Ci sono parole, utilizzate nella sfera pubblica, alle quali è stata data una tale varietà di significati da provocare equivoci, fraintendimenti e deformazioni sistematiche. È il caso del termine popolo, ricorrente nel dibattito politico, sia per la capacità evocativa, sia perché può essere impiegato per fini diversi. Un caso esemplare: si appellano al popolo coloro che predicano la chiusura ermetica delle frontiere per impedire che il diverso, più spesso il migrante, possa penetrare entro le mura a inquinare la purezza di una cultura e di una identità, cosicché in nome di questo compito chiedono poteri assoluti, liberi da vincoli di carattere giuridico e morale.
Si preparano in questo modo le condizioni per la conquista e il mantenimento a tempo indeterminato di un potere personale o di gruppo che fa strame della democrazia liberale con la sua divisione e il suo bilanciamento dei poteri, con le sue regole che valgono in primis per coloro che sono stati chiamati a governare, come vuole il moderno costituzionalismo. È di questi giorni l’appello all’Unione Europea dell’intellettuale polacco Adam Michnik, tra gli esponenti di Solidarnosc ai tempi gloriosi della lotta per la liberazione dal regime comunista, che chiede di intervenire perché non vengano tacitate le testate giornalistiche e i media che si oppongono al governo del primo ministro Mateusz Morawiecki, con metodi che sembrano assunti dal manuale del presidente ungherese Orban. I media del servizio pubblico vengono trasformati in organi di propaganda per il partito di governo e i media indipendenti vengono soffocati.
Populisti e sovranisti trattano il popolo non come soggetto, ma come massa manipolabile in vari modi, in contrasto con l’idea di popolo che faticosamente e attraverso conflitti di ogni genere si è affermata in Occidente e che si trova ora ad affrontare nuove sfide. I cambiamenti indotti da una globalizzazione mal governata, hanno infatti accentuato le differenze interne alle diverse società. Lo spostamento di milioni di persone da altri continenti, ha comportato elementi di novità di cui non si è colta immediatamente la rilevanza: la coesistenza precaria tra culture e religioni un tempo lontane e separate dal momento che fedeli islamici e aderenti alle religioni orientali sono divenute presenze permanenti in Europa e non solo. Assistiamo perciò ad un evidente paradosso: da una parte le difficoltà quotidiane delle convivenza e, dall’altra, la crescente consapevolezza del fatto che l’umanità è una, che al di là delle nazioni, delle differenti religioni e culture l’umanità in quanto tale merita di essere messa in primo piano perché si è tutti sulla stessa barca e ci si salva solo cooperando insieme, come ci stanno insegnando la pandemia di Covid-19, i cambiamenti climatici in corso, l’inquinamento ambientale e il consumo dissennato delle risorse non rinnovabili del pianeta.
Perché ci sia un popolo ci vuole una storia condivisa, trasmessa in molti modi, e ci vuole la volontà di vivere insieme. Non è un dato di natura che si impone in maniera evidente: richiede l’assenso dei suoi membri, esige un’adesione attiva che si alimenta costantemente della sua storia e si rigenera riattivando i valori comuni. Le cose però si complicano quando al suo interno appaiono nuclei consistenti di altri popoli, con altra storia, segnata talvolta da antichi contrasti e conflitti con il paese in cui si sono stabilmente insediati, differenziandosi su temi cruciali: il concetto di laicità, il valore delle libertà private e pubbliche, dell’eguaglianza e così via. La volontà di coesistere si indebolisce se la storia divide e se valori comuni sono oggetto di contestazione. Sorgono allora conflitti o, talvolta, la deliberata volontà di ignorarsi reciprocamente, dando vigore a pregiudizi e a discriminazioni. Insomma, fratture profonde attraversano i popoli dell’Occidente e ne mettono in discussione gli assetti. I tentativi di dare risposte adeguate, da quella comunitaria che intende salvaguardare la particolarità a quella giacobina che estenua o nega le differenze, manifestano la irrisolta questione del come garantire insieme unità e diversità.
Osservava il filosofo Paul Valadier, in un denso saggio apparso qualche anno fa su “Études” – con esplicito riferimento ad Hannah Arendt, forse la più acuta studiosa dei totalitarismi moderni, la quale ha insistito sul carattere necessario e fecondo della pluralità umana come antidoto a ricadute così disastrose – che «una tale pluralità… dev’essere organizzata, strutturata ». In caso contrario, «lasciata a se stessa, si distrugge in rivalità di ogni sorta». Di qui una domanda e un suggerimento. La domanda: se l’Europa così antica (e i popoli che la abitano) sia in grado di individuare e perseguire questo obiettivo. In caso di risposta positiva, il suggerimento è il riprendere in considerazione con urgenza il fatto che essa è sorta dal convergere e dal fondersi, in una sintesi originale, di tradizioni apparentemente antagoniste, quelle che fanno riferimento a tre città simbolo: Gerusalemme, Atene e Roma, «mostrando così la sua vitalità nel confronto autentico, seppure polemico, di apporti diversi… che di per sé non orientavano necessariamente verso una facile convergenza e unità».
È la chiamata a un lavoro di reciproco riconoscimento. Riconoscimento «che impegna tutte le parti in gioco, poiché spetta a ciascuno di operare un lavoro su se stesso per aprirsi al riconoscimento dell’altro, cosa che trasforma per forza colui che si impegna in questo lavoro, ma che implica pure che l’altro non se ne stia fermo in un’identità ombrosa, che egli prenda parte al gioco della relazione, contro i comunitarismi chiusi in se stessi e troppo agitati per rischiare l’avventura del riconoscimento ». I luoghi dove tutto ciò può avvenire sono tanti: «dalla scuola all’educazione, dal lavoro dell’opinione pubblica informata e atta a discutere sulle proprie divergenze, dalla responsabilità politica, la quale non dovrà sollevare i gruppi gli uni contro gli altri in un clima di diffidenza, ma operare in vista della vita comune (ciò che si può chiamare il bene comune)». L’alternativa è una patologia sociale che si manifesta nella diffusione della cultura del disprezzo e dello scarto. Ma si può ritenere sufficiente tutto ciò per vincere inerzie e resistenze, per avviare a soluzione complicate questioni di carattere giuridico e politico, di costume, di diritti e così via; questioni che inevitabilmente si pongono, una volta assunta con decisione questa prospettiva? Oppure si esige un surplus che nella recente enciclica di Papa Francesco porta il nome di fraternità? È questa la proposta forte di una Chiesa che si definisce, e intende agire, come popolo di Dio, come soggetto collettivo che opera nella storia dei popoli della Terra mantenendo vivo il suo mistero, che promuove dialoghi sociali per camminare insieme, che sollecita la pratica di una buona politica capace di costruire ovunque popoli fondati su relazioni fraterne.
Di Pier Giorgio Grassi – Già ordinario di Filosofia della religione e direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose “Italo Mancini” nell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. È una riflessione sul tema “Popolo”, per la celebrazione della XVII Assemblea nazionale Ac «Ho un popolo numeroso in questa città»