Delirio tecnologico e disimpegno antropologico

Di fronte alle «crisi internazionali aggravate», «lo scenario bellico ampliato tragicamente», «la vita delle persone sempre più faticosa e frenetica», l’uomo contemporaneo rischia di rispondere paradossalmente con un «disinteresse antropologico», che significa fiducia fideistica nello sviluppo tecnologico e «crescente identificazione dell’uomo con le opere da lui prodotte». L’intervento del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, ieri mercoledì 19 giugno, alla seconda e conclusiva giornata del primo “Festival dell’Umano tutto intero” ha offerto una sollecitazione importante a non arrendersi alla «perdita dello sguardo dell’uomo su di sé e sulla propria interiorità». Il festival, promosso dal network “Ditelo sui tetti”, si è svolto presso il Pio Sodalizio dei Piceni a Roma. Le domande antropologiche — ha osservato il cardinale Parolin — «sembrano suscitare sempre meno interesse». I motivi sono diversi a partire «dall’incalzare del progresso scientifico e dal fascino di potenza che questo ha esercitato sull’umanità», ma ci sono «anche altre ragioni, più profonde»: la questione antropologica una volta che la si affronti seriamente e radicalmente «mette in evidenza e fa venire alla luce la costitutiva fragilità dell’essere umano», il suo essere non solo “una canna” ma, come dice Pascal, “la canna più fragile di tutta la natura”. Emerge un punto essenziale che tanto impegna il dibattito odierno: «Lo stesso sviluppo dei diritti umani soffre la mancanza di un fondamento solido, la cui carenza espone tali diritti a discipline molte volte incerte e provvisorie, se non ideologicamente orientate». D’altra parte, invece, si fotografa «l’affidamento al progresso tecnologico» che «assume le caratteristiche di una vera e propria “fede”». Si comprende dunque quanto sia «urgente e necessaria» la riflessione sulla questione antropologica, «indicendo un Festival dell’«umano tutto intero» — riprendendo una felice espressione di san Giovanni Paolo II », ha sottolineato il cardinale Parolin, ricordando che due anni fa c’è stato un primo incontro su questi temi organizzato dallo stesso network. In quel momento il contesto era legato alla pandemia, finita la quale «le cose non sono purtroppo migliorate». E il cardinale Parolin ha aggiunto parole che non nascondono a gravità dei rischi: «Lo scenario bellico si è ampliato tragicamente con l’esplosione del conflitto israelo-palestinese e la guerra “a pezzi”, denunciata da Papa Francesco sin dall’inizio del pontificato, è andata allargandosi e componendosi in un quadro sempre più preoccupante e corre oggi il rischio serissimo di sviluppi imprevedibili e sempre meno ipotetici.» Il punto è che proprio per questo una riflessione sull’umano potrebbe sembrare — ha avvertito — «un mero esercizio d’accademia», distante dalle urgenze e dai problemi del vivere quotidiano, tanto dei singoli quanto dei popoli. Ma sarebbe un primo grave errore pensare la domanda sull’uomo come separata e distante dalle domande e dai bisogni. Ha ricordato come non sia un caso che la questione antropologica risuoni da secoli, scolpita sull’architrave del tempio di Delfi, nel monito «Conosci te stesso».
Centralità e necessità risiedono nel fatto che essa è veicolo degli interrogativi sull’esistenza umana.È come se in qualche modo l’uomo dagli albori dell’era industriale avesse messo da parte queste domande. Non sono mancati avvertimenti. Il cardinale Parolin ha citato tra gli altri Friedrich Schiller che già a fine Settecento evidenziava come l’essere umano, «non avendo mai nell’orecchio che il monotono rumore della ruota ch’egli gira …, invece di esprimere nella natura la sua umanità, diventa soltanto una copia della sua occupazione o della scienza cui attende». E poi il segretario di Stato ha sottolineato che sempre più l’uomo si è allontanato da Dio, sempre più si è identificato con il risultato delle proprie azioni, «perdendo una visione d’insieme di sé, capace di unificare tutti gli esseri umani, senza distinzioni di sesso, di età, di razza o di condizione sociale.» Citando la Costituzione conciliare Gaudium et Spes — «La creatura senza il Creatore svanisce» — ha parlato di «un pericoloso processo di vera e propria “disumanizzazione”». Il cardinale Parolin ha citato anche Robert Musil per affermare che la nostra società rischia di assomigliare all’apprendista stregone della ballata di Goethe, avventuratosi in un incantesimo che non è poi in grado di padroneggiare. Dunque, l’appello a proposito di Intelligenza Artificiale: «Si pone l’esigenza di una vera e propria difesa dell’umano; un argine a quell’intelligenza che l’uomo stesso ha creato e dalla quale si trova adesso a dipendere». Si comprende meglio il significato del «vuoto creato da questo disimpegno antropologico» da cui scaturiscono «il neo-individualismo che esalta e assolutizza il principio di autodeterminazione dell’individuo». E «uno pseudo-umanesimo che arriva, in sostanza, a teorizzare una libertà senza responsabilità e diritti senza corrispondenti doveri, fondamentalmente ispirato al modello dell’uomo-Prometeo il quale, imbrigliato dal proprio delirio di autosufficienza, finisce tuttavia con il ritrovarsi irrimediabilmente solo».

Osservatore Romano

Cattolici, politica e bene comune

Essere cattolici significa essere aperti e capaci di dialogare anche con chi non si riconosce nella nostra fede

di Luca Bressan – vicario episcopale per la cultura, la missione e l’azione sociale della diocesi di Milano

Il clamore e le numerose polemiche suscitate dalla decisione dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello (Mi-lano) di sospendere le lezioni lo scorso 10 aprile, in occasione della festa per la chiusura del Ramadan (per non obbligare molti alunni — che per oltre il 40% sono di religione islamica — a scegliere tra la partecipazione ai riti religiosi e la presenza alle lezioni) non soltanto si sono placati ma anche dimenticati. Sommersi — com’è ormai abitudine — dal flusso ininterrotto della comunicazione mediatica che copre con la novità delle ultime notizie le precedenti. Dimenticare in questo caso è però un’operazione rischiosa, che ci fa disperdere quanto abbiamo imparato da tutta la vicenda. Soprattutto, dimenticare signifca coprire la sfida culturale che abbiamo davanti agli oc-chi, come cittadini e come credenti. La Chiesa ambrosiana ha scelto di schierarsi, appoggiando la decisione presa dalla scuola, perché il dibattito da subito ha spostato la questione sul terreno dell’identità cristiana o cattolica del nostro Paese, e del rapporto tra le religioni. L’intenzione era aiutare le persone coinvolte a orientarsi, e sostenere i ragazzi della scuola, per aiutarli a rimanere uniti ed evitare “l’importazione” tra di loro di divisioni e polarizzazioni tipiche del mondo degli adulti. Di fronte a coloro che avevano ravvisato nella vicenda i segni di una volontà di cambiare l’identità cattolica della nazione, la diocesi di Milano ha ribadito in modo sereno ma fermo che la fede cristiana non cambia affatto nel suo nucleo fondamentale. Essendo la nostra una fede incarnata, e trovandoci in una società che sta vivendo forti cambiamenti, non possiamo non interrogarci sulle conseguenze che queste trasformazioni hanno sulle espressioni della nostra fede. Essere cattolici, nel senso tecnico ed etimologico del termine, significa far vedere che siamo aperti a tutto e capaci di dialogare anche con chi non si riconosce nella fede che professiamo. Per questo non vogliamo che il confronto e il dialogo tra le religioni diventi uno scontro.
Un dialogo che, tra l’altro, è condiviso da numerose comunità espressione della fede islamica. Durante il mese del Ramadan ho partecipato più volte a un Iftar (rito della rottura del digiuno) in moschee diverse. Non ho incontrato nessuna volontà di scontro diretto odi sopraffazione del cattolicesimo, ma piuttosto la ricerca di un’alleanza per confrontarsi insieme con una società che vuole espellere Dio. Noi siamo per la libertà religiosa, non per una laicità che espelle la religione dalla vita civile e sociale. Al contrario, siamo per una vita civile e sociale capace di contenere al proprio interno la pluralità delle religioni. Le reazioni alla scelta attuata dalla scuola di Pioltello hanno confermato una sensazione di scarsa preparazione a vivere nel quotidiano, a livello locale, il confronto con un mondo come quello islamico, che ormai è tra noi ed è arrivato non per una spinta di proselitismo o di conquista religiosa, ma per motivi sostanzialmente economici. Arrivata alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa, la gente s’è portata dietro la propria cultura e la propria fede. Ci ha stupito vedere il disorientamento che questo provoca, innanzitutto tra noi cattolici. Al nostro interno mi sembra d’aver notato tre atteggiamenti diversi. Il primo, tutto sommato minoritario, è la condivisione piena della posizione della diocesi, accogliendone anche la profondità della prospettiva di fede da cui nasce e la ricchezza del lavoro compiuto dalla teologia delle religioni.
Un secondo atteggiamento, ancor più minoritario, è il dissenso aperto, motivato dalla paura di uno smarrimento dell’identità cristiana che conduce a leggere il confronto nella chiave dello scontro. In realtà, questa posizione non s’accorge che la perdita dell’identità cristiana non è legata alla presenza di al-tre religioni. A qualcuno che mi diceva che quelli che vengono a vivere qui dovrebbero assumere i nostri va-lori, m’è capitato di chiedere: «Ma lei a Pasqua è stato a messa?». Mi ha stupito sentirmi rispondere, con fastidio, «Che c’entra?». Ecco, la perdita dell’identità cristiana e dei suoi valori dipende dal fatto che non li custodiamo e non li coltiviamo, non dal fatto che gli immigrati musulmani non partecipano alla messa o che ci impegniamo nel dialogo con loro. Il terzo atteggiamento, il più diffuso, è quello di un silenzio pieno di apprensione verso la prospettiva del dialogo e del confronto. Per questo abbiamo bisogno di strumenti con cui dare ragione di quanto facciamo come credenti. Non si può più semplicemente vivere una fede di comodo, accontentandosi di rimanere nel solco di quello che ci è stato tramandato, senza una rielaborazione che sia all’altezza dei tempi che stiamo vivendo e quindi della sfida del pluralismo con cui siamo chiamati a confrontarci. «Gareggiate nello stimarvi a vicenda», dice san Paolo ai Romani (12,10). Ma anche il Corano dice: «Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi» (Sara 5,48). Il monaco cristiano e martire Christian De Chergé commenta questo inedito parallelismo affermando che da cristiani siamo invitati a «cercare un senso divino alle differenze». Non si dialoga tra le religioni per costruire la pace: questo è il livello zero del dialogo. Si dialoga perché Dio ci attende per rivelarsi a noi nel crogiuolo della differenza.

Cattolici, politica e bene comune

Quale società vogliamo costruire per il nostro futuro? Quali valori la devono ispirare e guidare? Quale ruolo possono giocare i credenti all’interno delle moderne democrazie?

Non vi è dubbio che tra i temi importanti che oggi toccano da vicino la coscienza dei cristiani ci sia sicuramente quello riguardante l’agire politico e le modalità con cui esercitare questo compito, in vista della realizzazione del bene comune possibile in un dato momento storico e in una data circostanza. Dall’inizio dell’impegno diretto dei cattolici in politica, è bene fare il punto della situazione, riscoprendo le fonti e le ragioni di tale responsabilità e riconoscendo gli snodi nevralgici che hanno caratterizzato questo cammino non solo a livello italiano, ma anche europeo. In un frangente storico nel quale simboli religiosi vengono branditi come amuleti e devozioni molto radicate fra la gente vengono strumentalmente adoperate per fini elettorali durante i comizi di piazza – come poche volte è accaduto nella storia del nostro Paese –, è necessario ritornare a interrogarsi profondamente sul senso dell’impegno pubblico e riaffermare ancora una volta la laicità delle Istituzioni e la conseguente distinzione del piano politico dal piano religioso. Sono conquiste e progressi compiuti nella storia e dai quali non possiamo arretrare. Fin dalle origini dell’umanità, infatti, la politica è l’istituzione sociale per eccellenza, che in modo più diretto e a vasto raggio influisce sul vivere civile. Anche nella Bibbia – a partire da Gen 1,28 – l’impiego e l’utilizzo del mondo sono stati visti come un mandato e uno specifico invito di Dio all’uomo. Si tratta del compito precipuo che spetta ai laici, affermato nella Costituzione conciliare Lumen Gentium al n. 31: «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio». In maniera ancor più approfondita e specifica, Gaudium et spes precisa come la missione della Chiesa nell’ordine temporale debba tener conto delle leggi che governano le realtà terrene, le quali mantengono una loro autonomia rispetto al fine ultimo e sulle quali valgono soprattutto la competenza e la capacità dei laici. L’impegno politico, infatti, trova nella coscienza dei laici convenientemente formata il perno per «inscrivere nella vita della città terrena la legge divina» (GS, n. 43).
Com’è stato osservato da diversi studiosi, la coscienza rettamente formata rappresenta l’orizzonte più ampio di autonomia che il Concilio riconosce ai laici cristiani e al loro agire. A partire dai Vangeli e grazie al Concilio e i suoi documenti, la Chiesa ha bandito l’integrismo come atteggiamento che pretende di derivare direttamente dalla fede – senza nessun tipo di mediazioni culturali e partitiche – i contenuti e i modi dell’azione politica, riconoscendo nello stesso tempo una sfera pubblica di confronto con tutte le posizioni. Anche in questo caso, siamo di fronte ad una conquista non scontata che va difesa e argomentata rispetto ai tentativi preoccupanti e nostalgici di ritorno a stagioni in cui «potere temporale» e «potere spirituale» andavano a braccetto. In parole semplici, la cura del bene comune non può che passare dal metodo della «mediazione culturale». Il venerabile Lazzati ne ha dato una bella definizione: «La mediazione culturale non vuole dire diminuzione, bensì pienezza di cultura autentica in cui non si perda affatto la propria identità di cristiani, ma si sia capaci di capire i valori umani e di vedere come essi si possono realizzare gradualmente». Strumento principe della mediazione culturale è il dialogo, il «saper costruire ponti», cioè la capacità di saper ascoltare e di saper parlare con gli altri, senza alimentare rabbia e paura, ma alimentando realismo e speranza. La comunità cristiana ha oggi su di sé una grande responsabilità: quella di ri-abituare al dialogo e all’ascolto fra cristiani e quella di aprirsi al dialogo con coloro che hanno lasciato la Chiesa o con coloro che non l’hanno mai conosciuta e accettata, senza la pretesa e la fretta di convertire a tutti i costi. In un contesto globale caratterizzato dal risorgere di populismi e interessi nazionali, indifferenza verso i deboli, crisi della democrazia rappresentativa e delle istituzioni sovranazionali, i cattolici hanno responsabilità chiare e urgenti per contribuire a costruire una società più fraterna e un mondo più giusto.

Alberto Ratti

Quale futuro per il cristianesimo ?

Oggi nei confronti del “mondo cristiano” c’è più indifferenza che un atteggiamento ostile

Sempre di nuovo è attuale la domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). In particolare, tale interrogativo deve inquietarci in questo nostro tempo di crisi del cristianesimo, della diminuzione della sua presenza, della sua “esculturazione” dal nostro Occidente. Il teologo francese Jean-Marie Tillard, quale testamento di una vita spesa nel dialogo teologico ecumenico tra le Chiese, alla fine del secolo scorso lasciava uno scritto appassionato dal titolo significativo: Siamo gli ultimi cristiani?
Ma già il teologo Joseph Ratzinger nel 1969 e, più recentemente in qualità di pontefice, aveva cercato di rispondere alla domanda circa il futuro della fede e con profetica capacità visionaria indicava come ipotesi feconda quella di una Chiesa di minoranza; una Chiesa piccola comunità di fedeli, povera e spogliata di tanti privilegi accumulati nella storia ma libera perché creativa; una Chiesa non settaria, capace di essere lievito fino a orientare la società. Benedetto XVI ha sempre creduto nelle minoranze creative, e sperava che l’evolversi della crisi conducesse a questa nuova forma del vivere la Chiesa.
Altri ancora, soprattutto nell’area culturale francese e mitteleuropea, hanno cercato risposte e formulato ipotesi diverse in merito.
Molto conosciute e riprese le quattro ipotesi di Maurice Bellet (2001).
La prima prevede la scomparsa del cristianesimo senza troppi sussulti né lamenti: una sorta di arretramento indolore nel quale il cristianesimo rimarrà nella memoria per i suoi monumenti, le opere d’arte e alcuni testi di sapienza antica.
La seconda ipotesi, non molto dissimile dalla precedente, intravede il cristianesimo morto come fede, ma presente nella società con i suoi valori.
La terza ipotesi non vede vicina la fine della fede cristiana e delle Chiese, ma pensa a un loro trascinarsi nella storia senza profezia: una presenza che soddisfa il bisogno religioso e, dunque, mantiene i riti e le modalità della religione.
L’ultima, infine, quella che l’autore si augura per il cristianesimo, è una sua ripresa da capo, una sua rinascita grazie all’unica Parola di vita, il Vangelo. Solo da un nuovo inizio, infatti, la fede cristiana potrà di nuovo divampare come fuoco e dare una nuova forma al vivere la Chiesa.
(…) Che cosa esplicitare oggi? Con il ministero petrino di Francesco sono stati messi in moto alcuni processi, che vanno riconosciuti: la vita della Chiesa ha ripreso una dinamica che, se non si fermerà e giungerà ad alcune realizzazioni di riforma, aiuterà i cristiani ad attraversare la crisi e a vivere nella storia come minoranza profetica eloquente. Se, però, questi processi rimarranno solo abbozzi o, peggio, parole, credo che la delusione sarà tale che la vita della Chiesa ne resterà debilitata in modo grave e la diaspora già esistente diventerà addirittura non leggibile, non più sentita come presenza.
Anche perché la novità di questi ultimi anni è proprio l’ “esculturazione” del cristianesimo e della Chiesa, non possiamo ignorarlo. Basta conoscerei mass media per rendersi conto che in essi ormai non appaiono più “notizie”
riguardanti la fede e la Chiesa, se non quelle che provocano scandalo, mentre le correnti culturali non tengono più conto delle voci e degli eventi cristiani.
Mi permetto solo di far notare che tra i consigli di cento libri da leggere apparsi in occasione del Natale su un noto inserto culturale italiano, non appariva nessun testo di autori cristiani. Ormai “il mondo cristiano”, che nel mondo non c’è più, è ignorato senza ostilità ma nella forma dell’indifferenza. Ecco qual è, a mio avviso, il problema della nostra presenza tra gli umani: l’indifferenza.
Se non sapremo più evidenziare la differenza cristiana allora, come sale che ha perso il suo sapore, come fuoco sepolto dalla cenere, non saremo più in grado di dire qualcosa di significativo nella compagnia degli uomini.
La differenza cristiana richiede anzitutto la fede in Gesù Cristo vivente perché Risorto, una fede nel Regno che viene.
Ma oltre a questo primato della fede, nutrita alla fonte del Vangelo, occorrerà l’edificazione di comunità che siano davvero tali: veri luoghi di amore reciproco e di servizio degli ultimi; comunità che vivano la sinodalità, il camminare insieme in una comunione plurale; comunità che non si isolano, non diventano settarie, ma stanno con simpatia e spirito di fraternità in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Solo in questo modo si potrà dare una risposta credibile alle più svariate forme di populismo che «riducono i simboli religiosi a marcatoti culturali identitari che non sono associati a una pratica religiosa», come osserva Olivier Roy nel recente saggio L’Europa è ancora cristiana?
Se il Vangelo fornirà l’ispirazione profonda alla vita cristiana, sarà manifesto a tutti che i credenti sono uomini e donne riuniti in una nuova comunione: è in questa semplice e radicale differenza che consiste la dimensione pubblica e comunitaria della prassi evangelica. Dunque una comunità cristiana che nel mondo non “sta contro” il mondo, animata da una logica di concorrenza e contrapposizione.
Scriveva provocatoriamente Friedrich Nietzsche alla fine del XIX secolo: «Già la parola “cristianesimo” è un equivoco: infondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. L'”Evangelo” morì sulla croce. […]
Soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano. Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria: l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi. Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere».
Il cristianesimo è nato da una grande crisi: quella di Gesù e dei suoi discepoli la sera dell’ultima cena, con il tradimento da parte di uno di loro. Dobbiamo esserne certi: il Signore Gesù ci ha preceduti nella crisi, dunque in essa non ci abbandona.

Enzo Bianchi

Consiglio pastorale diocesano:

“In giugno un voto decisivo per ridestare il sogno europeo”

Un voto decisivo: chiamati a ridestare il sogno europeo.

L’Europa comunitaria nasce da un sogno. Un sogno di pace, giustizia, solidarietà con al centro il valore assoluto della persona e della sua dignità. L’Europa non è, né può essere solo uno spazio economico. Oggi godiamo dei frutti di questo processo storico e politico: la pace, la democrazia, la libertà, lo sviluppo, il sistema di protezione sociale, ma nessuna di queste acquisizioni può essere data per scontata né garantita per sempre.

C’è bisogno dell’Europa.

L’“esperimento” europeo è la costruzione di un luogo di incontro e dialogo tra popoli, culture, religioni differenti. Auspichiamo in particolare che l’Unione europea faccia proprio un compiuto senso di laicità che affermi e consenta l’effettivo pluralismo di ogni espressione culturale e religiosa anche nello spazio pubblico.
Questa Europa ci appassiona, ne sentiamo il bisogno, il mondo ne ha bisogno, soprattutto oggi in un contesto internazionale segnato da conflitti, dalla rinascita di particolarismi, nazionalismi, populismi.
Anche i giovani ci indicano una casa da abitare, una opportunità da cogliere, una promessa da compiere, un orizzonte per il quale spendersi.
Il processo di integrazione europea è avanzato in questi 70 anni con fasi di accelerazioni e altre di rallentamento. Di fronte alle ultime prove l’Unione europea ha risposto in modo differenziato: ad esempio rigidamente nella crisi finanziaria del 2008, con forti ripercussioni sociali; in modo coraggioso, solidale ed efficace in risposta alla pandemia.

Il contributo dei cristiani.

In gioco oggi c’è l’idea di Europa che desideriamo per il futuro. L’Europa infatti è un processo aperto che chiama in causa il nostro protagonismo e anche il nostro contributo critico, di fronte alle grandi sfide perché si possa costruire un’Europa coesa e maggiormente integrata. Le grandi transizioni in atto, che definiscono il “cambiamento d’epoca” che attraversiamo, chiedono la partecipazione e il contributo fattivo dei cristiani, fra queste: questione demografica, disuguaglianze da sanare, diritti da garantire, fenomeni migratori da affrontare insieme, ambiente da tutelare, rivoluzione digitale da governare, una politica estera di cooperazione e di pace sulla base del diritto internazionale.

Un patrimonio da riscoprire.

La comunità cristiana avverte la responsabilità di portare il proprio contributo a questo processo: è il patrimonio che va dai santi patroni dell’Europa ai “padri fondatori”, all’intero magistero della Chiesa, fino all’impegno quotidiano, motivato e coerente, di tanti credenti che si spendono nella società e nella politica. Un patrimonio da riscoprire, vivere e testimoniare. Un messaggio di fiducia e di speranza che ha accompagnato sin dagli esordi il cammino verso l’Europa unita, improntata ai principi di solidarietà e sussidiarietà.

Gli impegni da assumere.

(…) In questo senso l’esercizio del diritto-dovere del voto è una esplicita espressione del nostro impegno e della nostra cura per la “casa comune” europea. Per questo l’8 e 9 giugno ci sentiamo chiamati e invitiamo a partecipare alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Siamo tutti chiamati a ridestare il sogno europeo.

Il Consiglio pastorale diocesano.

Che cos’è il Consiglio pastorale diocesano.
Composto da presbiteri, diaconi, consacrati e soprattutto laici, ai sensi dei canoni 511-14 del Codice di diritto canonico, è un organo consultivo che contribuisce a realizzare la comunione nella Chiesa particolare come strumento di partecipazione aperto a tutte le componenti del popolo di Dio e che, sotto l’autorità dell’Arcivescovo, ha il compito di studiare, valutare e proporre conclusioni operative per quanto riguarda le attività pastorali della Diocesi. È retto da un proprio statuto, approvato dall’assemblea e promulgato dall’Arcivescovo.