C’è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile. Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata.
Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: «Qualunque cosa sia la religione – scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) – di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso… È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica… e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chiesto in prestito alla religione» (pag. 16).
Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro. La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana.
Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande. Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati… E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 8-10 e 16).
Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. «Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre.
Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso – e un senso vittorioso della morte – è la condizione per volersi ed essere pienamente umani. Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: «A la tarde de la vida te examinarán en el amor – Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».
Bruno Forte