Pentecoste: il dono dello Spirito Santo e il discernimento

Nella storia della spiritualità cristiana il discernimento spirituale è sempre stato ritenuto il dono assolutamente necessario per conoscere la volontà di Dio.
Possiamo delineare alcuni criteri che guidino il discernimento spirituale? Innanzitutto, il discernimento è un dono dello Spirito di Dio che si unisce al nostro spirito, e come tale va desiderato e invocato dal cristiano.
È lo Spirito santo che svolge un ruolo decisivo in tutto il processo del discernimento, e chi vuole intraprendere tale cammino deve predisporre tutto in sé affinché lo Spirito possa agire con la sua forza. Per ogni cristiano l’epiclesi, o invocazione dello Spirito, è il preambolo a ogni preghiera e azione, nella consapevolezza che la domanda dello Spirito è sempre esaudita da Dio, come Gesù ci ha assicurato: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono!» (Luca 11, 13).
Certamente la capacità di discernimento, di scelta, è in dotazione a ogni persona venuta al mondo: è il discernimento umano che procede dalla ragione e dall’intelletto. Ma il discernimento spirituale, che non viene da «carne e sangue» (cfr. Giovanni 1, 13), è un’operazione che ha come protagonista lo Spirito.
Nel battesimo il cristiano riceve il dono dello Spirito santo, e questa ricezione consapevole gli permette di conoscere ciò che viene da Dio, che umanamente può sembrare follia o essere scandalo, ma che alla luce dello Spirito appare sapienza e potenza di Dio (cfr. 1 Corinzi 1, 22-25).
Se queste sono le basi teologiche e rivelative del discernimento, come esercitare concretamente tale arte? Se infatti il discernimento spirituale è un dono dello Spirito che opera in noi, ogni persona ha però in sé delle facoltà umane che devono collaborare con esso. Lo Spirito santo agisce attraverso le nostre qualità intellettuali, perciò queste vanno riconosciute con docilità e messe in atto, affinché il credente sia abilitato alla ricezione di tale dono.
Per questo è innanzitutto necessario esercitarsi a vedere, ascoltare e pensare. Attenzione e vigilanza sono le virtù che ci permettono di entrare in un rapporto di conoscenza con la realtà, gli eventi, le persone. Saper vedere, ascoltare e pensare sono un’unica operazione, fondamentale per la nostra qualità umana e la nostra maturità.
Tutto ciò si situa a un livello di attività psicologica; ma nel credente, alla luce della fede e sotto l’egemonia del pensiero di Cristo, questa operazione è più che psicologica: c’è sinergia tra lo Spirito santo e le facoltà umane. Quando entriamo in relazione con le diverse realtà, noi facciamo esperienza di esse, iniziamo un processo di conoscenza e con la nostra intelligenza leggiamo, interpretiamo, riconosciamo il loro significato.
Ma per un credente questa attività umana va necessariamente svolta all’interno di una chiara consapevolezza: l’egemonia, il primato della parola di Dio.
Grazie all’ascolto della parola di Dio il cristiano accede alla fede (cfr. Romani 10, 17), nella Parola
trova il suo cibo quotidiano nel cammino verso il Regno, trova la vita vera (cfr. Giovanni 1, 4), che
vince il male e la morte. Chi si impegna nell’operazione del discernimento spirituale deve diventare un
ascoltatore assiduo della Parola, un servo della Parola al quale ogni mattino il Signore apre l’orecchio
perché ascolti come un discepolo (cfr. Isaia 50, 4); deve esercitarsi a rimanere, a sostare saldamente e
con fiducia nella Parola che è Cristo.
Per questo occorre essere consapevoli della presenza operante e viva della Parola di Dio contenuta nelle
sante Scritture, e quindi cercarla in esse, leggendole assiduamente, meditandole e conservandole nel
cuore, in modo che essa germogli e porti frutto. Grazie all’esercizio delle facoltà intellettuali e all’ascolto della Parola, si può acquisire una certa capacità, un sentire, un “senso spirituale”. Esso nasce soprattutto dall’ascolto della coscienza, del profondo del cuore, e diventa accoglienza di un’ispirazione, di una mozione interiore, di un “fiuto” che sa riconoscere la presenza del Signore e la manifestazione
della sua volontà.
Così può scaturire la decisione, il giudizio secondo lo Spirito, fino a essere una “decisione presa con
lui”, perché valutata ed emersa grazie alla sua forza ispiratrice. Decisione che sempre appare una scelta,
un amen all’ispirazione del Signore e un rifiuto convinto all’ispirazione del male, del demonio, al fine
di compiere la volontà di Dio.

Enzo Bianchi

Calendario pastorale

Domenica 29 ore 15.00 “L’oratorio si muove…” : partenza dall’oratorio per una uscita in bicicletta aperta ai ragazzi, alle famiglie e a tutti coloro che desiderano parteciparvi.
Ci recheremo a Bernate Ticino e mentre i ragazzi giocheranno in oratorio, gli adulti possono scegliere se continuare un giro sul naviglio o fermarsi in oratorio.

Mercoledì 2 ore 21.00 Riunione della commissione liturgica, presso la casa parrocchiale.

Giovedì 3 ore 17.00 Confessioni per i ragazzi/e della prima comunione, presso la chiesa parrocchiale
ore 21.00 Riunione catechiste di 5^ elementare , presso la casa parrocchiale.

Sabato 5 ore 11.00 Prove per la celebrazione della prima comunione, presso la chiesa parrocchiale.
ore 15.00 Meeting Preado del decanato di Magenta presso l’oratorio di Corbetta.
ore 21.00 Sala della comunità: teatro d’attore, “La campana di vetro” , a cura de “Asteroidea”.

Domenica 6 Giornata nazionale di sensibilizzazione dell’ 8 X mille alla Chiesa cattolica.
Sui tavolini all’ingresso della chiesa sono disponibili gli opuscoli informativi sulla gestione delle risorse dell’ 8 X mille e altre informazioni.

Il disordine della mente

Il disordine della mente è, possiamo dire, una situazione costante dell’esistenza, anche se non è avvertito. Lo si avverte quando si comincia a fare silenzio, a meditare regolarmente: allora si è assaliti da una folla di pensieri inutili, vani, disordinati, e il combatterli può diventare un vero martirio nascosto, una vera penitenza capace di supplire a tante altre penitenze esteriori. Ma è anche condizione di sanità psichica, perché chi riesce a disciplinare il mondo delle fantasie, degli affetti, dei desideri, dei timori, delle previsioni, delle fughe in avanti, delle nostalgie, ottiene una certa buona salute interiore. Altrimenti la persona è sempre sballottata da sentimenti diversi nei quali non sa orientarsi, e cambia rapidamente umore, reagendo in maniere di cui non sa neppure rendersi conto. La lotta contro il disordine della mente è una delle occupazioni più importanti per colui che vuole obbedire a Dio e abbandonarsi alla sua azione.

I diversi modi di disobbedienza della mente

Tra i tanti modi di disobbedienza della mente vorrei identificarne almeno alcuni. Molti sono semplicemente disturbanti e li chiamiamo distrazioni: vanno e vengono e però non militano direttamente contro l’obbedienza, pur se sono sempre capaci di diminuire la forza dello spirito.
Tuttavia, non di rado ci sono pensieri che assumono l’aspetto di vere disobbedienze alla fede, magari implicite o nascoste. Giobbe ne è un continuo esempio. Se rileggiamo il Libro da questo punto di vista, ci accorgiamo che Giobbe e i suoi amici esprimono, parlando, una sarabanda di idee parecchie delle quali tendono alla disobbedienza. Di esse abbiamo esperienza anche noi: pensieri, ad esempio, che frullano nella testa per farci ribellare alla situazione che stiamo vivendo; non accettazione di noi, del nostro fisico, della nostra famiglia, della nostra storia; non accettazione della società. Noi siamo, infatti, tenuti a combattere il male che è in essa, ma se sogniamo e fantastichiamo condizioni diverse, irreali, questo ci impedisce di amare, di servire, di contribuire a migliorare il mondo, perché continuamente ci presentano una situazione diversa da quella reale.
E ancora, non accettazione di essere peccatore, di avere sbagliato. Quante volte siamo vessati dall’autogiustificazione; soprattutto se criticati, a torto o a ragione, emerge nella nostra mente una lunga teoria di autogiustificazioni e ci rivediamo mille volte nella situazione per dire a noi stessi che gli altri non ci hanno capito e che noi abbiamo ragione.
Giobbe ci ha insegnato anche il pericolo della non accettazione, di non sapere chi siamo e se siamo giusti o meno, il pericolo del bisogno assoluto di definirci, di capirci nelle nostre radici. E c’è un modo di fare su di sé l’indagine psicologica o la psicanalisi, che sottende proprio questa bramosia: voglio possedermi fino in fondo e perciò perseguo una ricerca infinita di sogni, fantasie, tic nervosi, gesti inconsci, per riuscire a scoprire quel segreto di me così difficile da possedere.
Da questi pensieri si passa certamente a quelli di più diretta disobbedienza: la non accettazione di Dio. È, in fondo, la grande tentazione che pervade tutto il Libro di Giobbe.
Egli lo accetta, ed è il suo grande atto di fede, tuttavia la sua mente è sempre tentata di rifiutarlo, fino alla tentazione di disperazione e anche, nel senso negativo, di rassegnazione: non credo più in niente, non accetto più niente, non ho più voglia di niente.
Ecco il giro dei pensieri: si presentano in genere come innocui, occupano le prime ore del mattino, allo svegliarsi, ci assalgono nei tempi in cui non siamo molto impegnati e a un tratto invadono la nostra mente in modo che, riprendendo gli impegni, ci sentiamo tristi, fiacchi, deboli senza sapere il motivo. In realtà, non li abbiamo disciplinati attentamente, non li abbiamo fermati; così forme di esaltazione o di risentimento, di infatuazione o depressione o stizza contro noi stessi o contro altri sono entrate inconsciamente in noi che poi le abbiamo coltivate.
Potrei menzionare anche le fantasie di sensualità, i desideri, tutte quelle fantasticherie che magari surrettiziamente si insinuano in noi lasciandoci a un certo punto vuoti, poco invogliati a pregare, poco impegnati nella messa, nella recita del breviario: non comprendiamo il motivo, ma è semplicemente che ci siamo lasciati un po’ trastullare, senza accorgerci, da una serie di pensieri indisciplinati che hanno finito con lo svigorirci.
La scoperta di questo mondo interiore difficile è parte del cammino spirituale e ci conduce a ingaggiare una lotta continua e faticosissima.

C. M. Martini

Pronti a pensarci come Chiesa delle genti

Dopo una prima fase di ascolto capillare, il Sinodo diocesano entra ora in un momento successivo, cruciale per il suo sviluppo. È agli sgoccioli l’invio degli esiti della consultazione di base (frutto del lavoro di confronto e di ascolto fatto dalle parrocchie, dagli operatori della carità, dai preti e dal mondo della vita consacrata; ma anche da parecchie istituzioni educative, come pure da amministratori locali e dai migranti stessi), che ha fatto giungere alla commissione centinaia di risposte. Mostreremo i numeri e la consistenza di questa fase nelle tracce di riflessione che predisporremo per il consiglio presbiterale e pastorale diocesano.
La commissione in queste settimane è concentrata e al lavoro per stendere le sintesi e i testi che faranno da guida al momento strettamente sinodale, vissuto dai due consigli diocesani. Sono tante le indicazioni e i suggerimenti che ci sono giunti, come pure le indicazioni di fatiche e punti di tensione su cui lavorare. Emerge tuttavia con sempre maggiore lucidità un punto che fa da architrave al cammino che stiamo costruendo insieme: per essere all’altezza del cambiamento che la Chiesa di Milano sta vivendo non basta immaginare delle aggiunte o delle integrazioni agli stili che disegnano il nostro volto ecclesiale e la nostra vita di fede. Con più semplicità ma anche con maggiore coraggio occorre invece prepararci e a cambiare, a ripensarci come soggetti diversi, frutto di quel “noi” che è il risultato dell’azione di attrazione che il Crocifisso risorto continua ad esercitare nelle nostre vite e nella storia.
Un simile cambiamento non avviene a tavolino e nemmeno sarà frutto soltanto di documenti e di decreti. È opera di una Chiesa che tutta insieme si lascia guidare dallo Spirito santo; è frutto di una Chiesa che sa rimanere concentrata nella contemplazione del disegno che Dio le sta facendo realizzare dentro la storia degli uomini. Per questo motivo il lavoro delle parrocchie, il lavoro dei singoli cristiani e delle comunità non è finito: invitiamo tutti a leggere con attenzione le tracce che a breve pubblicheremo sul sito del Sinodo, per continuare a discernere assieme (passando i vari suggerimenti che vi verranno a qualche componente del consiglio presbiterale o pastorale) come Milano può essere Chiesa dalle genti.

Mons. Luca Bressan
Presidente della Commissione di coordinamento Sinodo “Chiesa dalle genti” Vicario episcopale Arcidiocesi di Milano

La solitudine necessaria e la forma del suo volto

L’uomo contemporaneo, quello del mondo liquido dove tutto è in continuo movimento e trasformazione, che la sovrabbondanza di stimoli, voci, impegni tende a sommergere, non è certo in posizione migliore dell’uomo del passato per risolvere questa ambivalenza. Una serie di inedite possibilità tecniche gli permettono di ascoltare vedere parlare scrivere chattare con chiunque in ogni momento.
Il ritmo frenetico impresso alle giornate lo fa passare da una attività all’altra, da un luogo all’altro, da un incontro all’altro sempre incalzato da ciò che lo aspetta.
Tenendosi sempre occupato finisce per essere incapace di fermarsi. Rimanendo sempre connesso rischia di non essere mai completamente solo.
Ma tutto questo non lo rende automaticamente più capace di relazioni: una espressione singolarmente efficace, come quella di autismo digitale, pone provocatoriamente l’accento proprio su questa possibilità: che l’essere sempre più connessi aumenti – anziché ridurle –le possibilità di isolarsi ciascuno nel proprio bozzolo.
Basta salire su un treno e osservare le persone sedute l’una accanto all’altra, ciascuna immersa nello schermo del proprio smartphone: trovarne due che parlino tra loro, anche tra quelle che viaggiano insieme, è cosa davvero rara. Eppure parliamo sempre con grande enfasi di dialogo e di comunicazione!
Giungiamo qui a una scoperta importante: occorre ben distinguere fra solitudine e isolamento. Quest’ultimo nega la possibilità di apertura all’altro (vissuta come minaccia, fatica, alterazione) e quindi nega il desiderio più profondo che ci abita, che è sempre desiderio dell’altro.
Insomma, l’isolamento nega la relazione. Mentre la solitudine afferma la relazione, anche quando l’altro è fisicamente assente: relazione con l’altro in cui mi imbatto, con l’altro che giace nella più intima profondità di me, con l’Altro per eccellenza che è Dio.
Chi può vivere la solitudine? Chi ha imparato, dalle relazioni concretamente vissute, che la presenza dell’altro non è fusione dove l’individualità va perduta, e che la sua assenza non è vuoto ed estraneità mortifera ma può diventare preparazione all’incontro. Chi ha scoperto che tra gli estremi di fusione e abbandono gli è possibile stare con se stesso: e, in questo, ha imparato ad accogliere e ad amare l’unicità irripetibile del suo volto. Scriveva Montaigne: «Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi».
Appunto, questo non è automatico, anzi è frutto di un allenamento anche faticoso.
Ma se evitiamo sistematicamente l’apprendistato della solitudine, se ne esoneriamo sempre i nostri ragazzi, corriamo il rischio di incrementare le possibilità di isolamento. Imparare ad essere soli è accettare di essere diversi dagli altri senza per questo avere l’impressione di smettere di esistere per gli altri.
Diventa ora possibile anche valutare le tante “compensazioni” della solitudine, cioè tutte quelle modalità che utilizziamo per attraversare l’essere soli: sono costruttive quelle che stanno nell’orizzonte della relazione, che fanno uscire l’io dall’auto-referenzialità e lo aprono al mondo, agli altri, alle cose: non necessariamente cercando compagnia! Leggere con passione partecipe un libro o ascoltare una registrazione o coltivare piante sul balcone può essere davvero uno stare-in-relazione. Per non parlare della preghiera.
Al contrario, ci sono strategie che all’apparenza riducono la solitudine, ma in realtà incrementano l’isolamento, l’auto-centratura dell’io: l’attivismo esasperato di chi non può mai fermarsi, certe forme di accudimento compulsivo di chi non può fare a meno di prendersi carico di tutto e di tutti (anche senza esserne richiesto!), il continuo bisogno di stordirsi ne sono eloquente testimonianza.
Che cosa favorisce l’apprendistato alla solitudine?
Prima di tutto la capacità di fermarsi, di porre una pausa intenzionale nel flusso continuo di attività e di stimoli che caratterizza molte nostre giornate; chi parla sempre, si muove sempre e agisce sempre non è mai con se stesso.
Poi il fare silenzio: l’animo di chi parla continuamente a poco a poco si impoverisce; il sentimento che si traduce sempre in parole, muore; anche la parola, per attingere ed esprimere la verità, ha bisogno di nascere dalla profondità del silenzio e non da un continuo sottofondo di rumore.
E ancora, il coltivare la vita interiore: chi non lo fa, finisce per essere senza un centro, per non elaborare realmente nulla, e per rispondere a tutto in termini di reazione immediata.
Di profondità interiore c’è bisogno per interrogarsi, per comprendere, per decidere: altrimenti si è solo informati su tutto, ci si esprime con luoghi comuni e si passa subito ad altro.
È così facile confondere il pensiero con le chiacchiere, il servizio con la frenesia faccendiera, l’informazione con la comprensione!
Forse, se avremo la pazienza di lavorare un po’ su noi stessi, le situazioni di solitudine oggettiva che la vita non mancherà di offrirci ci appariranno meno come circostanze avverse e sapremo coglierle come opportunità di vita buona, possibilità di far risplendere l’umano in noi.