Ritagli di riflessione: della stupidità

Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese.
Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere – in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico – e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti.
Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.
Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate situazioni gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia. Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. E’ una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni.

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – Flossenbürg, 9 aprile 1945) è stato un teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.

Il dibattito sul vaccino

In questo periodo di dibattito sulla necessità della vaccinazione, riproponiamo un contributo tratto dalla rivista “Aggiornamenti Sociali”.

Nel momento in cui diventa disponibile, il vaccino interpella ciascuno a compiere una scelta, in cui si intrecciano la libertà personale e la responsabilità per il bene comune, che smette di essere un concetto astratto e prende una forma concreta.
Vaccinarsi è scelta personale, che la legge rispetta non imponendola, ma non individuale, nel senso che richiede di considerare il legame con la collettività di cui ciascuno fa parte. Il caso è diverso dalla stragrande maggioranza dei trattamenti sanitari, quali interventi chirurgici o terapie magari ben più invasivi e rischiosi di una vaccinazione: chi li rifiuta, si espone a un rischio, ma decide sostanzialmente per sé, tenendo conto della cerchia dei propri cari, in particolare quelli verso cui ha delle responsabilità.
Invece, anche tenendo conto del rischio remoto che sempre presenta, e salvo gravi controindicazioni che la rendano sconsigliabile, come nel caso di allergie, chi rifiuta la vaccinazione espone a un rischio non solo se stesso, ma anche altri.
La sua scelta rallenta il contenimento della pandemia, in quanto continuerà a essere potenzialmente contagiabile e quindi contagioso, a danno di tutti coloro che non possono essere vaccinati o su cui la vaccinazione non ha effetto: la loro protezione dipende dalla copertura vaccinale altrui e dal raggiungimento dell’immunità di gregge. E con un onere aggiuntivo per la collettività, a causa del protrarsi del sovraccarico del sistema sanitario.
Non sono mancati nelle prime settimane dell’anno moniti autorevoli in questo senso, a partire da quello del presidente Mattarella, che nel tradizionale messaggio di fine anno ha affermato: «Vaccinarsi è una scelta di responsabilità, un dovere».
Anche papa Francesco, nell’intervista trasmessa da Canale 5 il 10 gennaio, ha dichiarato che vaccinarsi «È un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri».
Negli ultimi giorni del 2020 due documenti vaticani avevano affrontato la questione in modo più organico. Il primo è la Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-COVID-19, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della fede il 21 dicembre. Il tema principale è la considerazione della liceità dell’utilizzo di vaccini nel cui processo di ricerca e sperimentazione sono state utilizzate linee cellulari ottenute come esito di aborti procurati: è il caso di tutti i vaccini approvati o prossimi all’approvazione nei Paesi occidentali, sia pure con situazioni differenziate.
Dopo aver risolto positivamente la questione «con coscienza certa che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione formale all’aborto dal quale derivano le cellule con cui i vaccini sono stati prodotti» e giustificandone l’uso a fronte del grave rischio pandemico che consentono di contenere, la Nota prosegue con un’affermazione che ha suscitato un’eco mediatica assai inferiore: «la moralità della vaccinazione dipende non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune» (n. 5);
termina poi ricordando che «vi è anche un imperativo morale […] di garantire che i vaccini […] siano accessibili anche ai Paesi più poveri e in modo non oneroso per loro» (n. 6). Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, queste argomentazioni sono state rilanciate dalla Nota della Commissione vaticana COVID-19 in collaborazione con la Pontificia Accademia per la Vita, intitolata Vaccino per tutti. 20 punti per un mondo più giusto e sano, che le declina nel contesto concreto della campagna vaccinale in corso, con una particolare attenzione alla garanzia di un accesso davvero universale al vaccino.

La fraternità a presidio della libertà.

In questo contesto, chi rifiuta la vaccinazione si avvicina alla posizione che la riflessione etica chiama del free rider, colui che desidera i vantaggi e i benefici offerti dalla collettività senza farsi carico dei corrispondenti oneri: l’esempio tipico è l’evasore fiscale. In un mondo ipotetico in cui tutti sono vaccinati eccetto uno solo, l’unico non vaccinato si troverebbe infatti al riparo dal contagio grazie alla vaccinazione altrui. Ma se ciascuno cercasse di occupare questa posizione, nessuno accetterebbe di essere vaccinato e rimarremmo tutti privi di protezione.
Nella recente enciclica Fratelli tutti (2020), papa Francesco riflette sul modo per non rimanere invischiati nelle contraddizioni delle derive individualistiche articolando libertà e fraternità. In particolare nota come «senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, […] la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine» (n. 103).
Difficile immaginare una esemplificazione di queste parole migliore della situazione che stiamo vivendo. La pandemia ci ha costretto a subire pesanti compressioni della nostra libertà. L’immunità promessa dai vaccini rappresenta la speranza di uscire da questa situazione, ma solo a condizione di una loro sufficiente diffusione.
In altre parole, servono oggi scelte personali ispirate alla fraternità, cioè aperte alla considerazione dei vantaggi e dei rischi collettivi e non solo individuali della campagna vaccinale. Altrimenti i tanti muri e divieti con cui si scontra ogni giorno la nostra libertà faticheranno a cadere.
Ugualmente abbiamo bisogno di politiche ispirate alla fraternità, ad esempio per quanto riguarda l’accesso universale ai vaccini, se non vogliamo rischiare che le nostre libertà risultino illusorie perché confinate in ambiti spaziali ridotti e costantemente minacciati.
Come scrive papa Francesco, «La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali.
Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna».
L’inganno più grande è proprio quello di farci ritenere possibile la libertà senza il contributo della fraternità. Oggi tocchiamo con mano che tutelare la libertà di ciascuno, oltre che la sicurezza di tutti, richiede di compiere scelte di fraternità.

Giornata mondiale dei nonni e degli anziani

Il Papa agli anziani: Dio manda angeli a consolare la nostra solitudine.
Nel messaggio per la prima Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, che si celebra il 25 luglio, Francesco sottolinea che la vocazione della Terza età è “custodire le radici, trasmettere la fede ai giovani e prendersi cura dei piccoli”.

Vorrei che “ogni nonno, ogni anziano, ogni nonna, ogni anziana – specialmente chi tra di noi è più solo – riceva la visita di un angelo!”, come San Gioacchino, il nonno di Gesù, allontanato dalla comunità perché non aveva figli. “Anche quando tutto sembra buio, come in questi mesi di pandemia, il Signore continua ad inviare angeli, a consolare la nostra solitudine e a ripeterci: ‘Io sono con te tutti i giorni’ “. Papa Francesco si rivolge così ai nonni e agli anziani del mondo nel messaggio per la prima Giornata mondiale a loro dedicata, che si celebra il 25 luglio, ripetendolo anche in un videomessaggio.

Il sogno di Gioacchino.

Francesco prega che il Signore mandi un angelo a consolare gli anziani come avvenne per Gioacchino, il nonno di Gesù e marito di Anna: “il Signore – disse l’Angelo – ha esaudito la tua insistente preghiera”. Angeli che, alcune volte, “avranno il volto – scrive Francesco – dei nostri nipoti, altre dei familiari, degli amici di sempre o di quelli che abbiamo conosciuto proprio in questo momento difficile”.

La pandemia: dura prova che ha colpito più forte gli anziani.

A ogni nonno, a ogni anziano il Pontefice dice: “Tutta la Chiesa ci è vicina” e ti è vicina. “Si preoccupa di te, ti vuole bene e non vuole lasciarti solo!”. Parla della pandemia come di una “dura prova che si è abbattuta sulla vita di ciascuno, ma che a noi anziani ha riservato un trattamento speciale”, più duro. Molti si sono ammalati, e non ci sono più: “tanti se ne sono andati, o hanno visto spegnersi la vita dei propri sposi o dei propri cari, troppi sono stati costretti alla solitudine per un tempo lunghissimo, isolati”
Ora servono angeli che riportino agli anziani “gli abbracci e le visite”. Francesco si dice rattristato dal fatto “che in alcuni luoghi non siano ancora possibili!”.

Francesco invita anche a riconoscere la fedeltà del Signore raccontata nei Vangeli, pregata nei salmi, incontrata dai profeti, il Signore che ci invia messaggeri e chiama operai nella sua vigna “ad ogni ora del giorno”. Il Pontefice scrive di aver ricevuto “la chiamata a diventare vescovo di Roma” quando aveva raggiunto, “per così dire, l’età della pensione” e già immaginava “di non poter più fare molto di nuovo”. Ma “il Signore è eterno e non va mai in pensione, mai”.

La vocazione di trasmettere la fede ai giovani.

Francesco introduce così il secondo tema del suo messaggio, dopo quello dell’angelo consolatore. Riguarda la vocazione di nonni e anziani: quella di “custodire le radici, trasmettere la fede ai giovani e prendersi cura dei piccoli”. E sottolinea che l’annuncio del Vangelo non ha date di scadenza: “non esiste un’età per andare in pensione dal compito di annunciare il Vangelo, dal compito di trasmettere le tradizioni ai nipoti”.

La forza dello Spirito vince ogni dubbio e fatica.

Ai naturali dubbi di chi vede le proprie energie esaurirsi, di chi vede difficile cominciare a comportarsi “in maniera differente” quando ormai “l’abitudine è divenuta la regola”, o dedicarsi “a chi è più povero” quando ha già “tanti pensieri” per la sua famiglia, o sente la solitudine come un “macigno troppo pesante”, il Papa risponde con l’invito ad aprire “il proprio cuore all’opera dello Spirito Santo che soffia dove vuole” e “fa quello che vuole”.

Anziani indispensabili per costruire il mondo di domani.

Francesco ripete quanto scritto nell’enciclica Fratelli tutti, augurandosi che questo tempo di crisi legato alla pandemia, “non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare”. Perché “un così grande dolore non sia inutile”, e si riesca a fare “un salto verso un nuovo modo di vivere”, dice Papa Francesco rivolgendosi direttamente al nonno e all’anziano, c’è bisogno di fraternità: “c’è bisogno di te per costruire, nella fraternità e nell’amicizia sociale, il mondo di domani”.

I tre pilastri: sogni, memoria e preghiera.

Si deve realizzare una nuova costruzione con tre pilastri “che tu, meglio di altri, puoi aiutare a collocare”: i sogni, la memoria e la preghiera. “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”, ha promesso il profeta Gioele. Chi se non i giovani, si domanda il Papa, possono “prendere i sogni degli anziani e portarli avanti?”. Ma per questo gli anziani devono continuare a fare “sogni di giustizia, di pace, di solidarietà”. “È necessario – chiarisce Francesco – che anche tu testimoni che è possibile uscire rinnovati da un’esperienza di prova”.

Memorie di guerre ed emigrazione.

E qui entra in gioco il secondo pilastro, la memoria: da quella dolorosa della guerra i giovani possono imparare il valore della pace. Quella di chi ha dovuto emigrare “può aiutare a costruire un mondo più umano, più accogliente”.
“Ma senza la memoria non si può costruire; senza delle fondamenta tu mai costruirai una casa. Mai. E le fondamenta della vita sono la memoria”.

Una preghiera che protegge il mondo.

Per la preghiera, il Pontefice argentino cita il predecessore, Benedetto XVI, “santo anziano che continua a pregare e a lavorare per la Chiesa”, che nel 2012 ha sottolineato: “La preghiera degli anziani può proteggere il mondo, aiutandolo forse in modo più incisivo che l’affannarsi di tanti”.

La voce di Dio: “Io sono con te tutti i giorni”.

L’esempio è quello del beato – e prossimamente santo – Charles de Foucauld che, eremita in Algeria, pur nella solitudine del proprio deserto, dimostrò che è possibile “intercedere per i poveri di tutto il mondo e diventare davvero un fratello e una sorella universale”. “Che ciascuno di noi impari – è la preghiera finale di Papa Francesco – a ripetere a tutti, e in particolare ai più giovani, quelle parole di consolazione che oggi abbiamo sentito rivolte a noi: ‘Io sono con te tutti i giorni’ “. – Città del Vaticano.

Usare le parole con la PAROLA

Le parole sono importanti. Gesù dice che saremo giudicati su ogni parola infondata. Forse noi cristiani dovremmo ascoltare di più quanto ci dice la Parola di Dio sulle nostre parole
Certo, se noi cristiani osservassimo di più la Parola di Dio, cambierebbe e di molto il tono dei nostri dibattiti. Per esempio, come sarebbero i nostri commenti e le nostre riflessioni se mettessimo in pratica queste parole di San Paolo?
“Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano (…) Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Lettera agli Efesini 4, 29-32).

“Se vi mordete e vi divorate a vicenda”.

Eppure, a partire dai social e sui nuovi e vecchi media, siti e blog, noi cristiani non diamo un bello spettacolo. Al di là del legittimo confronto, della critica leale e dell’ironia simpatica, quante volte vediamo accuse malevole e spropositate, irrisione, derisione, sarcasmo maligno, calunnie ripetute all’infinito (perché alla fine resti del fango anche con le smentite). Come cambierebbe questo stile se ascoltassimo il rimprovero dell’Apostolo delle Genti?
“Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Lettera ai Galati 5, 14-16).

Il male vende più del bene?

Se noi cristiani mettessimo in pratica la Parola di Dio, come cambierebbe il nostro mondo della comunicazione? Forse venderebbe di meno, perché il male fa audience e vende meglio? In una antica trasmissione televisiva dedicata allo sport, i presenti, di opposte tifoserie, litigavano e si insultavano pesantemente … dopo essersi ben accordati su parolacce e offese reciproche. Tutta una sceneggiata per vendere il programma. Delle squadre idolatrate dai tifosi non gli interessava nulla. A noi cristiani interessa davvero la Chiesa, questo popolo fatto di peccatori, tutti, che Dio vuole salvare?

Vanità delle parole.

Certo, anche noi cristiani non siamo esenti dai peccati autocelebrativi, il narcisismo, l’egocentrismo, la vanità (il peccato preferito del diavolo, dicevano le ultime parole di un noto film). Al centro dei nostri commenti, spesso, ci siamo noi, ci sono le nostre parole, non la Parola: noi cresciamo e Gesù diminuisce.
Ci facciamo grandi e forse meritiamo lo sfogo di Gesù che ci chiede di non sprecare le parole: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Mt 15,8).

Stimarsi a vicenda.

Come cambierebbe il tono delle nostre riflessioni, se prendessimo in seria considerazione questa celebre esortazione di San Paolo? Addirittura gareggiare nello stimarsi a vicenda…
“La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda … Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite … Non rendete a nessuno male per male” (Lettera ai Romani 12, 9-17).

Parresìa senza carità.

C’è la parresìa, diciamo, la franchezza del parlare. Sì, ma non c’è amore:
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla … La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità” (Prima Lettera ai Corinzi 13, 1-2).

Saper parlare con rispetto.

Tante guerre sono state compiute in nome della verità, tante violenze. Non ci bastano e continuiamo con le violenze verbali. Come cambierebbe il nostro linguaggio se ascoltassimo San Pietro?
“Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto” (Prima Lettera di San Pietro 3, 15).

Parole che trafiggono come spade e parole che risanano.

L’attenzione al linguaggio è presente in modo insistente nella Bibbia, a partire dal Vecchio Testamento. C’è una miniera di indicazioni:
Dal Libro dei Proverbi: “Il linguacciuto va in rovina” (10,8); “Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è prudente” (10,19); “V’è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada; ma la lingua dei saggi risana” (12,18); “Chi sorveglia la sua bocca conserva la vita, chi apre troppo le labbra incontra la rovina” (13,3); “Una risposta gentile calma la collera, una parola pungente eccita l’ira” (15,1); “Una lingua dolce è un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore” (15,4); “Morte e vita sono in potere della lingua e chi l’accarezza ne mangerà i frutti” (18,21); “Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non divenire anche tu simile a lui” (26,4).

Saremo giudicati su ogni parola infondata.

Le parole sono importanti: rivelano il cuore, dice Gesù. Saremo giudicati su ogni parola:
“La bocca parla dalla pienezza del cuore. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” (Mt 12, 35-37).

Accuse contro Gesù: trasgressore della Legge e indemoniato.

Quando condanniamo in modo molto facile, pensiamo a Gesù che è stato accusato di essere un bestemmiatore, un sovvertitore della tradizione, un trasgressore delle leggi divine, addirittura un indemoniato. Come cambierebbero le nostre parole se ascoltassimo la sua Parola? “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?

Solo nel silenzio si può ascoltare la voce di Dio.

Il rischio che corriamo noi cristiani è quello di leggere, ascoltare, scrivere e dire tantissime parole (inutili) senza ascoltare più la Parola di Dio. Senza quel silenzio che si mette in ascolto dell’unica Parola necessaria, le nostre parole forse possono voler difendere Dio, Gesù, Maria, i Papi, la Chiesa, la dottrina cattolica, ma non sono parole cristiane. Senza questo silenzio, chi vuol vedere il male, continuerà a vederlo anche di fronte alla cosa più bella del mondo, anche lì troverà un dettaglio, un piccolo difetto, una piccola macchia scura, per dire che tutto è marcio. E convincerà molti che è così. Passiamo tanto tempo in mezzo alle chiacchiere e ci perdiamo la forza della Parola: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Lettera agli Ebrei 4, 12).
Resta la domanda: noi cristiani, nell’uso delle parole, abbiamo il coraggio di mettere in pratica la Parola di Dio?

Sergio Centofanti

Riflessioni Condivisione e uso dei beni

Condivisione e uso sociale dei beni. Puro e semplice cristianesimo

«Nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune». Commentando questo passo degli Atti degli Apostoli, papa Francesco ha alzato lo sguardo dal foglio e, ancora una volta, ha ribadito: questo «non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». Nella prima comunità cristiana, a partire dall’esperienza del Risorto, i cristiani vivevano in unità di cuori e di spirito e condividevano quanto possedevano. Una delle costanti del magistero di Francesco, a partire dall’esortazione Evangelii gaudium, è quella di provare a fondare le nostre azioni, soprattutto quelle pastorali, sulla freschezza del Vangelo. E le sue parole hanno molte volte una forza dirompente, ricevendo una grande attenzione mediatica. Appaiono come una grande novità, anche se in realtà sono verità che accompagnano la storia della Chiesa. Sono nuovi la franchezza e il vigore con cui sono proclamate. Sine glossa, un po’ come il proposito del Santo di cui il Papa porta il nome. Francesco si era soffermato su questi temi anche in un’udienza dello scorso settembre. Un ciclo di catechesi in cui ha provato a leggere i princìpi della Dottrina sociale della Chiesa alla luce della pandemia. In quella sulla destinazione universale dei beni, riprendendo il Catechismo ci ricorda che la terra è stata data da Dio «a tutto il genere umano» (2402). Questo ci impegna a fare in modo che i suoi frutti arrivino a tutti. Ma anche il Concilio Vaticano II va nella stessa direzione: «L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» ( Gaudium et spes, 69). Il principio che sta alla base di tutto è la destinazione universale dei beni: quando il possesso impedisce che i beni arrivino a tutti, allora bisogna porre rimedio. Sempre nel Catechismo leggiamo: «L’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune» (2406).
Volutamente non si citano qui la Laudato si’ o la Fratelli tutti, encicliche di Francesco, proprio per mostrare che la subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni è un principio che accompagna la Chiesa dagli Atti degli Apostoli fino al Concilio Vaticano II, e oltre. Il Papa ha il coraggio di ricordarlo a un mondo che sembra assopito e inerte di fronte al crescere delle disuguaglianze. Da una parte, l’attenzione mediatica ci fa pensare che stiamo ascoltando la parola di cui c’è bisogno, dall’altra parte il voler liquidare quelle stesse parole come associabili al comunismo ‘sconfitto dalla storia’, ci dice forse il tentativo di cercare un pretesto per liquidare verità scomode. Il Covid sta portando alla luce le contraddizioni di un sistema che ha generato crescenti disuguaglianze. Se, come da dati Oxfam, l’aumento della ricchezza dei 10 miliardari più ricchi al mondo dall’inizio della pandemia sarebbe sufficiente a contrastare gli effetti economici della crisi per i più poveri e a garantire vaccini in tutto il mondo, questo sistema non funziona. Il patto sociale di fronte a queste evidenze si sgretola. Perché a fronte di un evento esterno inaspettato chi opera in un settore viene penalizzato e rischia per esempio di perdere la propria casa per non riuscire a far fronte ai debiti, e chi opera in altri settori vede aumentare, e di molto, i guadagni? È questo il mondo che vogliamo? Dove nascere in un posto, invece che in un altro può determinare opportunità del tutto diverse, dove di fronte a un male comune le conseguenze per i singoli sono tutt’altre? Il Papa ripete che, proprio di fronte a un flagello mondiale come la pandemia, è bene aver chiaro che la terra è di tutti, che i beni ci sono stati donati perché siano condivisi, che non possiamo dirci cristiani e non ci sentiamo custodi per davvero gli uni degli altri.

Alessandra Smerilli – Economista