L’analista Francesco Stoppa: giovanissimi e anziani sono più simili di quanto si possa pensare, perché devono scrivere e riscrivere la propria identità.
Adolescenza e vecchiaia, età del cambiamento, età del passaggio, età della solitudine, età più simili di quanto ci si potrebbe immaginare. Età in cui – in modo diverso eppure parallelo, talvolta divergente, talvolta sorprendentemente parallelo – ciascuno esercita al massimo grado la capacità di scrivere e riscrivere la propria condizione umana. Per capire l’uomo insomma, occorre capire l’adolescente e il vecchio. Magari mettendoli a confronto, come in uno specchio. È quanto ha fatto Francesco Stoppa, psicoanalista e docente del Pontificio Istituto teologico ‘Giovanni Paolo II’.
Professore, lei definisce adolescenza e vecchiaia ‘vere e proprie unità di crisi’. Cos’hanno in comune queste due età della vita da essere prese ad esempio per illustrare il transito generazionale?
Testimoniano entrambe della drammaticità di un momento fondamentale per il rinnovamento della società. Si tratta di un passaggio che non può essere ridotto a un semplice automatismo e che richiede – lo si vede bene in queste età della vita – un certo prezzo da pagare. Sono le epoche del cambiamento – del corpo, del proprio ruolo sociale, nella visione del mondo – dove bisogna in un caso fare a meno dei comfort e delle certezze dell’infanzia e nell’altro ridimensionare la presunzione della propria centralità. La persona avverte un senso di solitudine: la sensazione per il giovane che il mondo adulto non possa comprendere quanto sia impervia l’arte di crescere e per l’anziano quel sentore di inutilità che accompagna la consegna del testimone. Queste due età ci fanno però intendere come una società evolva solo nell’incontro/scontro tra il nuovo e l’antico, e come il periodico generarsi di crisi rappresenti il fattore primo di rivitalizzazione dell’eredità ricevuta.
Ma oggi queste distinzioni cronologiche non rischiano di risultare sempre più vaghe? Gli studiosi della famiglia parlando di adolescenza che si prolunga fino a 30 e più anni. E il giovanilismo dilagante vieta di definire una persona ‘anziana’. Come facciamo ad orientarci?
La sua è la fotografia del nostro tempo, che ha smarrito il valore di certe differenze strutturali e quindi una buona fetta della propria identità. L’ibridazione tra le generazioni, così come quella tra i sessi o tra uomo e macchina, è un fenomeno che investe tutta la società. Il prolungarsi dell’adolescenza intesa come stato di dipendenza dalla famiglia d’origine è tuttavia un fatto non del tutto riconducibile al dramma della disoccupazione giovanile. Esiste un problema d’ordine psicologico che complica il processo di separazione e che vede una corresponsabilità di entrambe le parti: a figli che stentano ad autorizzarsi in qualità di adulti corrispondono genitori che faticano a concepire il distacco.
Questa claustrofilia della famiglia ha a sua volta motivazioni sociali: la famiglia moderna è messa sotto accusa per l’eccessiva intimità delle sue relazioni interne, ma come non vedere che la società del consumo e del relativismo etico, quella società a cui essa dovrebbe far approdare i figli, non è così rassicurante come si vorrebbe far credere? I giovani dovrebbero uscire da una realtà a un tempo normativa e affettiva per prendere posto in un mondo nel quale, in conseguenza della crisi dei legami di comunità, il cinismo e l’individualismo sembrano sopravanzare le considerazioni e i valori di tipo etico. Ora, è chiaro che per riorientarci (e quindi anche per ridare dignità alla vecchiaia riconoscendo l’importanza della sua autorevolezza ai fini della trasmissione intergenerazionale) non abbiamo altra strada che riaprire i confini del nostro io, chiamare in causa la collettività e ridare fiato ad esperienze di comunità, da sempre spazio di analisi critica e di dialogo tra le persone e le generazioni.
Non è un po’ limitante affermare che adolescenza e vecchiaia sono le età in cui la persona si trova a ‘rinegoziare il proprio destino, come se tutti noi, a qualsiasi età, non fossimo chiamati a ‘rinegoziare il nostro destino sulla base delle scelte che facciamo giorno dopo giorno?
La vita è trasformazione e ogni età ci costringe a ridefinire identità, valori, obiettivi. Esiste però una specificità delle due età in questione perché in esse, più che nell’infanzia e nell’età adulta, i riferimenti di un tempo si indeboliscono ed entrano in crisi equilibri dati per assodati. Il bambino viaggia ancora sui binari del desiderio genitoriale e l’adulto su quelli garantiti dal fatto di essere pienamente produttivo e performante; nella vecchiaia e nell’adolescenza l’identità subisce invece un deragliamento che ne mette alla prova la tenuta. Non necessariamente è un male: al contrario, si tratta di una crisi che può incentivare la creatività e stimolare il reperimento di nuove e insospettate risorse. In un certo senso, ho preso queste età come esempi del coraggio dell’uomo davanti all’incertezza del destino.
Molto interessante quanto scrive a partire dal dipinto di Giorgione, ‘Le tre età dell’uomo’, che lei spiega come «elegante metafora della dialettica tra operosità e inoperosità ». Anche qui però dobbiamo fare i conti con un mondo del lavoro in cui troppi giovani sono emarginati quindi forzatamente ‘inoperosi’. Andrebbe quindi ridiscusso il senso di questo dipinto?
Il dipinto mostra tre figure, due, il giovane e l’adulto, impegnate nello studio di uno spartito e una , l’anziano, il cui sguardo è rivolto invece verso di noi. Mi è parsa una rappresentazione della vecchiaia come paradigma di un’esistenza che non deve attenersi a un copione già scritto e che interroga se stessa proprio perché non totalmente spesa nell’operosità. È vero che molti giovani sono oggetto di forme di emarginazione forzata e di conseguenza patiscono una condizione di frustrante inoperosità; tuttavia, se considerata da questa angolazione l’esclusione dal ciclo produttivo è certamente un problema, da un’altra, quella che la figura del vecchio ci consegna, la valorizzazione di una cifra umana non piegata alla sola logica dell’utile e del profitto ha il significato di una liberazione. Non è forse vero che siamo prigionieri di un’ideologia che ci vorrebbero non solo eternamente giovani ma anche sempre performanti?