Viaggio Parrocchiale in ROMANIA dal 25/09 al 29/09/2025 (programma pdf)
Avviso:
Nei giorni di domenica 10 agosto, venerdì 15 agosto, domenica 17 agosto e domenica 24 agosto ci sarà una sola S. Messa alle ore 10.00.
Calendario pastorale
Il CELIM presente il 21 e 22 giugno ha distribuito 120 pacchi di riso raccogliendo 700 € che serviranno per l’acquisto di sacchi di mais per le famiglie con bambini disabili dello Zambia.
Ritagli di Riflessione
di Armando Matteo docente di teologia all’Urbaniana.
Uno degli elementi più illuminanti dell’Opzione Francesco riguarda la lettura della situazione della Chiesa nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo. Anche in questo caso le parole di Francesco risultano più efficaci che mai: «Veniamo da una pratica pastorale secolare, in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura. È vero, è la nostra eredità. Come autentica maestra, essa ha sentito la responsabilità di delineare e di imporre, non solo le forme cul-turali, ma anche i valori, e più profondamente di tracciare l’immaginario personale e collettivo, vale a dire le storie, i cardini a cui le persone si appoggiano per trovare i significati ultimi e le risposte alle loro domande vitali. Ma non siamo più in quell’epoca. È passata. Non siamo nella cristianità, non più. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati». Fino a un recente passato la Chiesa era l’unico referente della cultura.
L’espressione “cristianità” indica, in effetti, il tempo di un felice — seppure non privo di ambiguità — sodalizio tra le istanze del vivere e quelle del credere: il tempo nel quale, facendo leva sull’orizzonte filosofico greco e sulla prospettiva istituzionale e giuridica romana, la Chiesa era riuscita a guadagnare una notevole presa nella definizione e manutenzione degli immaginari personali e collettivi del contesto occidentale. Una grande impresa e una grande stagione! L’annuncio del Vangelo ha così potuto trovare un quasi immediato riscontro nella vita dei singoli e accompagnarli nella ricerca dei significati ultimi e delle domande di senso dell’esistenza. Più in particola-re di quei significati ultimi e domande di senso legati a quella condizione dell’umano precedente l’avvento del cambiamento d’epoca, che potremmo riassumere nell’immagine di uomini e di donne costretti a vivere in una “valle di lacrime”. Ebbene, con il cambiamento d’epoca, la cristianità finisce.
I nuovi immaginari che guidano le esistenze dei singoli e della collettività trovano la loro ispirazione fondamentale in quella trasformazione della condizione dell’umano che va sotto il nome del benessere, della libertà, del piacere, del godimento e che è sempre più sotto la tutela del potente magistero del sistema economico- finanziario.
La Chiesa, oggi, non è più l’unico riferimento della cultura: vescovi, preti, catechiste non sono più gli unici ad avere parole convincenti sui significati ultimi e sulle domande di senso del cittadino occidentale medio né sono tra i soggetti più ascoltati. E le conseguenze di questa nuova condizione del cristianesimo, al tramonto della cristianità, sono evidenti. Penso, in particolare, al crescente ateismo delle nuove generazioni. Eppure, la fine della cristianità non è la fine del cristianesimo. Tutt’altro. Di cristianesimo c’è ancora bisogno. Ma c’è bisogno di un cristianesimo diverso, altro, rispetto a quello che ha preso forma nel tempo della condizione umana in una “valle di lacrime”.
Sulla Speranza
Lettera Enciclica Spe Salvi n 47 – 48.
47. Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l’uno con l’altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).
48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza cristiana. Nell’antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L’Oriente non conosce una
sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell’« aldilà », ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato « ristoro e refrigerio » mediante l’Eucaristia, la preghiera e l’elemosina. Che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l’aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il « purgatorio » è semplicemente l’essere purificati mediante il fuoco nell’incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all’altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c’è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.