Contro la solitudine e l’indifferenza.
E’ di pochi giorni fa la notizia del ritrovamento, vicino a Como, della signora M. B. sulla sedia del suo tinello, dove era deceduta, sola, due anni fa, senza che nessuno se ne fosse accorto né avesse sospettato nulla. Viveva sola, si è seduta sola al suo posto, è morta sola e sola è rimasta per due anni su quella sedia. Non è solo la malattia a metterci in difficoltà, forse nemmeno la morte (M. B. si sarà accorta che stava per morire o avrà avuto un malore improvviso?), ma spesso è la solitudine in cui ci troviamo a viverle. Ricordo tanti anni fa – ero un bambino – che il mio papà era stato invitato a una “festa” che mi colpì tantissimo: un suo collaboratore, dopo aver scoperto di avere un cancro che gli lasciava poco tempo di vita, aveva invitato tutti i colleghi e le persone più care per salutarli, per ringraziarli, per condividere con loro un’ultima serata insieme. Non ci saranno stati canti e balli, eppure immagino la profondità di quella serata, immagino la condivisione che ha aiutato a dare un senso alla malattia, o almeno a dare un contesto in cui poterla affrontare. Forse parlare di aiuto nella malattia potrebbe diventare un po’ di più parlare di condivisione, allora sì che potremmo davvero “prenderci cura” nel senso più vero del termine, anche quando guarire non è più possibile. Condivisione da offrire e condivisione da accettare. Oggi invece quando ci si ammala spesso ci si trova a doversi chiudere, quasi ci si vergogna, come se fosse un colpa… E quando la malattia è inguaribile sembra si debba nascondere – o medicalizzare, che poi è un modo di nascondere, di allontanare dagli occhi – anche il morire. Un tempo la morte era un momento importante e solenne, in cui dare gli ultimi voleri – le famose “ultime parole”-, in cui radunare tutti i parenti, anche i più piccoli, per dare l’estremo saluto, l’arrivederci per i credenti. Era il momento in cui sistemare tutto al posto giusto: i propri beni, i propri affetti, anche i propri peccati. Ed era ancora di più un evento naturale, in qualche modo dovuto. La morte improvvisa, oggi ritenuta da molti quasi una grazia, era ritenuta la cosa peggiore, proprio perché “impersonale”, perché non dava l’opportunità di vivere la “propria” morte, cosa che richiedeva preparazione interiore e collettiva. Oggi nella maggior parte dei casi si muore invece quasi senza saperlo, perché nessuno ce lo dice “per paura di far soffrire di più” o perché narcotizzati dai farmaci, e il morente è come nascosto ai parenti, ai vecchi amici, ai vicini di casa. Quello che un tempo era un solenne momento collettivo ora sembra diventare un imbarazzante e doloroso episodio privato. Anche le usanze collegate al lutto sono diventate sempre meno visibili, a volte ritenute quasi “sconvenienti”.
Ecco, M.B. – era malata o non se lo aspettava? – non è morta in modo “sconveniente”, non ha creato imbarazzo a nessuno. Ma, nella sua paradossale storia, rende evidente che qualcosa non torna. Nella morte, nella malattia, ma anche nella vita… La solitudine, resa così palese anche nelle malattie e nei decessi durante il lockdown, ma anche dall’isolamento forzato di tanti anziani nelle RSA, è forse ben più difficile da affrontare della malattia stessa. Ricordate la caldissima estate del 2003, in cui ci furono molti decessi di anziani (era l’anno in cui un ministro aveva invitato gli anziani ad andare nei centri commerciali per potere stare con l’aria condizionata…)? L’estate successiva, nel 2004, il sindaco di Bologna aveva organizzato di fornire in comodato gratuito a tutti gli anziani della città un condizionatore per i mesi estivi. Quando a fine estate provò a raccogliere con un questionario i pareri di chi ne aveva usufruito risultò che la cosa che più era stata apprezzata dagli anziani era stata la possibilità di scambiare due parole con il tecnico quando era venuto in casa a installare il condizionatore. Forse può essere una grande lezione per tutti. Occuparsi delle persone malate – ma anche di quelle sane – se non passa da uno spazio di condivisione non porta molto frutto. Vale per medici, infermieri e tutto il personale, ma vale anche per i parenti, per i vicini, per i conoscenti, per i membri delle comunità… Come possiamo essere vicini a qualcuno? E’ questo forse il senso più vero della Giornata del Malato, non lasciamola passare invano!
Dottor Stefano Serenthà – Azione Cattolica
Medico chirurgo specialista in Geriatria e Formatore