La malattia e la sofferenza nella Bibbia – Discorso di papa Francesco

Si tratta di un tema che riguarda tutti, credenti e non credenti. La natura umana, infatti, ferita dal peccato, porta inscritta in sé la realtà del limite, della fragilità e della morte. Questo tema risponde, inoltre, a una preoccupazione che ho particolarmente a cuore, e cioè che la malattia e la finitudine nel pensiero moderno vengono spesso considerate come una perdita, un non–valore, un fastidio che bisogna minimizzare, contrastare e annullare ad ogni costo. Non ci si vuole porre la domanda sul loro significato, forse perché se ne temono le implicazioni morali ed esistenziali. Eppure nessuno può sottrarsi alla ricerca di tale «perché» (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Salvifici doloris, 9). Anche il credente talvolta può vacillare di fronte all’esperienza del dolore. È una realtà che fa paura e che, quando irrompe e assale, può lasciare l’uomo sconvolto, fino ad incrinarne la fede.

Celebrare come popolo regale

L’eucaristia è il più alto magistero di umanità.

Al popolo messianico, oltre a essere popolo sacerdotale, spetta anche la funzione regale pro-pria del Messia: portare pace e giustizia tra gli uomini, difendere il debole, l’oppresso, il senza dignità. Questa è una responsabilità messianica che i cristiani sono chiamati a esercitare nel modo con il quale il Cristo l’ha esercitata.
Spezzare il pane domenica dopo domenica come popolo regale, significa essere consapevoli che l’eucaristia custodisce il disegno di Dio sul mondo, porta in sé un messaggio sulla convivenza umana, segnata dai doni messianici che sono pace, giustizia, libertà, fraternità, condivisione. Così, se la società post-cristiana si estranea sempre più dal cristianesimo, il cristianesimo non potrà mai rendersi estraneo al-la società, qualunque atteggiamento essa abbia nei suoi confronti. I cristiani come popolo messianico non sono un popolo di devoti ma un popolo di sacerdoti, re e profeti, ossia di uomini e donne che quando nel giorno del Signore si radunano in assemblea eucaristica non si estraniano dalla realtà del mondo ma, al contrario, davanti al Signore pregano e intercedo-no per tutti gli uomini, rinnovando la responsabilità nei con-fronti del presente e del futuro del mondo. Come è sempre avvenuto nella storia, anche nei decenni che ci stanno davanti l’assemblea eucaristica sarà il segno più eloquente del modo in cui come Chiesa faremo obbedienza al comando evangelico di essere “nel mondo ma non del mondo”. Se in questa parola del quarto Vangelo, Gesù ci comanda di non appartenere al mondo facendo nostra la logica mondana, ci indica tuttavia il dovere di essere “nel mondo”, cioè essere all’in-terno e non accanto per vivere una vita a parte e per condurre un cammino parallelo. L’unità alla quale il corpo di Cristo tende non è in alternativa all’unità del genere umano, voltando le spalle al comune cammino dell’umanità. La comunione della Chiesa è segno di quella comunione alla quale anche l’umanità anela, in mezzo a tensioni, divisioni, guerre e conflitti. Celebrare ogni domenica da cristiani rispondendo al compito di essere un popolo messianico e regale, significa comprendere che la celebra-zione eucaristica è il luogo del-la fraternità chiamata a diventare solidarietà, dove i bisognosi sono i primi nella considerazione e nella carità di noi cristiani. Sì, l’eucaristia è il più alto magistero di umanità, perché nella frazione del pane c’è racchiuso un realismo umano altissimo, quel realismo che ci ricorda che non possiamo ricevere in modo innocente il pane di vita senza condividere il pane per la vita con chi è nel bisogno. Tutta l’umanità racchiusa nel gesto di spezzare il pane e donarlo, svela al tempo stesso la disumanità del gesto non compiuto e dunque del rifiuto di spezzare il pane e condividerlo con chi e affamato. L’eucaristia è il pane per la vita del mondo, una vita vissuta nella giustizia, nella condivisione e nella pace.

di Goffredo Boselli monaco e liturgista.

Appunti sulla preghiera – Parte quarta

L’orazione.

Osiamo parlare dell’orazione? Che cos’è? Come praticarla? Sarò prudente, affermerò il necessario pudore e non permetterò che le parole divaghino o siano eccessive su questo tema così delicato, Ribadisco che l’orazione deve avere come fonte la parola di dio contenuta nelle Scritture e la liturgia della chiesa, soprattutto l’eucaristia, preghiera delle preghiere.
Negli ultimi secoli si è molto parlato dell’orazione, a volte isolandola dalla sua fonte al punto da illustrare un’attività religiosa ma non cristiana. L’orazione è preghiera intima, è un bocca a bocca con Dio (oratio, da os), è un “cor ad cor loquitur” (san Francesco di Sales e John Henry Newman), è una parola che sgorga dalla fede e dall’amore. È un respirare lo Spirito santo, che è Spirito dell’amore e un sentirsi in Cristo per rivolgersi al Padre, Dio. È uscita da se stessi ma non è una relazione chiusa con Dio, un tu a tu, dal quale sarebbe escluso tutto ciò che ci circonda.
Proprio perché l’orazione è sempre un’operazione trinitaria, comunionale, non può chiudere, non può esaurirsi in un individualismo, né può essere un consumo sentimentale che ha come destinatario Dio e su di lui si esaurisce. Il Dio al quale si dà del tu è un Dio vivente che ci rinvia sempre agli altri, alla comunità, all’umanità intera. Anche nell’orazione il protagonista è lo Spirito santo che è presente in noi e ci suggerisce con gemiti ineffabili cosa dobbiamo dire a Dio nostro Padre (cf. Rm 8,26). Dice a Dio “Abba”, “Papà” (cf. Rm 8,15) solo chi ha in sé lo Spirito santo e solo chi sa di avere come fratello Gesù Cristo. L’orazione è permettere allo Spirito di esprimersi in noi nella libertà.
Ecco perché il silenzio è così primario nella preghiera cristiana. Ciò che muove l’orazione non è la nostra azione, il nostro pensiero, ma il nostro amore, “amore che Dio ha versato nei nostri cuori” (Rm 5,5).

L’intercessione.

Nella nostra relazione con colui che chiamiamo nostro Dio, nostro Padre, sono sempre presenti gli altri, fratelli e sorelle davanti al Signore insieme a noi. Per questo l’intercessione è un’operazione che fa parte della preghiera cristiana, anzi è l’ispirazione del nostro amore per il prossimo. Senza l’intercessione il cristiano non è abilitato ad amare l’altro, a diventare responsabile dell’altro, a vivere con lui la fraternità. Gli altri non sono mai un ostacolo alla nostra preghiera perché sono sempre presenti nel rapporto che Dio ha con noi e noi con lui. Ma come vivere l’intercessione?
Innanzitutto intercedere è fare un passo (inter cedere), un passo tra Dio e l’altro, gli altri. Come fece Abramo intercedendo per Sodoma: si è messo tra la città peccatrice e Dio, per chiedere a lui misericordia (cf. Gen 18,23-32). Si tratta di entrare nella situazione per cui si prega, di farsi solidali di chi grida e invoca.
Intercedere significa poi prendersi cura di un altro, stare dalla sua parte per chiedere a Dio di intervenire con i doni del suo amore, come Mosè che osa chiedere a Dio di escludere lui dal libro della vita ma di preservare il suo popolo (cf. Es 32,32). In questo modo intercedere presso Dio significa cercare di mettersi in empatia con l’altro, quasi stando al suo posto per poterlo rappresentare davanti a Dio.
Ma intercedere significa anche sperare per l’altro. Ciò non è facile, perché si tratta di amare l’altro fino al punto di poter unire la propria voce alla sua, al punto di poter dire all’altro che può abbandonarsi, confidare, perché ciò che lui non può, tentiamo di viverlo noi.
L’intercessione è sempre un atto creativo che richiede perseveranza, durata, persistenza, impone che non si abbassino le braccia ma che restino alzate come quelle di Mosè nel deserto della disperazione (cf. Es 17,12). Sì, l’intercessione origina l’amore del prossimo e di esso si nutre.

Appunti sulla preghiera – Parte terza

Lectio divina.

Per esercitarsi all’ascolto della voce di Dio nel nostro profondo, occorre imparare a riconoscere questa sua parola nell’eco registrata nelle sante Scritture. Perché la parola di Dio è risuonata nel cuore di credenti, nella storia della salvezza, nell’alleanza tra Dio e il suo popolo Israele e di questa parola ci danno testimonianza le Scritture. Queste la contengono perché sono una certa umanizzazione della Parola, umanizzazione che sarà piena nell’umanità di Gesù, il Figlio di Dio, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14). La Bibbia e soprattutto il Vangelo contengono la parola del Signore e noi, attraverso il dono dello Spirito santo, possiamo ascoltare questa parola non umana, ma veramente di Dio (cf. 1Ts 2,13), indirizzata a noi. È un mistero grande quello delle scritture, parola umana, in lingue umane, scritte da autori umani, e nello stesso tempo libri contenenti la parola di Dio, offerta a noi quale luce per il nostro cammino (cf. Sal 119,105), come cibo quotidiano per noi viandanti verso il Regno, come promessa e speranza di salvezza. Si tratta di pregare iniziando con l’ascolto, aprendo le scritture e leggendole, frequentandole con assiduità. Lectio è il primo gradino, al quale segue quello della meditatio, del prendere cura di ciò che si è letto (medeor), di frequentare con attenzione il testo (meditor). Più leggiamo la Scrittura e la meditiamo, più essa diventa cibo da mangiare (manducatio, dicevano i medioevali) perché ci nutre e noi ne sentiamo il gusto; a volte dolcissimo, come miele, a volte amato perché ci giudica (cf. Ez 3,1-3; ap 10,8-11). Così “la parola di Dio cresce con chi la legge”, diceva Gregorio Magno, e viene compresa sempre più in profondità, in modo sempre nuovo, rendendoci addirittura abilitati alla ruminatio, al riprendere e custodire una parola nel tempo che segue la lettura. Dalla meditatio può sgorgare la preghiera intima, possono nascere parole rivolte a Dio con amore e riconoscenza. E dall’oratio si sale all’ultimo gradino, la contemplatio, che è una cosa semplice: vedere la realtà con gli occhi Dio. Questa la preghiera cristiana.

La meditazione.

Oggi si parla molto più di meditazione che di preghiera, e la meditazione conosce successo mai avuto nei secoli passati, almeno in occidente. Ormai l’esercizio della meditazione è slegato dalle tradizioni religiose che lo proponevano e lo regolavano, perché è un’operazione che si vuole semplicemente umana, un cammino di conoscenza di sé, di ricerca della pace, una via di guarigione e di benessere. Per questo la pratica attuale ha come soggetti soprattutto persone non appartenenti al cristianesimo, sovente indifferenti alla fede, ma alla ricerca di una vita interiore che aiuti l’edificazione del sé, la relazione con gli altri, l’armonia con la natura. Nessuna demonizzazione di questi cammini, ma resta necessaria la chiarezza nell’affermare che la meditazione cristiana va oltre ed è altra. In essa, infatti, Dio, il Signore, è riconosciuto come fonte di senso e di salvezza: si sta di fronte a lui e, soprattutto, gli si dà la parola per poterla ascoltare e approfondire attraverso la meditazione. Credo che tutti i metodi e i mezzi proposti per la meditazione possono essere utili e preliminare alla meditazione cristiana, ma questa si nutre di un dono che viene dall’alto, della parola di Dio e del suo Spirito santo, domandato dal credente e donato gratuitamente dal Signore. Nella meditazione cristiana la mente deve accordarsi a ciò che è proclamato (“mens concordet voci”: Regola di Benedetto 19,7), cioè alle sante Scritture che contengono la parola di Dio. La meditazione cristiana scaturirà dunque sempre dall’ascolto, dalla lettura intelligente e impegnata di una parola accolta, ripetuta, custodita e amata. Essa è sempre interpretazione e impegno personale a comprendere e ad applicare a se stessi ciò che lo Spirito dice al credente e alle chiese (cf. Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Non c’è meditazione cristiana senza dare a Dio la parola, accogliendola con fede, umiltà e povertà di cuore.

Appunti sulla preghiera – Parte seconda

Ostacoli: peccati.

Sul cammino della preghiera che sempre apre alla comunione con Dio ci sono altri ostacoli: la nostra lontananza da lui, i nostri peccati, le nostre contraddizioni all’amore gratuito che Dio sempre rinnova nei nostri confronti. Metterci davanti a Dio significa avere il coraggio di Pietro che, riconosciuto Gesù e la sua santità, non può fare altro che dirgli: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Sì, il Signore è santo, e di fronte alla sua santità dobbiamo confessare: “Sono una persona dalle labbra impure!” (Is 6,5).
Infatti abbiamo coscienza di quante volte e di come abbiamo mancato di fede, di come, non vivendo la volontà di Dio, non lo abbiamo amato. E il male commesso ci fa fuggire da Dio, ci fa addirittura aver paura di lui, in modo oscuro e non sempre a noi evidente. In molti casi fuggiamo da Dio e ignoriamo la sua presenza proprio a causa di un’indegnità timorosa che abita le nostre profondità, Ma il Signore, che non è un occhio che ci spia, ci chiama: “Dove sei?” (Gen 3,9), non per rimproverarci ma per riannodare il rapporto e permetterci di ricominciare un nuovo cammino.
Con semplicità, se affiorano i nostri peccati, umilmente ma senza ipocrisia né servilismi mettiamoli alla luce del suo volto, avviciniamoli alla sua santità che è contagiosa, distrugge i peccati e sana tutte le ferite: “Davanti a lui acquietiamo il nostro cuore, perché se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). Pregare è esporsi al Signore così come si è. Non prega chi davanti al Signore, come il fariseo al tempio, si ammanta e si vanta del bene che ha fatto (cf. Lc 18,11-12); prega chi, come il pubblicano, osa solo dire: “O Dio, abbi misericordia di me peccatore! (Lc 18,13).

L’ascolto.

La nostra preghiera sovente è minacciata di non essere cristiana: questo accade quando cerchiamo di pregare parlando a Dio, moltiplicando le parole davanti a lui come fanno i pagani (cf. Mt 6,7), manifestando a Dio le nostre richieste senza neppure pensare o mettere in conto che nella preghiera, come ci è stata insegnata nella Bibbia, la cosa più importante è ascoltare.
Non si può pregare secondo la nostra fede senza ascoltare Dio, mentre ascoltare Dio è pregare perché, anche se non diciamo nulla, è comunque un atto di ricezione, un “amen” detto alla sua parola con gli orecchi del nostro cuore.
E l’esperienza mi dice che, se la nostra preghiera conosce fallimenti, è perché pretendiamo di essere noi i suoi protagonisti.
Chi invece inizia la preghiera è in verità il Signore, è Dio che è Parola rivolta a noi, una Parola che innanzitutto manifesta il suo amore per noi: Dio è Parola, l’uomo è in primo luogo ascolto. Ecco perché il grande comandamento di Dio ai credenti è: “Ascolta” (Shema‘: Dt 6,4) e il credente è colui che ascolta e crede perché ha ascoltato. “La fede” – dice l’Apostolo – “nasce dall’ascolto” (Rm 10,17). Prega dunque chi ha “un cuore che ascolta” (leb shomea‘: 1Re 3,9), seconda a richiesta di Salomone: questo è “il dono tra i doni”, l’unico veramente necessario.
Quando desideriamo pregare, dobbiamo dunque predisporci ad ascoltare, nel profondo del
nostro cuore, quella Presenza eloquente del Dio che abita in noi. Non è un’operazione facile, perché richiede il silenzio, lo stare in quiete, in disparte, e il cercare di sentire una voce come di silenzio trattenuto, come di brezza silenziosa che ci parla (cf. 1Re 19,12). Come a Elia sull’Oreb, il Signore non ci parla nella voce del tuono, né nel turbamento del terremoto, né nel vento tempestoso (cf. 1Re 19,11-12) ma nel silenzio che va ascoltato come grembo della Parola che Dio vuole indirizzarci. Ascoltare, dunque, quale principio della preghiera cristiana.