Il Concilio di Nicea – Anniversario storico

Il prossimo 20 maggio 2025 ricorrerà un anniversario “storico” per la Chiesa, anzi per tutte le Chiese e Confessioni cristiane: il 1700° anniversario dell’apertura del Concilio di Nicea, il primo concilio in assoluto a essere considerato “ecumenico”, cioè universale. Nelle intenzioni di papa Francesco dovrebbe trattarsi di uno degli appunta-menti qualificanti dell’Anno Santo, come dimostra l’ampio spazio che gli dedica nella bolla giubilare Spes non confundit (n. 17). Proprio questo documento del Vescovo di Roma ci aiuta a individuare due chiavi preziose per non accontentarsi della rievocazione storica e per agganciare Nicea all’attualità ecclesiale: una chiave di lettura sinodale e una chiave ecumenica.

Nicea e sinodalità.

La storia della Chiesa testimonia fin dal II secolo una fiorente attività conciliare e/o sinodale. Sia perché all’interno delle Chiese locali, in cui il vescovo è contornato dai presbiteri e dai diaco-ni, non si è ancora imposta una rigida separazione tra il clero e gli “altri”, cioè i laici. Sia perché nei rapporti tra diocesi vicine, per le questioni di interesse comune che non possono essere risolte appellandosi alla tradizione apostolica, diventa ricorrente lo strumento del raduno, cioè del sjnodos (in greco) o del concilium (in latino). Si tratta di assemblee provinciali — che raccolgono le Chiese locali della stessa provincia imperiale — o in certi casi di assemblee regionali, come accade in Nord Africa, dove il concilio plenario prende a essere celebrato a cadenza annuale. A questi appuntamenti sovradiocesani partecipa-no anzitutto i vescovi, quali rappresentanti delle rispettive Chiese locali: ci troviamo, dunque, in presenza di un esercizio di collegialità episcopale, secondo la terminologia che sarà consacrata dal concilio Vaticano II. Ma, accanto ai vescovi, vi prendono parte anche presbiteri e diaconi in qualità di consiglieri, mentre almeno nei concili nordafricani sembra probabile che intervenissero pure laici, forse solo come spettatori o forse, invece, con diritto di parola. In tal caso, si tratterebbe di veri e propri avvenimenti sinodali, secondo il significato che il termine “sinodalità” è venuto assumendo soprattutto durante l’attuale pontificato. Lo asserisce lo stesso Francesco, quando in Spes non confundit afferma che l’esempio dei primi secoli può aiutarci a «dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo» (ibid.). Nel IV secolo il Concilio di Nicea diventa, in un quadro simile, il punto di convergenza di un dinamismo sinodale antico e “tradizionale”: per la prima volta, di fronte a un problema che minaccia la pace di tutta la Catholica, cioè la diffusione della dottrina ariana, è tutta la Catholica a raccogliersi sotto il protettorato dell’imperatore Costantino. Le prime parole del Simbolo di fede niceno: «Noi crediamo» (che sarebbero state poi sostituite dall’attuale «Io credo») sono la testimonianza del consenso faticosamente raggiunto dai padri conciliari: la comunione ecclesiale era stata preservata, anzi, rinsaldata dal raduno sinodale. Non è questo lo scopo di ogni avvenimento sinodale: raccogliersi sotto la guida dello Spirito santo per discernere insieme le vie che il Signore dischiude alla Chiesa e dare al mondo testimonianza di unità?

Nicea ed ecumenismo.

La commemorazione del primo Concilio ecumenico può, al tempo stesso, ravvivare la nostalgia per la Chiesa indivisa dei primi secoli. Quello di Nicea è un concilio prettamente orientale, celebrato a poca distanza da Costantinopoli (nell’odierna Turchia), nella residenza estiva dell’imperatore. Ma a esso parteciparono, svolgendovi un ruolo determinante, alcuni rappresentanti dell’Occidente: in particolare il vescovo Osio di Cordova (che, forse, fu il presidente del Concilio), due presbiteri delegati dal vescovo di Roma, Ceciliano di Cartagine e altri tre presidi latini. A non es-sere invitati furono soltanto i vescovi dei territori esterni dell’Impero, trattandosi, a tutti gli effetti, di un concilio “imperiale”. Il richiamato Simbolo di Nicea, ma anche varie al-tre decisioni assunte dal Concilio — tra cui la definitiva fissazione della data della Pasqua, oggetto di numerosi raduni sinodali tra il II e il III secolo, nonché la preminenza riconosciuta alle tre sedi apostoliche di Roma, Alessandria e Antiochia, quali “punti focali” della communio ecclesiale — offrono oggi, a tutte le Chiese, un deciso sprone al cammino ecumenico. Al riguardo, Francesco ha reiterato fin dall’inizio del suo pontificato l’invito di Giovanni Paolo II a ricercare un modo di esercizio del primato che, ispirandosi al primo millennio, possa essere «riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint 95; cfEG 32). E che, con maggiore insistenza, chiede di trovare un accordo sul-la celebrazione comune della Pasqua. Proprio il fatto che, per una coincidenza singolare, i calendari occidentale e orientale convergono nel 2025 sulla data della Pasqua potrà essere, afferma Spes non confundit, «un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua».

Pasquale Bua – teologo, docente alla Gregoriana.

Quelle visionarie donne di Gesù

Il confronto tra i racconti delle apparizioni pasquali dei quattro vangeli e un testo particolarmente conosciuto di una lettera di Paolo è illuminante. I tre vangeli sinottici concordano nel dire che, oltre a essere state testimoni oculari della morte e della sepoltura, le discepole che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, cioè lungo tutta la sua missione, sono anche le prime testimoni dell’apparizione pasquale dell’Angelo che consegna loro l’annuncio dell’avvenuta resurrezione e le investe del compito di diffonderlo tra i discepoli. Dal canto suo Giovanni si serve di tradizioni diverse, ma la sostanza è la stessa: protagoniste dei racconti di apparizione non sono le discepole galilee, ma è colei che ne rappresenta in qualche modo la responsabile, Maria di Magdala, a cui è riservata l’unica apparizione individuale del Risorto e l’esplicita consegna del mandato apostolico nei confronti degli altri discepoli.
Invece Paolo, nella sua prima Lettera ai cristiani di Corinto, correda la dichiarazione di fede sulla morte e la risurrezione di Cristo con un elenco di diverse apparizioni del Risorto suffragate da una lista di nomi che hanno la funzione di comprovare i fatti a partire dalla testimonianza degli stessi protagonisti, rappresentano cioè la garanzia di quello che la formula dichiara: Cefa, i Dodici, cinquecento fratelli, poi Giacomo e tutti gli apostoli hanno fatto l’esperienza delle apparizioni del Risorto come, più tardi, l’ha fatta anche Paolo stesso. Tutti sono rigorosamente maschi. Paolo dice di aver ricevuto quella formula e questo significa che, quando lui scrive la lettera negli anni 50, essa doveva rappresentare già un punto fermo della prima catechesi cristiana. Quanto viene tramandato nelle comunità giudeo-cristiane dell’epoca, dunque, è che l’annuncio della fede pasquale e la testimonianza della resurrezione, sono garantite unicamente da maschi. Come mai se, come abbiamo detto, per tutti e quattro gli evangelisti sono invece solo le discepole galilee che fanno la prima esperienza della Resurrezione quando, al mattino di Pasqua, trovano il sepolcro vuoto?
Non è facile interpretare un tale strabismo della tradizione. Soprattutto in un tempo come il nostro in cui siamo presi in ostaggio dalla consapevolezza della tensione tra Fact e Fake ed è ancora più difficile ricostruire fatti avvenuti in un tempo molto lontano e il cui racconto ci è pervenuto solo grazie a una catena di interpretazioni. Un’indicazione però c’è e merita di essere presa sul serio.
È interessante notare che al più antico dei vangeli, quello di Marco, viene aggiunta una seconda conclusione in cui si fa esplicito riferimento proprio alle apparizioni alla Maddalena e ai due sulla strada di Emmaus, ma si insiste anche sul fatto che nessuno degli altri discepoli aveva creduto alla loro testimonianza e che questo diviene addirittura motivo di rimprovero da parte del Risorto stesso, durante l’ultima decisiva sua apparizione all’intera comunità liturgicamente riunita intorno agli Undici, «perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto» (Marco 16,9-20).
( …) Colpisce, comunque, che la forza della testimonianza profetica delle discepole, se da una parte risulta un elemento geneticamente irrinunciabile per la nascita dell’annuncio pasquale, deve d’altra parte essere temperata dalla consapevolezza della sua dubbia credibilità: alle donne si deve la genesi della fede nella resurrezione, ma ci si rimette in credibilità se si da troppo risalto alla loro testimonianza. Perché? Da questo punto di vista l’evangelista Luca è quello che consente di chiarire almeno un po’ i termini della questione. Per lui, quando Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo, nonché le altre che erano con loro, hanno raccontato agli apostoli la loro esperienza di apparizione «quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse» (24,11). Secondo il terzo evangelista, anche alla testimonianza dei due discepoli di Emmaus non viene prestata fede, ma costituisce, di fatto, un’esperienza comunicabile e credibile (24,35) come quella a Simone va considerata un evento autorevole (24,34), mentre solo quella alle donne rappresenta un vaneggiamento: le donne annunciano un kerigma incredibile (24,9-11) e trasmettono un’esperienza estatica che risulta incomunicabile (24,22). Il legame tra visione profetica e allucinazione, tra esperienza estatica e follia comincia a farsi strada. C’è poi un episodio narrato nel libro degli Atti degli Apostoli che ancora una volta mette in rapporto resurrezione, donne e pazzia. Quando Pietro, dopo essere stato liberato dal carcere da un angelo, bussa alla porta della casa di Maria «dove molti erano riuniti e pregavano», la giovane domestica di nome Rode che gli apre, e che corre ad annunciare che lui è alla porta, è giudicata pazza. Si tratterà pure di uno stratagemma letterario per far crescere la tensione narrativa, ma ancora una volta è un vaneggiamento femminile che è motivo di incredulità. I commentatori sono concordi nel riconoscere che la tradizione sulle apparizioni pasquali alle donne e, con essa, l’accusa di fondare la nuova fede su un’allucinazione, deve essere stata molto radicata e diffusa nei primi tempi cristiani. (…) È del tutto ragionevole che una nuova religione che voleva farsi spazio all’interno di un mondo culturalmente e religiosamente complesso come quello dell’impero dovesse assumere il principio patriarcale di autorità e perseguire quindi la propria legittimazione sull’esclusione delle donne non soltanto da ruoli e uffici, ma perfino dalla costruzione della memoria collettiva. ( …). La questione seria però è un’altra. Infatti, la fede nella resurrezione di Cristo poteva nascere solo al di fuori di questa logica, poteva essere indotta solo sulla base di fenomeni mistici, visionari e di profetici slanci in avanti. Solo una fede visionaria che salta i confini della stretta ragione ma è in grado di coinvolgere tutti i sensi nell’esperienza di una dimensione del sacro accessibile unicamente in termini mistici poteva far saltare tutte le regole. E per questo forse, solo le donne, da sempre sentinelle alle porte di ingresso nella vita e di uscita dalla vita, sentinelle del segreto della nascita e della morte, potevano arrivare per prime a percepire come possibile un modo altro di incontrare il Maestro, di tenerne viva la memoria, di non cercare tra i morti colui che è vivo. Per questo i Vangeli, nonostante l’ostilità diffusa nei confronti delle testimonianze delle donne in tutti gli ambiti pubblici, non possono fare a meno di riconoscere che solo il loro protagonismo ha reso possibile il passaggio dal discepolato nei confronti di un rabbi e di un messia a un altro discepolato, quello nei confronti di colui che «non è qui, è risorto» (Luca 24,6). La loro fede visionaria sconfina in quella che, secondo la logica del mondo, va chiamata “follia”? È del tutto possibile, e non è un caso se ben presto è stato necessario attivare processi in grado di garantire alla nuova fede la legittimazione di autorevoli figure maschili. Per Marco, Matteo, Luca e Giovanni, però, è proprio dalla loro “follia” che è nato il vangelo della resurrezione.

Marinella Perroni – biblista

La parola irevocabile di Dio

Dio ha pronunciato sulla morte una parola irrevocabile, l’ha annientata, ha fatto risorgere Cristo. Che cosa significa? Come comprendiamo questo fatto? Si risvegliano una serie di domande: che cos’è la risurrezione del corpo? Che cosa significa la tomba vuota? E le apparizioni? Una serie di domande che sollecitano Ia curiosità, il gusto della superstizione e del misterico, cose alle quali non ci appassioniamo. Domande che si moltiplicano senza fine. Certo, la tomba era vuota. Ma soltanto una cosa è importante: Dio era dalla parte di Cristo e lo ha toccato con la sua vita eterna. Ora Cristo vive, e vive perché Dio vive e perché l’amore di Dio vive. Questo ci basta. Sul ‘come’ non possiamo almanaccare. Sul “che” non cambia nulla. Ma se Dio vive, allora vive l’amore malgrado la croce, allora noi non viviamo più nella colpa, allora Dio ci ha perdonato. Dio era dalla parte di Gesù, ma Gesù era dalla nostra parte. Se Gesù vive, allora la nostra fede riceve un nuovo senso. Allora siamo siamo i più beati fra gli uomini. Un ‘sì’ di Dio all’umanità colpevole, un nuovo senso per tutto il nostro agire, questo è la Pasqua.

D. Bonhoeffer

Un amore per noi

“Vi do un comandamento nuovo” (Gv 13,34), dice Gesù: il che significa che chi lo conosce inizia una nuova vita con il suo prossimo, una vita secondo il comandamento di Gesù. Che cosa dice questo nuovo comandamento? «Che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. L’amore di Gesù Cristo per noi, che cosa significa? E’ soltanto una parola o qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza? Soltanto chi ne ha fatto esperienza può amare l’altro con un tale amore. L’ amore di Gesù è un amore che viene dall’eternità e si rivolge all’eternità. Non dipende da cose temporali, ma ci abbraccia, perché dobbiamo essere eterni. Non è impedito da nulla, è l’eterna fedeltà di Dio. L’amore di Dio è l’amore che non ha paura di alcun dolore, di alcuna rinuncia, di alcuna sofferenza quando viene in soccorso dell’altro. È l’amore con il quale egli ci ha amati soltanto per noi stessi, per il quale si è caricato sulla terra dello scherno e dell’odio degli uomini ed è morto sulla croce. L’amore di Gesù è l’amore che prende su di sé la croce. L’amore di Gesù è l’amore che si rivolge a noi così come siamo. Come una madre ama il suo bambino per come è, e più la sua miseria è grande e più lo ama, perché sa che ha bisogno del suo amore, così è l’amore di Gesù per noi. Ci accetta così come siamo.

D. Bonhoeffer

Sulla Speranza (parte ultima)

La preghiera e la speranza di Gesù di fronte ai ritardi di Dio.

Questa condizione, tipica dell’orante biblico, non è estranea all’esperienza dello stesso «Cristo Gesù nostra speranza» (1Tm 1,1), che ha vissuto il mistero della passione, della morte e della resurrezione, e di conseguenza del cristiano. Gesù, infatti, più di tutti i giusti dell’AT, ha vissuto lo scandalo dei ritardi di Dio. E il battezzato, immerso in lui, non può sottrarsi a questa logica. Gesù ha pregato molto spesso. Ha passato persino notti intere in preghiera (Lc 6,12). Ma prega soprattutto nei momenti più critici della sua vita terrena, quando la tentazione assale anche lui. Egli affronta la tentazione pregando, soprattutto l’ultima tentazione nell’orto degli ulivi e sulla croce. Gesù aveva detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Quando, durante la passione bisogna fare questa volontà, si scatena il dramma. Si apre un confronto sanguinoso con la volontà del Padre. Non appena infatti tenta di vivere questa obbedienza nella sua natura umana, scoppia la crisi. Il suo corpo l’abbandona, suda sangue e acqua, muore. E Gesù affronta questo confronto sanguinoso con la volontà del Padre pregando: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39): È pregando che Gesù ha sostenuto questa lotta ed è stato esaudito al di là della morte. Sulla croce la tentazione si fa ancora più insidiosa. Qui viene schernito su ciò che gli sta più a cuore, ciò per cui è venuto: la salvezza. Con sarcasmo gli viene detto: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,35. 37). Gesù non nasconde l’angoscia e pregando fa suo il grido del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Gesù sente improvvisamente l’assurdità della sua morte e dell’incomprensibile assenza del Padre. Egli sperimenta fino in fondo di come sia difficile cambiare il cuore, la vita degli uomini, ma questo non lo porta alla disperazione, perché egli sa che il regno di Dio è là dove non si da ritorno su di sé, non si da dimostrazione di potenza, ma comunione con Dio e desiderio di rendere tutti, anche nel più profondo dolore, partecipi della gioia di Dio. A partire da questa situazione drammatica, quindi, Gesù continua a credere, contro ogni speranza umana, che il Padre nonostante tutto lo ama. E lo ama, non senza la morte, neppure sfuggendo alla morte, ma mediante la morte per una vita nuova. In questa prova senza misura, sull’orlo della disperazione, la preghiera di Gesù ha saputo pronunciare il suo sì alla volontà del Padre. La sua preghiera è un bacio d’amore nel quale egli consegna il suo ultimo respiro: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
Gesù accetta di lasciarsi andare… nelle mani di suo Padre. È un abbraccio che non sfocia nella morte, ma nell’Amore, nella resurrezione. Egli dalla croce consegna il suo spirito (Gv 19,30), il suo respiro al Padre, ma lo consegna anche a noi, come bacio d’amore, perché anche noi possiamo vivere del suo soffio vitale del suo respiro e perché anche a noi sia concesso vivere la stessa speranza e lo stesso abbandono nel progetto del Padre. Gesù con il suo corpo risuscitato, è ora la Via della speranza. E lo è perché è colui che prima di tutto, pregando, ha attivamente sperato nell’oscurità della nostra storia.