Commento al Padre Nostro “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”

La richiesta su cui oggi ci fermiamo è la più naturale e semplice fra quelle contenute nella preghiera insegnata da Gesù ai discepoli. Lo ha colto molto bene Benedetto XVI, quando ha affermato: «La quarta domanda del Padre Nostro ci appare come la più “umana” di tutte. Il Signore, che orienta il nostro sguardo su ciò che è essenziale, sull’“unica cosa necessaria”, sa però anche delle nostre necessità terrene e le riconosce. Egli, che ai suoi discepoli dice: “Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete” (Mt 6, 25), ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio».
Gesù ha vissuto in quel mondo mediterraneo in cui il pane significa tanto nell’alimentazione e nella vita quotidiana. È l’alimento di base della dieta della maggior parte delle popolazioni del Mediterraneo: spesso la base su cui si pongono condimenti o altri cibi, l’elemento essenziale per le diete più povere. Il pane è quindi tanto presente nella Scrittura, perché era ben presente nella cultura e nella vita quotidiana. Certamente per il mondo ebraico, il pane era il cibo essenziale. Per altre culture non è così.
Dovremmo parlare invece di riso o di altro cibo di base. Non è così nella cultura e nella dieta di noi europei, per cui il pane è molto importante. Il pane è un alimento povero, oltre a essere un alimento basico: sostegno all’esistenza concreta di ciascuno. […] La globalizzazione ci mette rapidamente a parte delle notizie da tutto il mondo. Si sa molto e presto: la fame di terre lontane, le difficoltà, i bisogni. L’immagine del dolore ci raggiunge. Le società europee sono capaci di pensare in termini di condivisione? O tutto quello che è destino comune finisce per essere visto come giogo?
La quarta domanda del Padre Nostro restituisce il senso minimale di fraternità per cui almeno il pane, almeno il pane dell’oggi, dev’essere messo in comune. Non i grandi investimenti, non le grandi strategie. Non le visioni del futuro, non i programmi dalla lunga durata. Ma almeno il pane. Il pane per l’oggi. Siamo in un tempo in cui il pane degli altri interessa relativamente: forse anche in una stagione in cui cambiare il mondo non è più di moda. Ma il Vangelo ci aiuta a incamminarci su una strada nuova.
È il cammino del Maestro, che non passò indifferente di fronte ai malati, ai lebbrosi, agli affamati, alle lacrime delle donne e al dolore degli uomini. Chi salva una fragile vita cambia il mondo. Chi dà il pane cambia il mondo. La globalizzazione in corso non significa automaticamente un’assunzione globale di responsabilità. Anzi. Sta a noi fare una scelta. Sta a noi vivere quella globalizzazione del cuore che il Padre Nostro insegna. La Chiesa, comunione universale, ha la globalizzazione nei suoi cromosomi. Ma bisogna allargare la solidarietà. La lontananza non ci condanna all’indifferenza.
Questo è il punto! Cinquant’anni fa, il 9 febbraio 1966, Paolo VI lanciò un grande appello per la fame in India, dove si era recato rimanendone assai colpito: «Ci siamo ricordati del miracolo della moltiplicazione dei pani! Noi non abbiamo affatto la virtù prodigiosa di Cristo di far scaturire pane dalle nostre mani impotenti. Ma abbiamo pensato che il cuore dei buoni può compiere questo miracolo… Nessuno oggi può dire: io non sapevo. E, in un certo senso, nessuno oggi può dire: io non potevo, io non dovevo. La carità tende a tutti la sua mano. Nessuno osi rispondere: io non volevo!».
Chi ha imparato a dire «Dacci oggi il nostro pane quotidiano », rifletta su ognuna di queste parole di Paolo VI: «Io non potevo», «Io non dovevo» o «Io non volevo »! In questo mondo globale i cristiani possono essere una riserva di umanità e la profezia di un mondo in cui il lontano non è senza volto e senza parola. Siamo partiti da una tentazione e da un sogno. Il sogno di uomini che vivevano in una terra con molte pietre aride e poche spighe. La tentazione dell’Avversario a Gesù: «Di’ a questa pietra che diventi pane». Riflettendo sul Padre Nostro scopriamo un altro sogno: quello di Dio. Il sogno di crescere uomini che mettono in comune il pane, ogni giorno. […] Dare il pane quotidiano. Bisogna allargare la solidarietà.
È necessario tener viva la memoria di chi soffre, mostrare vie percorribili ai nostri concittadini per essere solidali, far crescere la cultura della solidarietà nei nostri paesi. Penso a quell’ondata d’interesse che passa attraverso le adozioni a distanza, capaci di creare un rapporto tra persona e persona. L’ondata d’interesse per i corridoi umanitari con cui sono state salvate dai trafficanti di uomini le vite di tanti siriani in fuga dalla guerra. Nonostante la crisi non si può nascondere che esiste in Italia una generosità, rivelatrice della voglia dei nostri concittadini di aiutare i lontani.
Dobbiamo mostrare che ci sono vie per cui la solidarietà è possibile: è possibile aiutare ad avere
il pane, la parola e la pace. La gente cerca di amare. Chi cerca di amare senza saperlo cerca anche
colui che è l’amore. La lontananza non ci condanna all’indifferenza. L’amore ci porta vicini a chi
soffre lontano. I cristiani, in questo mondo globalizzato, sono chiamati ad avere una spiritualità
aperta all’universale, senza dimenticare certo il vicino. E non c’è universalità migliore che la
partecipazione ai dolori di chi è povero o di chi soffre. È il senso dell’appello lanciato da Paolo
VI per la fame in India.
I cristiani sono quelli che non dicono: io non potevo o io non dovevo o io non volevo! In questo mondo globale, possono essere una riserva di umanità e la profezia di un mondo in cui il lontano non è senza volto e senza parola. È un mondo in cui il lontano si fa vicino, mentre si lanciano tanti ponti, fatti della solidarietà del pane, della parola, della pace, sull’abisso di distanza, d’indifferenza, d’incomprensione, che divide i popoli. L’indifferenza allarga gli abissi.
La carità tende a tutti la sua mano e così impercettibilmente –come il movimento tellurico –
avvicina i mondi. Per concludere vorrei citare un grande filosofo russo, Nikolaj A. Berdjaev, che in un certo senso riassume con profondità la questione affrontata: «Quella del pane è per me una questione materiale; ma la questione del pane per il mio prossimo, per gli uomini di tutto il mondo, è una questione spirituale e religiosa. La società dev’essere organizzata in modo tale che vi sia pane per tutti; soltanto allora la questione spirituale si porrà davanti all’uomo in tutta la sua profonda essenza».

Marco Impagliazzo

Lettera dell’Arcivescovo alla conclusione della visita pastorale feriale

Carissime e carissimi,
con questa lettera desidero raggiungere tutti i battezzati, le donne e gli uomini delle religioni e di buona volontà, per esprimere la mia gratitudine per il dono della Visita Pastorale Feriale giunta ormai alla sua conclusione.
Nelle sue tre fasi, essa ha consentito a me e ai miei collaboratori di toccare con mano la vita di comunione in atto nella Chiesa ambrosiana, non certo priva di difficoltà e di conflitti e tuttavia appassionata all’unità. La preparazione della Visita, svoltasi in modo forse un po’ diseguale nei vari decanati, l’atteggiamento di ascolto profondo in occasione dell’assemblea ecclesiale con l’Arcivescovo, la cura nell’accogliere nelle realtà pastorali il Vicario di Zona o il Decano, e la proposta del passo da compiere sotto la guida del Vicario Generale, hanno confermato ai miei occhi la vitalità di comunità cristiane non solo ben radicate nella storia secolare della nostra Chiesa, ma capaci di tentare, su suggerimento dello Spirito, adeguate innovazioni. Questa attitudine di disponibilità al cambiamento l’ho toccata con mano sia nelle parrocchie del centro, sia nelle grandi parrocchie di periferia, esplose negli ultimi sessant’anni, sia nelle città della nostra Diocesi, sia nelle parrocchie medie e piccole.
È stata però la Visita del Papa a farmi cogliere nitidamente l’elemento che unifica le grandi diversità che alimentano la nostra vita diocesana. La venuta tra noi del Santo Padre è stata, infatti, un richiamo così forte da rendere visivamente evidente che la nostra Chiesa è ancora una Chiesa di popolo. Certo, anche da noi il cambiamento d’epoca fa sentire tutto il suo peso. Come le altre metropoli, siamo segnati spesso da un cristianesimo “fai da te”: ce l’hanno testimoniato gli arcivescovi di grandi Chiese in tutto il mondo che in Duomo hanno raccontato l’esperienza delle loro comunità. Non manca confusione su valori imprescindibili; spesso non è chiaro il rapporto tra i diritti, i doveri e le leggi… Ma è inutile insistere troppo sull’analisi degli effetti della secolarizzazione su cui ci siamo soffermati in tante occasioni. Più utile, anzi necessario, è domandarci – con ancora negli occhi il popolo della Santa Messa nel parco di Monza, l’incontro con i ragazzi a San Siro, l’abbraccio al Santo Padre degli abitanti delle Case bianche e dei detenuti di San Vittore, e soprattutto la folla che ha accompagnato la vettura del Papa lungo tutti i 99 km dei suoi spostamenti – che responsabilità ne viene per noi? Come coinvolgere in questa vita di popolo i tantissimi fratelli e sorelle battezzati che hanno un po’ perso la via di casa? Come proporre con semplicità in tutti gli ambienti dell’umana esistenza la bellezza dell’incontro con Gesù e della vita che ne scaturisce? Come rivitalizzare le nostre comunità cristiane di parrocchia e di ambiente perché, con il Maestro, si possa ripetere con gusto e con semplicità a qualunque nostro fratello “vieni e vedi”? Come comunicare ai ragazzi e ai giovani il dono della fede, in tutta la sua bellezza e “con-venienza”? In una parola: se il nostro è, nelle sue solidi radici, un cristianesimo di popolo, allora è per tutti. Non dobbiamo più racchiuderci tristi in troppi piagnistei sul cambiamento epocale, né ostinarci nell’esasperare opinioni diverse rischiando in tal modo di far prevalere la divisione sulla comunione. Penso qui alla comprensibile fatica di costruire le comunità pastorali o nell’accogliere gli immigrati che giungono a noi per fuggire dalla guerra e dalla fame. Ma, con una limpida testimonianza, personale e comunitaria, con gratitudine per il dono di Cristo e della Chiesa, siamo chiamati a lasciarlo trasparire come un invito affascinante per quanti quotidianamente incontriamo.
A queste poche e incomplete righe vorrei aggiungere una parola su quanto la Visita Pastorale ha dato a me, Arcivescovo. Lo dirò in maniera semplice: durante la celebrazione dell’Eucaristia nelle tante parrocchie e realtà incontrate, così come nei saluti pur brevi che ci siamo scambiati dopo la Messa, e, in modo speciale, nel dialogo assembleare cui ho fatto riferimento, ho sempre ricevuto il grande dono di una rigenerazione della mia fede e l’approfondirsi in me di una passione, quasi inattesa, nel vivere il mio compito. Ma devo aggiungere un’altra cosa a cui tengo molto. Ho appreso a conoscermi meglio, a fare miglior uso dei doni che Dio mi ha dato e, nello stesso tempo, ho imparato un po’ di più quell’umiltà (humilitas) che segna in profondità la nostra storia. Ho potuto così, grazie a voi, accettare quel senso di indegnità e di inadeguatezza che sorge in me tutte le volte che mi pongo di fronte alle grandi figure dei nostri patroni Ambrogio e Carlo.
Se consideriamo la Visita Pastorale Feriale dal punto di vista profondo che la fede, la speranza e la carità ci insegnano, e non ci fermiamo a reazioni emotive o solo sentimentali, non possiamo non riceverla come una grande risorsa che lo Spirito Santo ha messo a nostra disposizione e che ci provoca ad un cammino più deciso e più lieto. Seguendo la testimonianza di Papa Francesco, la grande tradizione della Chiesa milanese può rinnovarsi ed incarnarsi meglio nella storia personale e sociale delle donne e degli uomini che abitano le terre ambrosiane.
La Solennità della Santissima Trinità che oggi celebriamo allarga il nostro cuore e rende più incisivo l’insopprimibile desiderio di vedere Dio: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto”. Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 27 [26] 8-9a).

Angelo Card. Scola
Arcivescovo

Non abbiamo che questo

1. I cristiani, gente per bene.
I cristiani sono gente per bene. Parcheggiano con criterio, se sbagliano una manovra chiedono scusa. Sono gente per bene: parlano senza troppe parolacce, discutono senza gridare troppo, parlano di calcio e di politica, un po’ come fanno tutti, lamentano dei mali presenti, un po’ come fanno tutti. Sono gente per bene: se c’è da dare una mano, non si fanno pregare; se capita una disgrazia sono tra i primi a commuoversi e a soccorrere, per la festa del paese ci prendono gusto a organizzare il pranzo comunitario e la pesca di beneficenza.

2. I cristiani e il loro cruccio.
Tuttavia i cristiani sentono dentro una inquietudine e c’è un cruccio che li lascia tranquilli. Guardano i loro bambini e sospirano: “Come sono belli e cari! Ma che sarà di loro? Non siamo in grado di assicurare loro la gioia!”. Applaudono gli sposi novelli, hanno ma come un retro pensiero: “ Come sono contenti! Ma durerà? Non siamo in grado di assicurare la fedeltà!”. Attraversano con un senso di colpa i giardinetti in cui bivaccano adolescenti inconcludenti: “Quanto tempo sciupato! Quanti talenti sotterrati! Non siamo in grado di aiutarli a rispondere alla loro vocazione!”. Ecco come sono i cristiani: sono inadeguati e sanno di non essere all’altezza della loro missione. Sono là per essere sale e non riescono a dare sapore! Sono là per essere luce e anche loro talora sono avvolti da un grigiore confuso. Ecco come sono i cristiani: gente per bene, che non è all’altezza delle sfide di questo tempo complicato.

3. Né argento né oro: solo il Nome.
C’è però da dire che l’essere inadeguati al compito non è, per i cristiani, motivo di scoraggiamento. Non si sentono complessati. Continuano a ripetere le parole di Pietro: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo…!”(At 3,6) Per questo, ogni anno, i cristiani percorrono le vie della vita quotidiana celebrando la processione del Corpus Domini, per dire a tutti: “Siamo gente per bene, abbiamo tutte le buone intenzioni, non siamo all’altezza. Però questo sì possiamo offrirlo: il Pane della vita eterna. Siamo cristiani!”

Mario Delpini
Vescovo e Vicario Generale, Arcidiocesi di Milano

Trinità immagine dell’uomo

Abbiamo da poco celebrato la festa della SS. Trinità. Un articolo che ci aiuta ad entrare in questo
mistero.
I termini che Gesù sceglie per raccontare la Trinità, sono nomi di famiglia, di affetto: Padre e Figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito è nome che dice respiro: ogni vita riprende a respirare quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata. In principio a tutto è posta una relazione; in principio, il legame.
E se noi siamo fatti a sua immagine e somiglianza, allora il racconto di Dio è al tempo stesso racconto dell’uomo, e il dogma non rimane fredda dottrina, ma mi porta tutta una sapienza del vivere. Cuore di Dio e dell’uomo è la relazione: ecco perché la solitudine mi pesa e mi fa paura, perché è contro la mia natura. Ecco perché quando amo o trovo amicizia sto così bene, perché allora sono di nuovo a immagine della Trinità.
Nella Trinità è posto lo specchio del nostro cuore profondo, e del senso ultimo dell’universo. Nel
principio e nella fine, origine e vertice dell’umano e del divino, è il legame di comunione. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio… In queste parole Giovanni racchiude il perché ultimo
dell’incarnazione, della croce, della salvezza: ci assicura che Dio in eterno altro non fa che considerare ogni uomo e ogni donna più importanti di se stesso.
Dio ha tanto amato… E noi, creati a sua somigliante immagine, «abbiamo bisogno di molto amore
per vivere bene» (J. Maritain). Da dare il suo Figlio: nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, pratico, forte, il verbo dare (non c’è amore più grande che dare la propria vita…). Amare non è un fatto sentimentale, non equivale a emozionarsi o a intenerirsi, ma a dare, un verbo di mani e di gesti.
Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato. Salvato dall’unico grande peccato: il disamore. Gesù è il guaritore del disamore (V. Fasser). Quello che
spiega tutta la storia di Gesù, quello che giustifica la croce e la Pasqua non è il peccato dell’uomo, ma l’amore per l’uomo; non qualcosa da togliere alla nostra vita, ma qualcosa da aggiungere: perché chiunque crede abbia più vita.
Dio ha tanto amato il mondo… E non soltanto gli uomini, ma il mondo intero, terra e messi, piante
e animali. E se lui lo ha amato, anch’io voglio amarlo, custodirlo e coltivarlo, con tutta la sua ricchezza e bellezza, e lavorare perché la vita fiorisca in tutte le sue forme, e racconti Dio come frammento della sua Parola. Il mondo è il grande giardino di Dio e noi siamo i suoi piccoli “giardinieri planetari”.
Davanti alla Trinità, io mi sento piccolo ma abbracciato, come un bambino: abbracciato dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome amore.

Ermes Ronchi

Ordinazioni presbiterali 2017

Con Amore che non conosce confini

Nove. Si, solo nove. Un numero che suscita domande, forse preoccupazione.
È dal 1918 che non si vedeva un numero così basso tra i preti novelli. E c’era una guerra mondiale in corso! Eppure è così.
Viviamo un tempo diverso, ricco di contraddizioni ma sereno (almeno all’apparenza), dove l’amore per Cristo e la sua Chiesa ancora affascina e innerva le nostre città, come la recente visita del Papa a Milano ha dimostrato. E in una stagione come questa, tale numero è una ferita aperta in confronto alle necessità che una Diocesi come la nostra richiede. Che fare? Lamentarsi? Piangersi addosso? Tutt’altro.
Come più volte Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, dobbiamo essere grati per quanto il Signore ci dona, partire da quanto di bello e grande abbiamo ricevuto. Forse questo numero non è quello che tanti di voi si aspetterebbero, ma il desiderio di questi nove giovani di corrispondere alla volontà del Padre nel conformarsi a Lui divenendo presbiteri per il suo popolo, è quanto di più vero, genuino e profondo possono offrire. C’è una parabola che ben riassume questa classe, è quella del lievito nella pasta (Mt 13,33): ne basta poco perché faccia il suo mestiere e contribuisca ad aumentare la mole della pasta perché possa venirne fuori una forma di pane fragrante. È proprio così. Essi sono quel lievito capace di generare qualcosa di bello e di educare alla vita buona del Vangelo. Lo stanno già sperimentando in questi primi mesi di ministero, nelle parrocchie in cui sono stati destinati da diaconi e dove staranno anche da preti novelli. Ci saranno fatiche, sfide e delusioni, ma con la forza dello Spirito e con la fraternità che in questi anni hanno imparato a vivere, il Signore donerà loro la grazia di perseverare nella missione affidata – come recita il loro motto – «con amore che non conosce confini». Chiedo a tutto il popolo ambrosiano di accompagnare con la preghiera i giorni che li separano all’Ordinazione presbiterale, che avverrà sabato 10 giugno alle ore 9.00 nel Duomo di Milano.
E, insieme, di non smettere mai di pregare per le vocazioni, perché non manchi mai quel lievito necessario a dare forma alla pasta.

mons. Michele Di Tolve
Rettore del Seminario Arcivescovile