Dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede

“Dignitas infinita circa la dignità umana”

Principi fondamentali.
Nelle prime tre parti della dichiarazione sono richiamati i principi fondamentali. «La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto» la «dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù» (1). Una «dignità inalienabile» che corrisponde «alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale (6) ed è «un dono ricevuto» ed è pertanto presente «per esempio, in un bambino non ancora nato, in una persona priva di sensi, in un anziano in agonia» (…)

Dignità di ogni persona.
Il documento mette in luce l’equivoco rappresentato dalla posizione di coloro che all’espressione “dignità umana” preferiscono “dignità personale”, «perché intendono come persona solo “un essere capace di ragionare”». Di conseguenza, sostengono «non avrebbe dignità personale il bambino non ancora nato e neppure l’anziano non autosufficiente, come neanche chi è portatore di disabilità mentale. La Chiesa, al contrario, insiste sul fatto che la dignità di ogni persona umana, proprio perché intrinseca, rimane al di là di ogni circostanza» (24). Inoltre, si afferma «il concetto di dignità umana, a volte, viene usato in modo abusivo anche per giustificare una moltiplicazione arbitraria di nuovi diritti… come se si dovesse garantire la capacità di esprimere e di realizzare ogni preferenza individuale o desiderio soggettivo (25).

L’elenco delle violazioni:

Povertà, guerra e tratta delle persone.
Si parla innanzitutto del «dramma povertà», «una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo» (36). Poi c’è la guerra, «tragedia che nega la dignità umana» ed «è sempre una “sconfitta dell’umanità”» (38), al punto che «oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”» (39). Si prosegue con il “travaglio dei migranti”, la cui «vita è messa a rischio perché non hanno più i mezzi per creare una famiglia, per lavorare o per nutrirsi» (40). Il documento si sofferma poi sulla “tratta delle persone”, che sta assumendo «dimensioni tragiche» e viene definita «un’attività ignobile, una vergogna per le nostre società che si dicono civilizzate» invitando «sfruttatori e clienti» a fare un serio esame di coscienza (41). Allo stesso modo si invita a lottare contro fenomeni quali «commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato» (42). Si citano inoltre “l’abuso sessuale”, che lascia «profonde cicatrici nel cuore di chi lo subisce»: si tratta di «sofferenze che possono durare tutta la vita e a cui nessun pentimento può porre rimedio» (43). Si continua con la discriminazione delle donne e la violenza su di esse, citando tra queste ultime «la costrizione all’aborto, che colpisce sia la madre che il figlio, così spesso per soddisfare l’egoismo dei maschi» e «la pratica della poligamia» (45). Si condanna il “femminicidio” (46).

Aborto e maternità surrogata.
Netta è poi la condanna dell’aborto: «fra tutti i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile» e si ricorda che la «difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano» (47). Forte anche il no alla maternità surrogata, «attraverso la quale il bambino, immensamente degno, diventa un mero oggetto», una pratica «che lede gravemente la dignità della donna e del figlio… fondata sullo sfruttamento di una situazione di necessità materiale della madre. Un bambino è sempre un dono e mai l’oggetto di un contratto». (48) Nell’elenco sono poi citati eutanasia e suicidio assistito, confusamente definiti da alcune leggi «morte degna», ricordando che la «sofferenza non fa perdere al malato quella dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile» (51). Si parla quindi dell’importanza delle cure palliative e dell’evitare «ogni accanimento terapeutico o intervento sproporzionato», ribadendo che «la vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata» (52). Tra le gravi violazioni della dignità umana trova anche spazio lo “scarto” delle persone diversamente abili (53).

Teoria del gender.
Dopo aver ribadito che nei confronti delle persone omosessuali va evitato «ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza», denunciando «come contrario alla dignità umana» il fatto che in alcuni luoghi persone «vengano incarcerate, torturate e perfino private del bene della vita unicamente per il proprio orientamento sessuale» (55), il documento critica la teoria del gender, «che è pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali» (56). La Chiesa ricorda che la «vita umana, in tutte le sue componenti, fisiche e spirituali, è un dono di Dio, che va accolto con gratitudine e posto a servizio del bene. Voler disporre di sé, così come prescrive la teoria del gender… non significa altro che cedere all’antichissima tentazione dell’essere umano che si fa Dio» (57). La teoria del gender «vuole negare la più grande possibile tra le differenze esistenti tra gli esseri viventi: quella sessuale» (58). Pertanto sono «da respingere tutti quei tentativi che oscurano il riferimento all’ineliminabile differenza sessuale fra uomo e donna» (59). Negativo anche il giudizio sul cambio di sesso, che «di norma, rischia di minacciare la dignità unica che la persona ha ricevuto fin dal momento del concepimento» anche se «questo non significa escludere la possibilità che una persona affetta da anomalie dei genitali già evidenti alla nascita o che si sviluppino successivamente, possa scegliere di ricevere assistenza medica allo scopo di risolvere tali anomalie» (60).

Violenza digitale.
L’elenco si completa con la “violenza digitale”, e cita le «nuove forme di violenza si diffondono attraverso i social media, ad esempio il cyberbullismo» e la «diffusione della pornografia e di sfruttamento delle persone a scopo sessuale o tramite il gioco d’azzardo» sul web (61). La dichiarazione finisce esortando «a porre il rispetto della dignità della persona umana al di là di ogni circostanza al centro dell’impegno per il bene comune e di ogni ordinamento giuridico» (64).

Tratto da Vatican News

Ritagli di riflessione

E’ difficile vivere nel presente. Il passato e il futuro continuano a tormentarci. Il passato con la colpa, il futuro con le ansie. Tante cose sono accadute nella nostra vita per le quali ci sentiamo a disagio, pieni di rimpianti, di rabbia, di confusione. E tutti questi sentimenti sono spesso colorati di colpa. La colpa che dice : “dovevi fare qualcosa di diverso…; dovevi dire qualcosa di diverso….” . Peggiori della colpa sono però le nostre ansie che riempiono la nostra vita di “se”. “ Se perdo il lavoro; se l’economia va male; se…”.
I veri nemici della nostra vita sono questi “doveri” e questi “se”. Ci spingono indietro nell’inalterabile passato e in avanti verso un imprevedibile futuro. Ma la vera vita ha luogo qui ed ora. Dio è un Dio del presente. Dio è sempre nel momento presente, che quel momento sia facile o difficile, gioioso o doloroso.(…) Gesù è venuto a spazzar via il peso del passato e le ansie del futuro. Egli vuole che noi scopriamo Dio proprio là dove siamo, qui ed ora.

Henri Nouwen

Dio e il male

Come può esistere il male se Dio è amore assoluto? Forse il più grande dei misteri teologici del cristianesimo, che resta tale, soprattutto se lo leggiamo in rapporto all’innocenza (perché l’innocente soffre e sperimenta il male?)
Nella tradizione cattolica il male è sempre stato pensato come conseguenza del peccato. Ma prodotto da chi? Dal peccato stesso, o da Dio che, estrinsecamente al peccato, decide di castigare il peccatore? Se torniamo a Genesi 3 qualche chiarezza forse si trova. Intanto è innegabile che il male come effetto del peccato si presenti per la prima volta nella Bibbia al versetto 7, subito dopo il peccato dell’uomo, con la vergogna che la coppia prova nel percepirsi nudi, che ribalta Genesi 2,24.
Poi al versetto 8 la paura di Dio, da cui l’uomo stesso si nasconde. Poi al versetto 12, dove si infrange la fiducia nell’altro. Tutto questo senza intervento di Dio. Le parole di Dio, poi, nel versetti 14-19, hanno tutte i verbi all’imperfetto, non all’imperativo, pur possedendo l’ebraico questa forma verbale.
E di solito l’imperfetto ebraico è tradotto col futuro. Non sono perciò azioni che Dio impone come castighi, di cui lui è la causa, ma nelle quali Dio si limita a rivelare all’uomo ciò che lo aspetta a causa del peccato. Infatti le uniche due maledizioni che Dio emette sono contro il serpente e il suolo, non contro i due della coppia.
Il Nuovo Testamento va nella stessa direzione. Gesù Cristo non castiga mai i peccatori che incontra. Se la prende violentemente con chi non si riconosce peccatore, ma non li castiga. Su 24 passi in cui nella Bibbia si parla del castigo di Dio, solo due sono del Nuovo Testamento e nella 1 Lettera di Giovanni c’è un passo che dice esattamente il contrario.
Luca 13,1-5 sta lì proprio a dire che non esiste collegamento tra castigo di Dio e male sperimentato. Il magistero, dal canto suo è altrettanto chiaro: “(Gli uomini) hanno peccato. È così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene” (310-311).
La risposta sembra chiara, il male non è opera di Dio, ma è effetto inevitabile dell’azione di peccato che l’uomo compie. Ancora Luca 13,1-5 ci offre proprio questa indicazione: è il peccato a produrre la morte. In altre parole, non è Dio che ci castiga, ma siamo noi che compiamo un’azione che ha, di suo, per la struttura di quella stessa azione, un effetto maligno, che produce male, a noi, agli altri, al mondo. E questo, per essere compreso nella sua portata così drammatica, come la realtà ci mostra, ha bisogno di essere letto a partire dall’essere stesso delle cose, sul piano ontologico.
Se il peccato è un tentativo impossibile di essere ciò che non si è, il male allora è una sottrazione di “essere” che si viene a produrre in conseguenza di questo tentativo. Il peccato riduce l’essere, mio, degli altri, del mondo. Apre una voragine, crea una mancanza nell’essere, sottrae amore possibile, porta via vita a me, agli altri, al mondo. Il male non è tanto qualcosa che ha una vera consistenza ontologica, che ha “l’essere” effettivamente, ma invece qualcosa che “manca di essere”, che corrode l’essere in direzione della sua nullificazione.
Il male tende a non essere. Ed esiste solo ed esclusivamente in forza di quel poco di bene che ancora al suo interno alberga, come ricerca depravata dell’amore. Si rende percepibile perciò in quelle forme di vita che ci rimandano al “non essere”, la sofferenza e la morte, ma che sono così drammatiche proprio perché al loro interno continuano ad albergare tracce di vita, di essere, di amore che non vogliono “non essere” più.
Di fronte al male, Dio continua ad amare pazzescamente l’uomo. Il testo più evidente è proprio quello che spesso viene invocato come primo atto in cui Dio castiga, la cacciata dal paradiso terrestre. “Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!». Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita”. (Gen 3,22.24).
È lampante che Dio agisce per evitare che l’uomo metta le mani anche sull’albero della vita. Un’azione preventiva sul futuro, non retributiva del passato. A meno che non vogliamo pensare che Dio lo faccia per invidia nei confronti dell’uomo, per la paura di essere spodestato dall’uomo, il suo gesto ha solo un’altra lettura possibile: è per evitare all’uomo di provare a completare l’opera del peccato.
È un gesto protettivo, non punitivo. È un gesto misericordioso, che mette l’uomo nella condizione di nuocere un po’ meno a sé stesso e agli altri. Allo stesso modo pure il gesto con cui costruisce le tuniche alla coppia è perché possano vivere senza paura e vergogna, proteggendoli dagli effetti del peccato. Così pure le parole che anticipano le fatiche e i sudori della vita, sono parole che servono all’uomo perché abbia coscienza di ciò che l’aspetta e così possa affrontarlo meglio.
Gesti e parole di Dio che tendono a proteggere l’uomo nelle sue varie relazioni. Come mai? Perché Dio sa che il peccato e il male si diffondono per relazione. La trasmissione del peccato per via di generazione, non è altro che un caso tra i tanti di contagio relazionale del peccato. Il mio atto di amore perverso che vorrebbe “rubare” per me un brandello di felicità limitata, produce in me l’amarezza di non essere riuscito ad avere abbastanza vita, amore, essere.
E quando qualcuno o qualcosa entra in relazione con me, questa mancanza che mi porto dentro, si riversa in quella relazione e io tendo a “rubare” anche all’altro quel pezzo di “vita” che cerco e non ho. Essere al mondo significa essere esposti al male, comunque, perché siamo in relazione. Resta però vero che noi non siamo in grado di avere il quadro complessivo di tutte le relazioni e dei loro effetti mortiferi prodotti. Perciò non sappiamo dire perché proprio quella persona lì stia soffrendo, pur se innocente. (vedi Giobbe!)
Solo se Dio negasse il valore della libertà umana e ne bloccasse gli effetti perversi delle sue azione peccaminose, il dolore innocente sarebbe evitabile. Ma Dio, ovviamente, non può negare ciò che ha fatto, non può pentirsi di aver creato l’uomo libero e capace di amore, a sua somiglianza. Perciò non può intervenire, quando noi vorremmo, a “correggere” gli effetti nefasti delle nostre scelte libere. Ecco perché il male ha possibilità di propagarsi nel mondo, fino alle conseguenze più atroci e indicibili che purtroppo l’uomo ha visto nel corso della storia.

Gilberto Borghi

Il cammino pasquale

Dio è amore, è ciò che emerge dalle scritture, è ciò che ha rivelato Gesù nei suoi gesti e nelle sue parole.
L’amore si realizza quando fa riferimento alla maniera di amare di Cristo e dello Spirito santo, che sono i due rivelatori del Padre. Ora, l’amore di cui stiamo parlando ha sempre una dimensione pasquale: una dimensione del sacrificio, dell’oblazione e una dimensione del superamento del limite, della morte, che si dà nella risurrezione.
Ne è traccia lo sviluppo liturgico del triduo pasquale: dal giovedì santo, il giorno della comunione e della condivisione di Gesù con i discepoli (dove però già c’è il germe del male espresso nel tradimento di Giuda); al venerdì santo, il giorno della sofferenza e della morte; al sabato santo, il giorno del lutto e del silenzio, fino ad arrivare alla domenica della risurrezione. Ne emerge una consapevolezza che nasce anche da uno sguardo sapienziale dell’esperienza della vita: l’uomo sa che tutto ciò che è bello, buono, nobile e giusto si realizza in mezzo a difficoltà e ostacoli e resistenze, per poi compiersi e realizzarsi assumendo così la dimensione pasquale.
La via dell’amore guidata dallo Spirito non passa mai dal giovedì santo alla domenica di Pasqua, saltando il venerdì e il sabato santo, bensì invece includendo questi due momenti.
L’esperienza comune del vivere, infatti, ci conduce alla considerazione che il cammino del bene, dell’amore, della vita buona, conosce non solo le primavere, ma anche qualche giorno d’inverno, se non anche qualche lungo inverno. L’amore, dunque, ha una dimensione pasquale: si compie passando attraverso cadute e prove.
L’uomo fa di tutto per evitare la via pasquale, ma ogni tentativo prima o poi gli si presenta come un’illusione, davanti alla quale occorre ritornare ad invocare il dono dello Spirito.
Infatti, anche storicamente, l’opera di Gesù è stata compresa e accettata dopo la Pentecoste solo grazie allo Spirito Santo.
Il cammino del triduo pasquale, che ci porta alla Pasqua senza però dimenticare il venerdì e il sabato, ci conduce ad una verifica della mentalità nel senso spirituale.
La verifica della mentalità nel senso spirituale consiste nel vedere se riesco a comprendere che la via che porta alla vera vita è il triduo pasquale del Signore, intendendo così che la via della croce ( la via del dono, del servizio) è la via della risurrezione.
Oppure se penso ancora che nella vita per realizzarsi bisogna avere successo, potere, essere considerati, affermare le proprie idee, essere applauditi, essere sani e ricchi, esercitare una certa forza per imporsi ed essere riconosciuti, farsi servire anziché servire.
Ci doni il Signore di poter vivere il cammino pasquale, liturgicamente espresso nel triduo pasquale, per poter plasmare sempre di più in tutti noi quella mentalità spirituale che ci conduce a vivere l’esperienza dell’amore nella forma del dono e del servizio.
E’ proprio questa la forma dell’amore che contempla già in essa l’esperienza della vita vera che non muore mai, la vita che appartiene alla Pasqua di Gesù.
Concludiamo con le parole di papa Francesco in una sua catechesi sul Padre Nostro: “Dio, per amore, può portarci a camminare su sentieri difficili, a sperimentare ferite e spine dolorose, ma non ci abbandonerà mai. Sempre sarà con noi, accanto a noi, dentro di noi. Per un credente questa, più che una speranza, è una certezza. Dio è con me”.

Buona Pasqua e buon triduo pasquale!
dRomeo

I beni relazionali

Non sono quantificabili, eppure generano un immenso valore; non sono finanziabili, eppure hanno ricadute benefiche su tutti gli interessati. Sono i beni relazionali e capire cosa sono è il primo passo per aumentare la qualità del nostro stare insieme.

Una definizione di beni relazionali.
L’insieme dei valori condivisi, delle azioni concertate, l’impegno profuso per la costruzione di percorsi formativi, di attività comuni di stampo educativo, ma anche le operazioni amministrative, archivistiche, la gestione di spazi e tempi comuni, i pasti, gli spostamenti, tutto quello che risulta condiviso e compartecipato, senza finalità di lucro o di profitto nell’associazionismo e nel volontariato rientra nella categoria sociologica dei beni relazionali. È la sociologia a prendere la parola su questo capitale umano gratuito, generoso e generativo che altre scienze umane hanno già variamente definito, rivendicando il diritto a studiare queste forme di aggregazioni secondo le proprie specificità disciplinari. La psicologia, infatti, intende con bene relazionale essenzialmente l’empatia, la condivisione, l’ascolto, la cooperazione, la creazione di relazioni amicali; approcci di tipo economico, invece, accentuano le ricadute pratiche e valutano l’utilità che da tali attività scaturisce; la sociologia, invece, può trattare il tema prescindendo da tagli etici o utilitaristici, riflettendo sull’accezione sociologica del concetto di bene. Bene inteso come una “realtà che soddisfa dei bisogni propriamente umani” e lo fa attraverso la creazione di entità immateriali, costituite dalla rete di relazioni tessute da soggetti, agenti e attori che consapevolmente sono orientati a produrre e fruire di un bene che non potrebbero ottenere altrimenti. La qualità delle nostre reti relazionali è un bene in sé, ma anche per gli effetti che produce; e la sociologia ci aiuta a riflettere integrando approcci solo psicologistici o pedagogici o filosofici. Gli autori annoverano tra i beni relazionali l’amicizia, la famiglia, la cooperativa sociale, l’associazionismo civile o il volontariato, ma solo quando sono in grado di agire secondo le loro finalità cooperative e unitive, perché se disfunzionali rappresentano un male relazionale.

Un bene senza prezzo.
Le reti di associazioni generano beni che non hanno prezzo, ma hanno un valore inestimabile: non si possono comprare, non si possono vendere, eppure generano utili non monetizzabili, costosi da produrre secondo un criterio meramente economico; inoltre contribuiscono alla buona tenuta del tessuto sociale attraverso la capacità di agire nei territori e con i territori, secondo un’ottica di governance e non di government.
Lo stile di gestione fondato sulla partecipazione, sulla valorizzazione dei talenti e delle risorse personali, la condivisione democratica delle decisioni, la non discriminazione dei membri interni su base classista o sessista o razzista sono la premessa per ottenere effetti dalla ricaduta benefica a lungo termine anche sui soggetti esterni. In poche parole, un’associazione, un gruppo di volontariato, una società sportiva o culturale migliorano la qualità del vivere dei contesti in cui sorgono, non avendo come obiettivo il ritorno economico o il profitto monetizzato. Ma la sociologia è ancora più precisa: “Il bene che comportano è un effetto emergente, il quale ridonda a beneficio dei partecipanti senza che nessuno di essi possa appropriarsene da solo”. Ed è questo il valore aggiunto: mai senza l’altro, mai da soli, da monadi, ma in uno spirito di condivisione, in un clima di mutuo scambio che, forse, si potrebbe chiamare fraternità, il terzo termine dimenticato del motto della rivoluzione francese. In più, oltre ai risultati raggiunti, si apprezza anche la soddisfazione, il benessere psicologico derivato che garantisce obiettivi conseguiti con maggiore efficacia e costi minori. Per questo l’economia se ne interessa: perché i beni relazionali non sono numerabili, non sono quantificabili, non usano moneta, ma fruttano e producono. In una prospettiva antropologica è dimostrato che i beni relazionali civilizzano il mercato assai più di tutte le normative specifiche perché contribuiscono ad aumentare il tasso di humanitas. Non si possono generare beni relazionali per forza di legge, né finanziarli con appositi capitali per fondarli perché sono gratuiti, volontari e liberi, coniugano la libertà con la responsabilità, l’efficacia produttiva con la cura.

Le caratteristiche distintive dei beni relazionali.
Identità sociale e personale dei partecipanti: l’identità implica il reciproco riconoscimento, il rispetto, la pari dignità tra interlocutori e la condivisione di valori.
Motivazione non strumentale: il rapporto è caratterizzato da “premura”, cura attenzione all’altro.
Reciprocità, intesa non come do ut des, ma come scambio di tipo simbolico, come affidamento vicendevole.
Condivisione: il bene relazionale può essere fruito solo insieme e si produce solo attraverso la partecipazione, non può essere monopolizzato.
Elaborazione nel tempo: i beni relazionali si costruiscono e crescono nel tempo, inteso come attitudine alla cura prolungata, come assunzione di responsabilità per gli effetti e le ricadute
Riflessività: capacità di valutare le evoluzioni e orientare le trasformazioni relazionalmente. Avere consapevolezza del valore del nostro lavoro, che è essenzialmente uno stare insieme, un fare per il bene in chiave non individualistica e privatistica, fa la differenza: per mantenere sani i nostri rapporti, occorre riflettere sugli atteggiamenti e i comportamenti che aumentano o diminuiscono la qualità della nostra condivisione.

di Antonella Fucecchi, docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale