loro prospettive, di far intravedere grandi orizzonti e di accogliere il loro bisogno di crescere e di realizzarsi secondo un progetto di vita di valore. Così, “il rapporto tra giovani e adulti rischia di rimanere soltanto affettiva, senza toccare la dimensione educativa e culturale” (n. 14). La giovinezza è la stagione delle scelte di fondo della vita, quelle che danno identità e configurano tutta l’esistenza; tali scelte spesso vengono compiute in un contesto di precarietà, dopo un percorso lungo e complicato che rischia di mortificare slanci e spegnere progettualità. Il difficile rapporto tra le generazioni rende faticoso per i giovani anche maturare scelte in ambito religioso, perché -come fa notare il documento- “una parte del disinteresse e dell’apatia dei giovani in tema di fede è imputabile alla difficoltà delle grandi istituzioni religiose nel sintonizzarsi con la coscienza moderna” (n. 25).

I giovani sono gli interpreti più sensibili di quelle sfide che segnano le culture del nostro tempo. Il documento cita alcune delle più significative: la concezione del corpo, dell’affettività e della sessualità, gli effetti antropologici del mondo digitale, la delusione delle istituzioni, la “cultura dell’indecisione” a fronte della sovrabbondanza delle proposte…

La seconda parte del documento, dedicata all’interpretare, rilegge la condizione giovanile secondo le parole chiave del Sinodo: vocazione e discernimento. La vocazione è intesa in senso ampio, come chiamata ad uscire da se stessi per realizzarsi nell’amore e nel dono di se’, secondo una pluralità di percorsi vocazionali. Discernimento poi è il “processo che conduce a fare chiarezza e verità su se stessi, accogliendo il dono della vita e trovare il contributo che si è chiamati ad offrire alla società e al mondo” (n. 109). Questo processo, che si compie nella coscienza, ha bisogno di un accompagnamento “in grado di liberare la libertà, la capacità di dono e di integrazione delle diverse dimensioni della vita in un orizzonte di senso”(n.121). La terza parte è dedicata a presentare alcuni cammini di conversione pastorale e missionaria. Per la Chiesa si tratta di rispondere alla domanda: come aiutare tutti i giovani, nessuno escluso, a incontrare il Signore, a sentirsi amati da Lui, a rispondere alla sua chiamata alla gioia dell’amore. Vengono così passati in rassegna molti strumenti e prassi pastorali che appartengono alla tradizione delle comunità cristiane, mostrando che ciò che conta non è la scelta di questa o quella, ma la pertinenza di ciascuna di esse alla situazione e al contesto concreto. A chi ha responsabilità nella comunità cristiana e’ chiesta una grande libertà interiore, capace delle scelte più adatte, nella disponibilità al cambiamento e alla novità. Una Chiesa che viva nella prospettiva della santità saprà mostrare ai giovani il suo volto giovane ed esercitare su di essi il fascino di ideali grandi.

A cura di Paola Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, si occupa di temi educativi ed è pubblicista.
Come membro del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Toniolo, segue la realizzazione del Progetto Giovani.

Pubblichiamo uno stralcio del messaggio della Commissione Episcopale per le migrazioni della CEI

Immigrazione, sfida pastorale

Nel Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018 papa Francesco, in continuità con il Magistero di Papa Benedetto e del Santo Papa Giovanni Paolo II, ha ribadito che «tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie responsabilità». I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è «senza dubbio una delle più grandi sfide educative».
Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza.
Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese.
«L’opera educativa – hanno ricordato sempre i Vescovi italiani – deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. Particolare attenzione va riservata al numero crescente di minori, nati in Italia, figli di stranieri». Per quanto riguarda nello specifico l’educazione dei giovani all’integrazione, sembra importante richiamare qui il ruolo che potrebbero avere alcune delle realtà che ruotano attorno alle parrocchie, in particolare quella degli oratori e dell’associazionismo.
Vogliamo ricordare inoltre che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente.

“Siate premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,13)

La realtà del fenomeno, la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare “processi educativi” che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere “segno” e “lievito” di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona, come ci ricorda papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».
a. Le migrazioni “segno dei tempi”
Un processo che inizia con un atto di umiltà e di ascolto di ciò che l’immigrazione, con i suoi volti, le sue storie, le sue domande dice a noi, comunità cristiane. Si tratta di cogliere le migrazioni come “un segno dei tempi”, come hanno ricordato gli ultimi Pontefici: un luogo frequentato da Dio, che chiede al credente di “osare” la solidarietà, la giustizia e la pace.
Leggere le migrazioni come “segno dei tempi” richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno. Prima ancora di “aprire” o “chiudere” gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici…
b. Uno sguardo purificato
Occorre avere uno sguardo diverso di fronte a coloro che bussano alle nostre porte, che inizia da un linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare. I termini stessi che spesso ancora utilizziamo per parlare di immigrati (clandestini, extracomunitari…) portano in sé una matrice denigratoria Se noi siamo parte di una comunità, essi ne sono esclusi.
c. Per una “convivialità delle differenze”
Incontrare un immigrato significa fare i conti con la diversità…. In questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno.
«Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore».
d. Dalla paura… all’incontro
Le paure si possono vincere solo nell’incontro con l’altro e nell’intrecciare una relazione. È un cammino esigente e a volte faticoso a cui le nostre comunità non possono sottrarsi, ne va della nostra testimonianza evangelica. Si tratta di riconoscere l’altro nella sua singolarità, dignità, valore umano inestimabile, di accettarne la libertà; significa riconoscere la sua peculiarità (di sesso, di età, di religione, di cultura,…) e desiderare di fargli posto, di accettarlo.
Tutto ciò senza rinnegare la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma riconoscendo che ve ne sono altre ugualmente degne.
e. Dall’incontro… alla relazione
Da un incontro vero nasce la relazione e il dialogo: non più una semplice conoscenza dell’altro, non più solo un confronto di identità, ma una conoscenza “simpatica” dei valori dell’altro. Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. È nel dialogo, allora, che si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi, e siamo indotti a riflettere sui nostri condizionamenti culturali, storici, psicologici, sociologici: siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità.
f. Dalla relazione… all’interazione
È questo il passaggio più difficile. L’integrazione è un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità.

Conclusione
«La civiltà ha fatto un passo decisivo – scriveva il cardinale e teologo Jean Daniélou – forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) […]. Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo». È il passo che le nostre comunità devono saper compiere, non dimenticando l’importanza dell’ospitalità che porta all’incontro: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI

Pubblichiamo uno stralcio del messaggio di Papa Francesco per la 52 ma Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali

«La verità vi farà liberi (Gv 8,32).
Fake news e giornalismo di pace»

Cari fratelli e sorelle,
nel progetto di Dio, la comunicazione umana è una modalità essenziale per vivere la comunione….
Ma l’uomo, se segue il proprio orgoglioso egoismo, può fare un uso distorto anche della facoltà di comunicare… L’alterazione della verità è il sintomo tipico di tale distorsione, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Oggi, in un contesto di comunicazione sempre più veloce e all’interno di un sistema digitale, assistiamo al fenomeno delle “notizie false”, le cosiddette fake news:

1. Fake news è un termine discusso e oggetto di dibattito. Con questa espressione ci si riferisce dunque a informazioni infondate, basate su dati inesistenti o distorti e mirate a ingannare e persino a manipolare il lettore. La loro diffusione può rispondere a obiettivi voluti, influenzare le scelte politiche e favorire ricavi economici.
L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. … Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità.

2. Come possiamo riconoscerle?
Non è impresa facile, perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli, e si avvale talvolta di meccanismi raffinati. … Da smascherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica del serpente”, capace ovunque di camuffarsi e di mordere. …La strategia di questo abile «padre della menzogna» (Gv 8,44) è proprio la mimesi, una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomo con argomentazioni false e allettanti. Nel racconto del peccato originale il tentatore, infatti, si avvicina alla donna facendo finta di esserle amico, di interessarsi al suo bene, e inizia il discorso con un’affermazione vera ma solo in parte: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). Ciò che Dio aveva detto ad Adamo non era in realtà di non mangiare di alcun albero, ma solo di un albero: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gen 2,17). La donna, rispondendo, lo spiega al serpente, ma si fa attrarre dalla sua provocazione: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (Gen 3,2). Questa risposta sa di legalistico e di pessimistico: avendo dato credibilità al falsario, lasciandosi attirare dalla sua impostazione dei fatti, la donna si fa sviare. Così, dapprima presta attenzione alla sua rassicurazione: «Non morirete affatto» (v. 4). Poi la decostruzione del tentatore assume una parvenza credibile : «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (v. 5). Infine, si giunge a screditare la raccomandazione paterna di Dio, che era volta al bene, per seguire l’allettamento seducente del nemico: «La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile» (v. 6). Questo episodio biblico rivela dunque un fatto essenziale per il nostro discorso: nessuna disinformazione è innocua; anzi, fidarsi di ciò che è falso, produce conseguenze nefaste. Anche una distorsione della verità in apparenza lieve può avere effetti pericolosi.
In gioco, infatti, c’è la nostra bramosia. Le fake news diventano spesso virali, ovvero si diffondono in modo veloce e difficilmente arginabile, non a causa della logica di condivisione che caratterizza i social media, quanto piuttosto per la loro presa sulla bramosia insaziabile che facilmente si accende nell’essere umano. Le stesse motivazioni economiche e opportunistiche della disinformazione hanno la loro radice nella sete di potere, avere e godere, che in ultima analisi ci rende vittime di un imbroglio molto più tragico di ogni sua singola manifestazione: quello del male, che si muove di falsità in falsità per rubarci la libertà del cuore. Ecco perché educare alla verità significa educare a discernere, a valutare e ponderare i desideri e le inclinazioni che si muovono dentro di noi, per non trovarci privi di bene “abboccando” ad ogni tentazione.

3. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)
La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità della persona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno, cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2).
Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità. Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, definendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, come l’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliare ciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere e contrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrinseco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, non si smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cose vere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Dai frutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a un’operosità proficua.

4. La pace è la vera notizia
Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone. Per questo l’accuratezza delle fonti e la custodia della comunicazione sono veri e propri processi di sviluppo del bene, che generano fiducia e aprono vie di comunione e di pace.
Desidero perciò rivolgere un invito a promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questa espressione un giornalismo “buonista”, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce; un giornalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale.

Papa Francesco

La Santità del quotidiano

Un primo pensiero, all’annuncio della nuova esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et exultate, sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, potrebbe essere questo: in un panorama mondiale segnato da così gravi problemi, un discorso del genere può suonare un po’ distante dalla realtà. Ma basta una prima veloce scorsa al testo per accorgersi che è tutto il contrario.
Ciò che è distante è piuttosto l’immaginario di santità che ci portiamo dietro da secoli e di cui fatichiamo tanto a liberarci: una santità che richiama un’atmosfera piuttosto cupa con immagini di santi dal collo storto e occhi all’insù. Una meta per pochi privilegiati, quasi irraggiungibile ai più. E invece papa Francesco ci parla dei «santi della porta accanto», di una santità feriale. Ci invita a riconoscere che siamo «circondati da una moltitudine di testimoni» tra cui «può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine».
E continua con altri esempi di persone «che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio», che «anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore». Il Papa ci incoraggia a lasciarci stimolare da questi segni di santità che il Signore ci presenta anche attraverso le persone più umili, e ad avere occhi aperti per individuare quelli che lo Spirito suscita «anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti».
Un famoso proverbio dice: “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Tutti questi segni feriali di santità non sono forse la foresta che cresce, che trasforma realmente il mondo dal basso, che «costruisce la vera storia»? I nostri orecchi sono frastornati dai boati delle cattive notizie e non siamo più capaci di “ascoltare il silenzio” della foresta che cresce.
Così il nostro cuore si appesantisce e gli occhi non sanno più vedere la luce del sole che continua ad illuminare la terra anche dietro le nubi più nere. Diventiamo gente che continua a lamentarsi, che non sa vedere il tanto bene che c’è, e non si sente neppure impegnata a farlo, perché: a cosa serve se tutto va a rotoli?
È significativa la citazione, riportata da Papa Francesco, di santa Teresa Benedetta della Croce, una donna ebrea convertita al cristianesimo, vissuta in un tempo non meno buio del nostro. Ha conosciuto l’atrocità dei campi di concentramento nazisti, dove è morta martire: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. (…) Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia».
Ma nell’esortazione apostolica del Papa c’è anche un’altra bella sottolineatura che contrasta con i nostri preconcetti: «Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza». Insomma, questa santità non è un percorso extraterrestre, ma un cammino che ci porta ad essere «più vivi, più umani», un cammino desiderabile, percorribile da tutti, che «non toglierà forze, vita e gioia», ma porterà a trovare il senso pieno della vita, la vera felicità. È proprio quello che abbiamo bisogno di sentirci dire.

Anna Maria Menin