Intervista al nuovo presidente della CEI, Card. Zuppi

Nella lettera che introduce il secondo anno del Cammino sinodale ha citato il discorso di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio: «È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente!». Cardinale Zuppi, la Chiesa italiana vive una nuova alba?
La citazione di Giovanni XXIII per l’avvio del secondo anno del cammino sinodale non è casuale. In un altro passaggio di quel discorso, poco prima, il papa criticava coloro che guardavano con sfiducia al proprio tempo: pur «accesi di zelo per la religione», diceva, «non sono capaci di vedere altro che rovine». E invece suggeriva che qualcosa di nuovo stava sorgendo. Così, credo, sta avvenendo anche oggi. Ma dobbiamo essere in grado di cambiare la cifra con cui interpretiamo la realtà.

Che cosa intende?
La cristianità ha ancora tanta eredità nella nostra società, ma dobbiamo prendere atto dei cambiamenti. Se davvero è finita, allora dobbiamo essere in grado di interpretare diversamente quando le cose “vanno bene” oppure “vanno male” nelle nostre comunità, per distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è più. Continuiamo ad avere, ad esempio, una deformazione numerica, mentre dobbiamo coltivare una libertà dai numeri e guardare di più al coinvolgimento di ogni persona. In un mondo sempre più individuale e digitale, forse è cambiato anche il modo con cui si aderisce, ci si sente partecipe delle proposte, alle identità, compresa quella cristiana. Se siamo in grado di cambiare la cifra, allora vediamo chiaramente i tantissimi, evidenti segni della presenza di Dio nel mondo. E riusciamo anche ad ascoltare le domande di senso, di relazione, di aiuto e di speranza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Domande di Vangelo, nella sostanza.

Le comunità cristiane fanno i conti con il calo numerico, eppure la Chiesa è vista come punto di riferimento per tante emergenze sociali ed educative. C’è il rischio che si alimenti un senso d’impotenza?
Voglio essere molto chiaro: una certa idea della Chiesa di minoranza, in cui “meno siamo, meglio stiamo”, porta con sé una visione impaurita ma soprattutto mediocre. Ci sono modi diversi per teorizzare questo atteggiamento, alcuni raffinati, intelligenti, come quelli che papa Francesco identificherebbe nello gnosticismo o nel pelagianesimo. La Chiesa vuole portare il Vangelo a tutti e questo desiderio si concretizza nei tanti modi con cui le comunità accompagnano varie situazioni di difficoltà. Il senso d’impotenza c’è anche nel Vangelo, i discepoli lo sperimentano prima della moltiplicazione dei pani e dei pesci, tanto che si lamentano con Gesù. Dopo, però, cambia tutto. Il punto allora non è quanti siamo, se siamo minoranza o maggioranza, ma che cosa ci facciamo coi cinque pani e due pesci che il Signore ci ha dato e se prendiamo sul serio il suo invito o lo facciamo cadere rimandando noi la folla, tenendoci stretto “il nostro”, sentendoci a posto perché li mandiamo via. Nel Vangelo cinque pani e due pesci sono abbastanza: non abbiamo giustificazioni e non dobbiamo affannarci a cercare mezzi a sufficienza per iniziare.

Che cosa si aspetta dal secondo anno del cammino sinodale?
Il primo anno è stato interessante, molti gruppi si sono messi in movimento. Nonostante la pandemia e qualche fatica, mi è sembrato di cogliere una bella partecipazione. Ora spero che sapremo rilanciare con più determinazione l’ascolto di tutto il popolo di Dio attraverso la proposta dei “Cantieri sinodali”. Abbiamo ascoltato ancora troppo poco, soprattutto i tanti compagni di viaggio che qualcuno avrebbe definito, ottanta anni or sono, lontani. Ci guida il magistero di papa Francesco, che aiuta a capire come l’orizzonte della missione non abbia confini. La Chiesa è nel mondo e parla con tutti: siamo chiamati a pensarci insieme come comunità umana, a lasciarci interrogare e anche ferire dalle domande di tanti, ad approfondire l’ascolto con più interiorità, più profondità, più passione.

Torniamo al Cammino sinodale italiano. Uno dei temi del secondo anno di ascolto sarà lo “snellimento” delle strutture per un annuncio più efficace del Vangelo.
La Chiesa è snella quando cammina, non si ingrassa di problemi interni e li piega ad andare incontro a tutti. È facile appesantirsi fisicamente, ma soprattutto spiritualmente. La Chiesa è snella se sente l’urgenza dell’annuncio e allora riduce al minimo le procedure e i problemi perché tutto ha senso per raggiungere i confini a cui il Signore ci invia. Una Chiesa snella è capace di assumersi delle responsabilità, e di trovare risposte alle domande in modo libero da logiche interne. Tutti i mezzi e le strutture della Chiesa servono per generare la presenza di Cristo e comunicare nel mondo la proposta del Vangelo. Se invece la Chiesa vive per se stessa, perde la finalità che Gesù le ha dato.

Cardinale Zuppi, la guerra è tornata in Europa.
Un segno del tempo evidente, tragico, terribile. Nel nostro continente si ripropongono i nazionalismi e questo ci chiama a riflettere come cristiani: siamo uomini e donne che hanno una patria, ma che si sentono anche parte di un’umanità che supera i confini. Non possiamo abituarci, non possiamo continuare a essere quelli di prima: credo che dovremmo metterci seriamente a parlare di pace, ma soprattutto a capire cosa significa per ciascuno, e per tutti noi insieme, costruire la pace.

Un cantautore di Bologna, Cesare Cremonini, apre il suo ultimo disco con una frase: «Ho bisogno di qualcuno che mi indichi la strada». La Chiesa italiana è pronta ad ascoltare le domande di senso che arrivano dalle persone?
Ho paura che ancora facciamo fatica: molti non ci chiedono nulla, a volte non riusciamo a intercettare le domande, altre volte semplicemente non ci facciamo avvicinare. Un altro cantante bolognese, Luca Carboni, diceva che «siamo sempre ad un incrocio»: e noi, come Chiesa, a questi incroci della vita ci dobbiamo stare.

Una Chiesa italiana “snella”, ma con un “fisico bestiale”?
Una Chiesa italiana formata da persone che sanno farsi riempire la vita dallo Spirito Santo. L’11 ottobre 2012, nei cinquant’anni dall’inizio del Concilio, Benedetto XVI ricordava l’entusiasmo di quel periodo e diceva: «Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile». Vorrei che questo anno pastorale iniziasse con la consapevolezza della «gioia più sobria» che portiamo nel cuore, e col desiderio di accompagnare «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» della gente. Così, e con l’aiuto del Signore, sapremo camminare nel Cammino sinodale insieme a tanti compagni di strada.

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