Il Sinodo: evento spirituale, di chiamata e di conversione personale ed ecclesiale

Siamo nel momento cruciale e più generativo del sinodo diocesano: l’apparente silenzio della macchina sinodale è la cornice che dà spazio al suono prodotto dal fitto lavoro delle tante realtà ecclesiali che in modo capillare stanno trasformando l’annuncio e il discorso (la visione di una “Chiesa dalle genti”) in realtà, in carne ed ossa. Alcuni segnali raccolti muovendomi in Diocesi proprio per osservare tutto questo lavoro – e per imparare da esso – ci rimandano alcune constatazioni che rilancio come risorsa.
Sono impressionato anzitutto dalle energie e dalla disponibilità che i territori e i diversi soggetti ecclesiali stanno manifestando. Penso sia corretto leggere questo dato come un primo “miracolo”: l’indizione del Sinodo ha consentito al corpo ecclesiale di scoprire delle energie e delle risorse che nessuno di noi pensava avessimo. Se il frutto fosse già soltanto la capacità di attivare in ogni decanato un luogo in cui leggere e interpretare i segni delle trasformazioni che stiamo vivendo come Chiesa diocesana, sarebbe sicuramente un grande risultato! Ci troviamo dentro un corpo ecclesiale che sta reagendo in modo positivo, che sta entrando nel processo sinodale vivendo come un evento spirituale, di chiamata e di conversione personale ed ecclesiale.
Ulteriore osservazione: le energie e le azioni messe in campo possono essere rilette, alla luce  dell’esercizio contemplativo richiesto dal testo guida, come segni di quella dinamica di attrazione
esercitata dalla croce di Cristo che tutti siamo invitati a riscoprire dentro il cambiamento culturale e sociale delle nostre terre ambrosiane. Il Sinodo si rivela veramente come l’occasione per vedere la Chiesa mentre viene generata continuamente, in ogni epoca, dallo Spirito di Dio come corpo di Cristo. La radice teologica e spirituale del nostro lavoro pastorale davvero sta emergendo con chiarezza.
Da qui un compito irrinunciabile: occorre che i decanati diventino sempre più il cuore pulsante del Sinodo. Diventando cioè un laboratorio, un luogo in cui non soltanto si raccolgono ma si interpretano i dati raccolti dalle varie parrocchie e dalle altre realtà ecclesiali e civili, favorendo così lo sviluppo di una lettura nuova, capace di riconoscere i segni dello Spirito che genera la Chiesa. Se il Sinodo minore fosse l’occasione per la nascita di simili luoghi, ci troveremmo di fronte ad un’operazione rivoluzionaria: stiamo per attivare una nuova epoca di implantatio ecclesiae, di radicamento della fede cristiana dentro la cultura e la società così profondamente in cambiamento. Stiamo cioè operando per dare corpo, realtà e carne, alla visione della Chiesa dalle genti che ci guida.

Mons. Luca Bressan
Presidente della Commissione di coordinamento Sinodo “Chiesa dalle genti”
Vicario episcopale Arcidiocesi di Milano

Lo “spettacolo” della croce

Quando ti imbatti in una cosa bella, tu la racconti. E quando ti imbatti in una cosa vera, tu la ridici. Se hai capito che lo spettacolo del crocifisso è come una folgore che ha illuminato il cammino del mondo e di ogni uomo, allora tu lo dici a tutti, non puoi farne a meno. E se lo spettacolo ha cambiato la tua esistenza dandole forza e direzione, allora inviti tutti a guardarlo. Non c’è forza missionaria semplicemente in un vangelo per “sentito dire”. Né c’è forza missionaria in un ordine che sopravviene dall’eterno. La missione nasce dal di dentro. La forza missionaria nasce dall’aver capito che non è la stessa cosa conoscere Cristo e non conoscerlo. La missione nasce dalla consapevolezza di aver incontrato una verità, che tutti gli uomini – lo sappiano o no – vanno cercando. Ma non è tutto. Sono convinto che l’incoercibile bisogno di invitare tutti allo spettacolo nasca anche – e soprattutto – dal desiderio di mostrare ciò che Dio ha fatto. Utile o non utile, ciò che Dio ha fatto è troppo grande per non essere raccontato. (Bruno Maggioni).

Solitudine: sfida contemporanea

Ha fatto scalpore la decisione del Governo britannico di istituire un ministero per la solitudine, con lo scopo di affrontare la sfida di questa «triste realtà della vita moderna» che colpisce un altissimo numero di persone. Si va, «dagli anziani, a quelli che hanno perso persone care o che non hanno nessuno con cui parlare e con cui condividere pensieri o esperienze». Non è difficile ritenere che questa sfida, in forme diverse, ci riguarda tutti: a uno sguardo puramente esteriore la vita di ognuno di noi appare come il viaggio più o meno breve che ciascuno compie lottando in prima persona con le tenebre che tutto sembrano avvolgere, dal prima che è dietro di noi a ciò che è dopo di noi, fino all’ultimo silenzio della morte. È la condizione espressa in maniera folgorante dalla lirica di Salvatore Quasimodo: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera». La solitudine è insomma esperienza originaria, propria della condizione umana: che cos’è l’esistenza se non lo star fuori (“ex-sistere”), l’uscire da un grembo avvolgente per essere gettati nella solitudine di un’avventura unica e irripetibile? E chi non è solo davanti all’imminenza della fine che tutto sovrasta?
Forse, perciò, il venire alla luce o l’andare incontro al buio oltre la vita sono entrambi accompagnati dal segnale di una ferita lacerante: «On entre, on crie – Et c’est la vie ! – On baîlle, on sort – Et c’est la mort» – «Si entra, si grida: è la vita! Si ansima, si esce: ed è la morte» (Ausone de Chancel). L’intervallo tra questo duplice sospiro, quello della nascita e quello della morte, è appunto la vita, come soffio che passa. Si comprende, allora, perché vivere significhi in fondo imparare a morire e come in questa lotta contro l’ultima nemica, la morte, nessuno possa sostituirsi a un altro: si è soli.
C’è un canto dei “chassidim” – i pii Ebrei della diaspora – che esprime bene questa condizione di solitudine davanti al dolore e alla fine: «Quando il rabbino danza, tutti i chassidim danzano con lui; quando il rabbino canta, tutti i chassidim cantano con lui… Quando il rabbino piange, egli piange da solo». L’esperienza del dolore ci mette a nudo di fronte alla verità di noi stessi: in essa si è soli nell’essenziale povertà di ciò che siamo. Marguerite Yourcenar, nei carnets de notes delle sue “Memoires d’Adrien” – straordinario romanzo della solitudine umana – scrive, quasi a evocare l’intuizione da cui furono concepite quelle pagine: «Quando gli dei ormai non ci furono più, e il Cristo ancora non c’era, l’uomo solo è stato». Questa frase fa intuire come siano due le possibili alternative con cui affrontare la solitudine esistenziale: quella degli idoli o quella del Cristo.
La prima è la via “pagana”: popolare l’universo di idoli da noi stessi prodotti, che riempiano i vuoti delle nostre solitudini per sfuggire a esse. In antico questi idoli erano gli dèi del paganesimo, oggi sono quelli del consumismo e dell’edonismo rampante. Ci si stordisce con i mezzi dell’avere, del potere o del piacere, illudendosi che il tarlo della solitudine davanti alla vita e alla morte sia stato sconfitto. L’esistenza si trasforma così in un ballo in maschera più o meno vistoso, dove occorre recitare ciascuno la propria parte, dando tanta importanza all’effimero da credere che esso non sia illusorio, ma duraturo e vincente. Si vive per guadagnare, dominare o godere, bruciando uno dopo l’altro gli istanti del tempo che passa, come se ognuno di essi fosse una possibile, beata eternità, da conquistare e possedere senza limiti. Le relazioni apparenti nascondono così la folla delle solitudini. A questo modo di vivere si oppone, però, la nostra capacità di pensare e di porci domande: è nell’accettare la fatica dell’interrogazione, l’inquietudine del sospetto e la ferita del dubbio, che l’idolo si va sbriciolando. Si capisce allora che la vita non può consistere in un continuo fuggire dalla morte, che essa anzi trova la sua dignità più vera nel guardare in faccia la morte e lottare contro di essa. Il coraggio di esistere (come direbbe Paul Tillich: «The courage to be»), la volontà di dare risposta alle domande sul senso di ciò che siamo, di ciò che facciamo, sono la sola medicina contro la vacuità dell’esistenza. È possibile, insomma, capovolgere l’evidenza: se la vita ci appare come il cammino verso l’ultimo silenzio della morte, ciò che vince quest’evidenza è l’uomo pensante, l’uomo che non rinuncia a cercare, che non si fa negligente davanti al compito di dare un senso alle sue opere e ai giorni. Quest’uomo che domanda non si arrende alla vittoria della solitudine e della morte.
Sono, allora, il nostro pensare, il nostro amare, il nostro sperare nonostante tutto, a dare dignità e senso alla vita e alla morte. È qui che si affaccia l’altra possibilità che ci è data per affrontare la radicale solitudine del nostro esistere in modo pienamente umano: se si dovesse indicare un’icona di questa via differente, nessuna sarebbe più adatta che quella del Profeta galileo nell’ora del Getsemani, il Figlio eterno venuto fra noi, solo davanti alla sua vita e alla sua morte. Egli ben conobbe la solitudine dolorosa: «Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me!». Fu però proprio in essa che, affidandosi al Padre, egli trasformò il dolore in amore, il soffrire in offerta. La sua solitudine fra gli ulivi del Getsemani si offre allora come rivelazione di una comunione più grande, quella del Dio sempre vicino e della scelta di voler esistere, morire e risorgere alla vita per tutti con Lui e in Lui. Quest’approdo non è naufragio, né rinuncia a dare senso al vivere e al morire, ma è come la lotta di Giacobbe con l’Angelo portata al vertice supremo, è il dare valore e significato alla solitudine di tutti trasformando la fine in inizio, la sconfitta in vittoria. Un testimone di Cristo al cuore del secolo drammatico dei totalitarismi, delle guerre mondiali e degli stermini, il teologo evangelico Dietrich Bonhoeffer, nell’ora ultima della sua solitudine di condannato a morte dalla barbarie nazista, confidò a un militare inglese, suo compagno di prigionia, la sua certezza profonda: «Now is the end. For me the beginning of life» – «Ora è la fine. Per me, l’inizio della vita». Dove si ama e si offre la vita per una causa di amore più grande, lì la solitudine è vinta ed è vinta la morte. Lì l’Eterno è presente con la sua accoglienza ultima e vittoriosa, che gli occhi della fede, esperti dell’Invisibile, possono riconoscere affinché il cuore si affidi.

Bruno Forte – Arcivescovo di Chieti-Vasto

Politiche 2018: piccola guida per elettori confusi

In occasione delle prossime elezioni politiche offriamo uno stralcio di un articolo di Giacomo Costa
tratto da “ Aggiornamenti Sociali”.
Inizio passando in rassegna alcuni dei sentimenti che ci accompagnano in questo tempo. Il primo è probabilmente l’indifferenza: quella cronica di chi è interessato solo al proprio privato; quella di chi fatica a percepire la rilevanza della posta in gioco, visto che sempre di più le questioni cruciali si decidono fuori dal Parlamento; quella di chi non segue la politica e non si sente competente a prendere una decisione, arrivando magari a considerare l’astensione come una scelta di onestà. Ma c’è anche una indifferenza che non si astiene, quella di coloro che votano per abitudine o inerzia sempre lo stesso partito (o un suo succedaneo): se questo poteva funzionare nella politica del Novecento, quando i partiti mantenevano un ancoraggio almeno di facciata a un’ideologia, nel contesto attuale non sembra avere
molto più senso.
Altrettanto diffusi sono confusione e incertezza, complici anche alcune peculiarità dell’attuale congiuntura, dal tramonto del bipolarismo a una legge elettorale mai sperimentata. Verosimilmente dalle urne non uscirà un vincitore con numeri che gli permettano di governare da subito. Si modificheranno schieramenti e alleanze dopo il voto? In modo coerente con la volontà degli elettori? Anche esaminando i programmi risulta difficile capire per che cosa si vota: le proposte di partiti e movimenti sono modellate a misura di sondaggio per “catturare” voti, senza preoccuparsi di coerenza o fattibilità.
Circolano poi tanta rabbia e tanto disgusto, che possono derivare dal sentirsi dimenticati dalle istituzioni anziché tutelati: sono sentimenti da interrogare, cercando di valutare la fondatezza della pretesa o aspettativa che si ritiene frustrata. Un capitolo a parte sono le reazioni al malaffare e ai crimini commessi dai politici: l’astensione è spesso vissuta come un modo per non sporcarsi la coscienza e non sentirsi complici. Ma c’è rabbia anche in molti militanti di movimenti “dirompenti” anti-casta, anti-sistema, magari accompagnata da una fiducia cieca che porta a usare pesi e misure diverse per i propri beniamini e per tutti gli altri, perché in qualcuno bisogna pur credere. Raffreddandosi, frequentemente la rabbia diventa Nonostante tutto – abbiamo il dovere di riconoscerlo – non manca nemmeno la trepidazione, quel sussulto di speranza che ci assale quando all’orizzonte compare qualcosa o qualcuno di nuovo: «Sarà la volta buona? Sarà quello giusto per uscire dalla palude?». La speranza del bene non muore, e questa è una risorsa; il problema è quando si declina in un’attesa messianica, che collude con la personalizzazione e il leaderismo della nostra politica, senza diventare generatrice di impegno.
Tenere saldamente i piedi per terra senza rinunciare alla passione per il nostro Paese e mettere in gioco tutte le proprie risorse, razionali ed emotive: sono questi i punti dell’esercizio pre-elettorale che vi sto proponendo.
Nella prospettiva che provo a tracciare, l’astensione è una opzione da non ridicolizzare né  demonizzare, e non è sempre sinonimo di rinuncia e disimpegno, ma, come ho già sottolineato, oggi va riconosciuta come una opzione insostenibile, specialmente nel lungo periodo. La sua forza attrattiva va interrogata e ascoltata, e ci invita a renderci conto che la fine delle ideologie ci ha privato di un apparato di controllo degli eletti, obbligando i cittadini ad assumersi la responsabilità di una interazione continua con i propri rappresentanti. Proprio come il consumo critico evidenzia la forza del “voto col portafoglio” come esercizio quotidiano di pressione sulle imprese, abbiamo bisogno di crescere
nella capacità propositiva a livello di società civile e nell’esercizio di forme di cittadinanza attiva. La ciclica lamentela sulla decadenza dei costumi senza alcuna attivazione lascerà sempre il tempo che trova.
Il principio di realtà ci spingerà a prendere distanza dalla seduzione di un leader forte, capace di risolvere ogni problema, o di un partito a cui affidare una sorta di delega in bianco onnicomprensiva: una proiezione a scala nazionale dell’immaginario infantile del genitore tanto onnipotente quanto inesistente. La domanda di concretezza che gli elettori esprimono ci condurrà a partire dai bisogni di chi abita il Paese più che dalle ideologie, facendo
però attenzione al rischio della chiusura individualistica, che assolutizza il proprio bisogno immediato e ne scambia la frustrazione, magari parziale o provvisoria, con il fallimento del sistema sociale e politico. In chiave sociologica i bisogni restano una fonte di conflitto e di tensione senza fine, anche perché sono illimitati, oltre a prestarsi a essere manipolati in chiave consumistica. A livello di vissuto personale sono fonte di paure e di entusiasmi, per cui dobbiamo imparare a riconoscerli e articolarli. Altrimenti attenzione ai bisogni e concretezza scivoleranno velocemente verso una politica fondata sul puro auto-interesse, senza alcuna considerazione per il bene comune. È proprio il principio di realtà a imporre di confrontare l’illimitatezza dei bisogni con la scarsità delle risorse, ponendo la domanda della sostenibilità anche in chiave intergenerazionale. Non si tratta di considerazioni teoriche: alla base di tante politiche dell’amministrazione Trump – dalle questioni energetiche a quelle internazionali – sembra esserci l’incapacità di uscire dalla logica del puro auto-interesse immediato, che ritroviamo in tanti slogan, da “America first” a “Prima gli italiani”.
Il richiamo del “prima noi” – se non addirittura “prima io” – è potente, e non solo per i politici; infatti lo riconosciamo in tanti comportamenti generalizzati, a partire dell’evasione fiscale. Si tratta di pretese sempre più spesso “sdoganate” e dichiarate legittime, che ci conducono nella direzione opposta a quella della coesione e dell’«amicizia sociale». Quanti e quali partiti e candidati resistono ad assecondare o addirittura ad alimentare questa tendenza? Invece quello di cui abbiamo bisogno è costruire spazi di dialogo e di mediazione, recuperare la capacità di articolare differenze e pluralità: pare saggio allora scegliere una classe politica almeno potenzialmente capace di accompagnare questo percorso. A urne chiuse, la nuova legge elettorale obbligherà probabilmente gli eletti a trovare accordi e mediazioni: è bene che cooperiamo scegliendo persone capaci di farlo. La sfida si ripropone anche a livelli più alti: ce ne dimentichiamo spesso, ma se non vogliamo rassegnarci a un progressivo ripiegamento su noi stessi, chi eleggeremo sarà chiamato a partecipare, a nostro nome, al governo della globalizzazione e allo sforzo
di riprogettazione della casa comune europea.
La capacità di dialogo e di mediazione sarà preziosa in questi contesti.
Per queste ragioni abbiamo bisogno di più politica, non di meno. Votare “per realtà” è meno attraente che votare “per entusiasmo” – forse questa è una delle ragioni che rendono difficile ai più giovani pensare di recarsi alle urne – , ma questo non ne sminuisce l’importanza. Anzi sfida la nostra responsabilità e maturità a misurarsi anche con i limiti della democrazia e le sue contraddizioni: ne siamo tutti più che consapevoli, ma la riduzione della partecipazione non farà che esaltarli. Il percorso che questo editoriale vi propone è uno strumento per esercitare in
modo consapevole la responsabilità di votare: non ci sarà una politica adulta senza elettori maturi.

Messaggio di Papa Francesco per la XXVI Giornata Mondiale del malato – 11 febbraio

Cari fratelli e sorelle,
il servizio della Chiesa ai malati e a coloro che se ne prendono cura deve continuare con sempre rinnovato vigore, in fedeltà al mandato del Signore (cfr Lc 9,2-6; Mt 10,1-8; Mc 6,7-13) e seguendo l’esempio molto eloquente del suo Fondatore e Maestro. Quest’anno il tema della Giornata del malato ci è dato dalle parole che Gesù, innalzato sulla croce, rivolge a sua madre Maria e a Giovanni: «“Ecco tuo figlio … Ecco tua madre”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).

1. Queste parole del Signore illuminano profondamente il mistero della Croce. Essa non rappresenta una
tragedia senza speranza, ma il luogo in cui Gesù mostra la sua gloria, e lascia le sue estreme volontà
d’amore, che diventano regole costitutive della comunità cristiana e della vita di ogni discepolo.
Innanzitutto, le parole di Gesù danno origine alla vocazione materna di Maria nei confronti di tutta l’umanità.
Lei sarà in particolare la madre dei discepoli del suo Figlio e si prenderà cura di loro e del loro cammino. E noi sappiamo che la cura materna di un figlio o una figlia comprende sia gli aspetti materiali sia quelli
spirituali della sua educazione.
Il dolore indicibile della croce trafigge l’anima di Maria (cfr Lc 2,35), ma non la paralizza. Al contrario, come Madre del Signore inizia per lei un nuovo cammino di donazione. Sulla croce Gesù si preoccupa della Chiesa e dell’umanità intera, e Maria è chiamata a condividere questa stessa preoccupazione. Gli Atti degli Apostoli, descrivendo la grande effusione dello Spirito Santo a Pentecoste, ci mostrano che Maria ha iniziato a svolgere il suo compito nella prima comunità della Chiesa. Un compito che non ha mai fine.

2. Il discepolo Giovanni, l’amato, raffigura la Chiesa, popolo messianico. Egli deve riconoscere Maria come propria madre. E in questo riconoscimento è chiamato ad accoglierla, a contemplare in lei il modello del discepolato e anche la vocazione materna che Gesù le ha affidato, con le preoccupazioni e i progetti che ciò comporta: la Madre che ama e genera figli capaci di amare secondo il comando di Gesù. Perciò la vocazione materna di Maria, la vocazione di cura per i suoi figli, passa a Giovanni e a tutta la Chiesa. La comunità tutta dei discepoli è coinvolta nella vocazione materna di Maria.

3. Giovanni, come discepolo che ha condiviso tutto con Gesù, sa che il Maestro vuole condurre tutti gli
uomini all’incontro con il Padre. Egli può testimoniare che Gesù ha incontrato molte persone malate nello spirito, perché piene di orgoglio (cfr Gv 8,31-39) e malate nel corpo (cfr Gv 5,6). A tutti Egli ha donato misericordia e perdono, e ai malati anche guarigione fisica, segno della vita abbondante del Regno, doveogni lacrima viene asciugata.
Come Maria, i discepoli sono chiamati a prendersi cura gli uni degli altri, ma non solo. Essi sanno che il
cuore di Gesù è aperto a tutti, senza esclusioni. A tutti dev’essere annunciato il Vangelo del Regno, e a tutti coloro che sono nel bisogno deve indirizzarsi la carità dei cristiani, semplicemente perché sono persone, figli di Dio.

4. Questa vocazione materna della Chiesa verso le persone bisognose e i malati si è concretizzata, nella
sua storia bimillenaria, in una ricchissima serie di iniziative a favore dei malati. Tale storia di dedizione non va dimenticata. Essa continua ancora oggi, in tutto il mondo. Nei Paesi dove esistono sistemi di sanità pubblica sufficienti, il lavoro delle congregazioni cattoliche, delle diocesi e dei loro ospedali, oltre a fornire cure mediche di qualità, cerca di mettere la persona umana al centro del processo terapeutico e svolge ricerca scientifica nel rispetto della vita e dei valori morali cristiani.
Nei Paesi dove i sistemi sanitari sono insufficienti o inesistenti, la Chiesa lavora per offrire alla gente quanto più è possibile per la cura della salute, per eliminare la mortalità infantile e debellare alcune malattie a larga diffusione. Ovunque essa cerca di curare, anche quando non è in grado di guarire. L’immagine della Chiesa come “ospedale da campo”, accogliente per tutti quanti sono feriti dalla vita, è una realtà molto concreta, perché in alcune parti del mondo sono solo gli ospedali dei missionari e delle diocesi a fornire le cure necessarie alla popolazione.

5. La memoria della lunga storia di servizio agli ammalati è motivo di gioia per la comunità cristiana e in
particolare per coloro che svolgono tale servizio nel presente. Ma bisogna guardare al passato soprattutto per lasciarsene arricchire. Da esso dobbiamo imparare: la generosità fino al sacrificio totale di molti fondatori di istituti a servizio degli infermi; la creatività, suggerita dalla carità, di molte iniziative intraprese nel corso dei secoli; l’impegno nella ricerca scientifica, per offrire ai malati cure innovative e affidabili.
Questa eredità del passato aiuta a progettare bene il futuro. Ad esempio, a preservare gli ospedali cattolici dal rischio dell’aziendalismo, che in tutto il mondo cerca di far entrare la cura della salute nell’ambito del mercato, finendo per scartare i poveri. L’intelligenza organizzativa e la carità esigono piuttosto che la persona del malato venga rispettata nella sua dignità e mantenuta sempre al centro del processo di cura.
Questi orientamenti devono essere propri anche dei cristiani che operano nelle strutture pubbliche e che
con il loro servizio sono chiamati a dare buona testimonianza del Vangelo.

6. Gesù ha lasciato in dono alla Chiesa la sua potenza guaritrice: «Questi saranno i segni che
accompagneranno quelli che credono: […] imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17-
18). Negli Atti degli Apostoli leggiamo la descrizione delle guarigioni operate da Pietro (cfr At 3,4-8) e da
Paolo (cfr At 14,8-11).
Al dono di Gesù corrisponde il compito della Chiesa, la quale sa che deve portare sui malati lo stesso
sguardo ricco di tenerezza e compassione del suo Signore. La pastorale della salute resta e resterà sempre un compito necessario ed essenziale, da vivere con rinnovato slancio a partire dalle comunità parrocchiali fino ai più eccellenti centri di cura.
Non possiamo qui dimenticare la tenerezza e la perseveranza con cui molte famiglie seguono i propri figli, genitori e parenti, malati cronici o gravemente disabili. Le cure che sono prestate in famiglia sono una testimonianza straordinaria di amore per la persona umana e vanno sostenute con adeguato
riconoscimento e con politiche adeguate. Pertanto, medici e infermieri, sacerdoti, consacrati e volontari,
familiari e tutti coloro che si impegnano nella cura dei malati, partecipano a questa missione ecclesiale. E’ una responsabilità condivisa che arricchisce il valore del servizio quotidiano di ciascuno.

7. A Maria, Madre della tenerezza, vogliamo affidare tutti i malati nel corpo e nello spirito, perché li sostenga nella speranza. A lei chiediamo pure di aiutarci ad essere accoglienti verso i fratelli infermi. La Chiesa sa di avere bisogno di una grazia speciale per poter essere all’altezza del suo servizio evangelico di cura per i malati.
Perciò la preghiera alla Madre del Signore ci veda tutti uniti in una insistente supplica, perché ogni membro della Chiesa viva con amore la vocazione al servizio della vita e della salute. La Vergine Maria interceda per questa XXVI Giornata Mondiale del Malato; aiuti le persone ammalate a vivere la propria sofferenza in comunione con il Signore Gesù, e sostenga coloro che di essi si prendono cura. A tutti, malati, operatori sanitari e volontari, imparto di cuore la Benedizione Apostolica.