( …) Nel dire a se stesso: “Io morirò”, e non semplicemente: “L’essere umano è destinato alla morte”, si può acquistare una posizione non fittizia nei confronti del mondo e del proprio singolare destino in esso. Confido che non ti spaventerai se ti chiedo ora di inoltrarti con me nell’ascolto di questa fondamentale verità dell’essere umano, di questa parola che la morte è e possiede. L’inedita speranza di vita media concessa ai cittadini occidentali e le insistenze della ricerca medico-scientifica – per cui la morte è diventata una sorta di malattia da provare a debellare -rendono oggi l’ascolto della parola della morte sempre più raro e difficile. La morte così non ha più una parola da dire, perde il suo spessore e con ciò la sua capacità di orientare, di dare con-torno e contenuto all’esistenza umana. Basterebbe osservare i manifesti funebri, dove le persone scompaiono, compiono l’ultimo viaggio, si accommiatano, si spengono, finiscono il loro percorso esistenziale, ma non muoiono più. Esorcismo verbale della morte, che, come afferma giustamente il monaco Luciano Manicardi, viene in definitiva semplicemente zittita, negata, e “non avendo più parola, cessa di insegnare. E intendo ‘insegnare’ nel senso etimologico di ‘far segno’, indicare, fornire chiavi e simboli per interpretare la realtà. La morte, grande maestra, viene fatta scendere dalla cattedra e spedita con vergogna dietro la lavagna”. Nasce così quella che viene definita “società postmortale”, non perché si smetta di morire – sebbene si muoia oggi in età più avanzata rispetto al passato – ma perché la morte non parla più e non si ascolta più la sua parola.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una società che non riesce più a vivere il triplice ritmo del tempo – passato, presente, futuro – ed è tutta concentrata sul presente, sul qui e ora. Una società del giovanilismo e del vitalismo senza freni che poi oblia l’elementare della vita vera e le prerogative dei giovani, correndo il rischio del collasso per la scarsa natalità. E perciò urgente ritornare ad accogliere la parola della morte, il che significa riconoscere a se stessi che “io morirò”. Solo in questo trauma, infatti, puoi venire a conoscenza della tua indispensabilità e della tua irripetibilità. È qui che forse per la prima volta intuisci da lontano il mi-stero sempre sfuggente dell’essere un soggetto umano, un soggetto chiamato e costretto a dire: “Io”. Nessuno prima di te e nessuno dopo di te può vivere questa esperienza al posto tuo.
E una consapevolezza per cui ciascuno è letteralmente insostituibile. Proprio la morte, però, che ci destina alla nostra personale scomparsa, si costituisce testimone del fatto che il mondo non ha avuto e non avrà mai un altro come te. E non è per nulla facile reggere il peso di questo appello all’individuazione della propria storia, che si fa strada in mezzo alla consapevolezza della propria mortalità. Ecco il punto: la morte in-segna che la vita è un piccolo feudo prezioso assegnato a ciascuno, da coltivare e custodire non solo con attenzione ma anche con un tocco specifico che compete alla singolarità che io sono, che tu sei.
Un lavoro da portare a termine con passione e verità, e diciamo pure, con originalità. Ma appunto è un lavoro da condurre fino a sera e non più oltre. Perché c’è un tempo per lasciare ad altri il posto che ora è nostro. Per questo, pur immersi negli impegni e nei nostri doveri, non possiamo e non dobbiamo smettere di alimentare la cura di questa nostra dimensione interiore, del fatto che siamo parole irripetibili lanciate nel mare dell’essere. Dobbiamo continuamente far rinascere questo nostro “io” interiore, attraverso la lettura, la musica, lo studio, il culto, la devozione. Coltiviamo, allora, bellezza nell’orto della nostra anima. Costruiamo amicizie stellari con i grandi che furono sulla terra prima di noi. Stringiamo legami profondi con le menti più acute che brillano anche nel cosmo odierno: scrittori, musicisti, poeti, artisti, profeti di ogni latitudine e di ogni credo.
La fede cristiana accompagna tutto questo processo di svelamento della propria indispensabile unicità con una promessa potente e fragile nello stesso tempo: quella della vita eterna, la quale non prospetta uno spogliamento totale della singolarità di ciascuno a favore di una generica pienezza di umanità. Narra invece che nel giorno del giudizio ciascuno riceverà, dinanzi all’istanza divina, finalmente il nome che ne svela la pasta e la passione con cui ha dato avvio allo scorrere dei suoi giorni. Sarà allora come ripulire un diamante dalle scorie che lo hanno trattenuto e fatto sorgere nel buio della terra. Ovviamente tutto questo può suonare – e per molti suona – come una bella e simpatica favola, priva tuttavia di forza probante. E tale resterà soprattutto se il cuore di chi l’ascolta non è abituato a intendere la parola della morte. Lo stesso Socrate avverte forme di resistenza nei suoi discepoli rispetto alla visione e al senso che egli dona al suo morire. Per questo termina il suo discorso d’addio con un ragionamento che non dovremmo mai perdere di vista: Certamente, sostenere che le cose siano veramente così come io le ho esposte, non si conviene a un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che è risultato che l’anima è immortale: ebbene, questo mi pare che si convenga e che metta conto di arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello!
Tratto da A. Matteo, Il cammino del Giovane