Mercoledì 11 ore 21.15 presso Cineteatro Agorà – Sedriano.
Trasformare il debito in speranza; Debito nazionale, clima e pace. Le sfide globali e l’impegno del giubileo. Relatore: prof. Riccardo Moro, Università di Milano, Istituto Toniolo di diritto internazionale della pace.
Andrea
Ritagli di riflessione
Occorre continuare a fare memoria del passato: l’insegnamento della Bibbia.
Per non ripetere gli sbagli che si fanno sempre più lontani nel tempo serve creare un ricordo collettivo corretto.
Quando i fatti che hanno segnato in negativo la storia dell’umanità si fanno sempre più lontani, è necessario cercare un modo efficace per continuare a farne memoria. Insegnare alle nuove generazioni a non ripetere gli sbagli permette di creare un ricordo collettivo «capace di generare un presente appoggiato su un passato ben definito e proteso verso un futuro identitario», senza egocentrismi, supremazie e nazionalismi. Nell’Antico Testamento, la memoria va vista in due direzioni: quella che Dio fa dell’uomo e quella che l’uomo fa, o dovrebbe fare, di Dio. Nel primo caso, il Signore dimostra di rimanere eternamente fedele alla sua parola. Ad esempio, riguardo alla liberazione degli israeliti schiavi in Egitto dice a Mosè: «Sono ancora io che ho udito il lamento degli israeliti asserviti dagli Egiziani e mi sono ricordato della mia alleanza» (Es 6,5).
Ma l’essere umano è capace di rispettare questo patto per sempre, oltre Abramo, Isacco, Giacobbe?
Sempre nel libro dell’Esodo, a un certo punto nel deserto la comunità israelita mormora contro Mosè e Aronne: «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16, 2-3).
Non viene dunque coltivato il giusto ricordo dei due fratelli, scelti da Dio stesso come sue guide, che l’hanno portata dalla schiavitù alla libertà. Senza una corretta memoria del vissuto che ancori il presente nel passato, persino il cammino che conduce alla libertà fa paura.
Gli israeliti si erano dimenticati delle promesse di Dio, che si sarebbero avverate dopo un cammino certamente molto faticoso, ma indispensabile. Mentre Mosè guarda lontano, vedendo la terra promessa dinanzi a sé e pensando che nessuna sofferenza sia troppo grande rispetto al fine che si pone, il popolo, almeno in parte, vuole prove più immediate dell’impegno divino, allontanandosi così dalla memoria sincera del passato.
Le Scritture non omettono di narrare questi sbagli. Nel Deuteronomio, il racconto dell’episodio del vitello d’oro e della conseguente rottura delle prime tavole della legge da parte di Mosè ci ricorda che dobbiamo affrontare le nostre cadute per non ripetere il male e i tradimenti commessi.
Per farlo occorre un attento e continuo esame di coscienza, che ci serve per comprendere come comportarci nel presente e capire chi vogliamo essere nel futuro.
«Insomma, la Bibbia ci restituisce un modo di fare memoria in grado di passare attraverso le storie gloriose che uniscono le persone e fondano l’identità di un popolo (umano e non nazionale […]), ma anche attraverso i momenti bui, che non devono diventare sterili occasioni di tristezza collettiva al grido di “mai più” […] ma sappiano, attraverso gesti concreti e riflessioni serie e pacate, aprire sentieri nel deserto dell’umana povertà».
La legge sul fine vita
Dibattito etico e politico in merito al suicidio medicalmente assistito
L’ordinanza 207/2018 e le due sentenze successive della Corte costituzionale che impegnano il legislatore a intervenire: un percorso difficile e controverso
di Sandro Spinsanti – psicologo, esperto di bioetica
Per quanto controverso e difficile sia il percorso di una legge nazionale che regoli il fine vita, e in particolare il suicidio medicalmente assistito, è inevitabile che, prima o poi, vi si pervenga. L’ha formalmente richiesto la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con due successive sentenze. Anche la maggioranza della popolazione dai sondaggi risulta favorevole. Su questo scenario ipotetico risalta una questione: quale posizione potranno/dovranno assumere medici, infermieri e altri professionisti sanitari? È scontato che la legge dovrà rispettare la divergenza delle valutazioni etiche. L’abbiamo peraltro già sperimentato nel contesto della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza: l’obiezione di coscienza è stata formalmente prevista, senza che tutti i professionisti fossero obbligati a seguire una stessa prassi, qualora non la condividessero. Saranno poi i codici deontologici delle rispettive professioni a delimitare gli ambiti tra ciò che è prescritto dalla legge e i comportamenti ritenuti appropriati per coloro che praticano la cura. Dovrà essere rispettata la possibilità di un ventaglio di posizioni, non riducibili solo all’alternativa di favorevoli o contrari a rendere possibile la fine della vita con l’aiuto della medicina. Non si tratta tanto di filosofeggiare sulla vita e sulla morte, sulla disponibilità o indisponibilità della vita umana: il focus della questione è costituito dalla presa di coscienza che il morire nel nostro contesto culturale è medicalizzato. Ciò implica che i tempi e i modi del fine vita dipendono da quanto si fa o si omette di fare ricorrendo alle risorse sanitarie. A ciò va aggiunto che la medicina ha più che mai una doppia faccia: può costituire una benedizione, ma anche una condanna. Soprattutto nel contesto circoscritto dalla delibera con cui la Consulta ha predisposto che, in certe condizioni, aiutare una per-sona al suicidio non costituisce reato: parliamo di una malattia inguaribile che progredisce senza poter essere arrestata e che provoca una sofferenza ritenuta soggettivamente insostenibile. Quando sopravvivere grazie ai sussidi di sostegno vitale che la
medicina può garantire non è più considerato un beneficio dal-la persona malata, la medicina cambia segno, tramutandosi in una maledizione. In questo scenario generale le posizioni che assumono i professionisti della cura sono molto più differenziate della semplice polarizzazione tra favorevoli e contrari al suicidio attuato con l’aiuto della medicina stessa. Quella che possiamo chiamare “postura professionale” nei confronti del fine vita non dipende solo dalle decisioni che si valutano buone o cattive coni criteri dell’etica.
Sono piuttosto un mix in cui riconosciamo le spinte motivazionali che animano la professione del curante. Possono andare dall’orientamento idealistico-filantropico a motivazioni di più basso profilo. Entusiasmi, delusioni, eventi rimotivanti: il percorso della spinta motivazionale è decisamente a ostacoli e non si può escludere che l’impulso iniziale a un certo punto si spenga (burn out). Nella postura del professionista riconosciamo inoltre differenze notevoli rispetto al sapere sul quale si fa affidamento per erogare le cure. Può essere esclusivamente quello delle scienze hard o il sapere che proviene dalle Medical Humanities. Se prevale l’opzione scientista rispetto a quella umanista, l’interesse sarà polarizzato sulle prove di efficacia dei trattamenti, piuttosto che su tutto ciò che l’ascolto del vissuto del malato può far emergere, compresa la “sazietà di vita” e la richiesta di porre fine a una sopravvivenza quando questa sia diventata un incubo. Non si tratta di formulare dei giudizi moralistici sull’una o l’altra pastura dei professionisti, ma di capire come le diverse posture si riverberino sul come e fin dove accompagnare il malato nel percorso di fine vita. La differenziazione comincia ben prima del sì o no all’aiuto al suicidio. Se un professionista ha fatto propria una postura vitalista, sarà incline a considerare il suo compito di cura come un impegno a prolungare la vita della persona malata, in qualsiasi modo e a qualsiasi prezzo. La postura scientista intende la cura come la riparazione di un organo malfunzionante: le dimensioni psicologiche e spirituali del malato gli sono del tutto estranee. Il professionista che l’adotta si atterrà ai comportamenti validati e standardizzati dalla scienza (ma-gari come mossa preventiva di autodifesa, per possibili contestazioni giuridiche o medico-legali). E quando sarà arrivato al termine delle sue possibilità — «Non c’è più niente da fare» — passerà il testimone ad altri, invocando l’intervento del palliativista. Un atteggiamento che in ambito pastorale richiama il triste: «Non c’è più niente da fare: chiamate il prete». La priorità è agganciare l’accompagnamento nella parte finale della vita alla cura, non intendendolo come un’alternativa alla cura stessa. Sarà poi diversa la disponibilità dei professionisti a prendere su di sé questo compito, secondo le diverse posture. Alcuni si fermeranno molto prima di entrare nell’ambito delle cure palliative. Anche i palliativisti stessi potranno differenziarsi: qualcuno si arresterà alla possibilità di una sedizione profonda; altri potranno includere anche un aiuto a un positivo distacco dalla vita, quando questa sia diventata intollerabile per il malato. Ma l’orizzonte dev’essere sempre quello della cura, intesa come un accompagnamento lungo tutto l’arco della vita.
Oratorio estivo
Oratorio Estivo (9/06 – 11/07) cercasi disponibilità per le pulizie al termine delle attività (ore 17.00), nei giorni lunedì, martedì, giovedì e venerdì.
Sul sito www.parrocchiadimesero.it è disponibile il volantino informativo per le iscrizioni all’oratorio estivo.
Recita rosari mese di maggio
Domenica 25 presso Via Verdi, 35 (Famiglia Corti)
Martedì 27 presso Via Mazzini, 2 (Famiglia Masetti)
Giovedì 29 presso il Santuario della Famiglia