Esistono guerre giuste?

Intervista a René Micallef SJ, docente di Teologia Morale presso la Pontificia Università Gregoriana. A cura di Mauro Bossi SJ. – Tratto da “Aggiornamenti Sociali

Molte delle riflessioni della teologia cattolica sulla guerra ruotano intorno alla teoria della “guerra giusta”, espressione che può anche suonare come ambigua all’orecchio di chi ha una sincera preoccupazione per la pace. In che cosa consiste questa riflessione e quali sono i suoi elementi che possono aiutarci, oggi, a discernere circa l’uso della forza militare?
Effettivamente, l’espressione “guerra giusta” è ambigua. Ma per capire di che cosa si tratta, bisogna dare uno sguardo alla storia, partendo dal Medioevo. Verso l’anno mille, nel sud della Francia, c’erano continui conflitti provocati da signori della guerra, che destabilizzavano varie regioni ed economie, distruggevano proprietà ecclesiastiche e rurali, e spesso compivano massacri di persone innocenti. Perciò nacquero movimenti – quelli della Pace di Dio e della Tregua di Dio – per limitare, passo dopo passo, questi conflitti; queste iniziative includevano anche elementi rituali, come processioni e giuramenti con sacre reliquie, per toccare il cuore dei belligeranti e creare tabù psicologicamente e socialmente efficaci. Era impensabile chiedere la pace totale e immediata, quindi la strategia era quella di limitare le cause accettabili per iniziare un conflitto, l’uso della violenza durante il conflitto e i tempi in cui si poteva compiere operazioni militari, escludendo determinati tempi liturgici e festività. Queste limitazioni ebbero l’effetto di costringere i combattenti a una rigorosa giustificazione della legittimità di ogni atto violento. Questo è il nucleo storico della cosiddetta teoria della “guerra giusta”: si tratta dell’arduo compito di una continua e critica valutazione della giustificabilità di ogni atto di guerra e ogni conflitto, per poter condannare con lucidità ciò che non è moralmente tollerabile, ma anche per arginare l’azione dei militari, offrendo dei princìpi per limitare la barbarie di una realtà per sé stessa crudele.
Concretamente, di che cosa si tratta? Quali elementi occorre tenere in considerazione, e rispetto a quali circostanze, per valutare se e quando l’impiego della forza militare sia legittimo?
La riflessione cattolica ha sviluppato due serie di norme. La prima riguarda i criteri in base ai quali è lecito avviare un’azione militare (ius ad bellum): in primo luogo, l’agire violento può essere soltanto difensivo ed essere adottato come rimedio estremo, quando le soluzioni pacifiche sono state rifiutate dall’aggressore; inoltre, l’intervento militare deve avere l’approvazione dell’autorità politica legittima, cosa che esclude ogni iniziativa autonoma dei militari; la risposta deve essere proporzionata ai danni causati dall’aggressore, mai esagerata o intesa per avviare una escalation; infine, deve esistere una reale possibilità di fermare l’aggressore. La seconda serie di regole riguarda il modo di condurre l’azione militare (ius in bello): occorre distinguere rigorosamente tra combattenti e non combattenti, rispettare costantemente la proporzionalità tra le azioni offensive e difensive, sempre per evitare l’escalation; a questo si aggiunge il principio di responsabilità: l’imputabilità di ogni azione deve essere chiara – quindi deve essere chiara anche la catena del comando – in modo tale che, al termine del conflitto, si possa anche individuare e punire i responsabili di crimini di guerra. Quest’ultimo punto è stato sviluppato dopo gli orrori delle guerre del XIX secolo, quando vari filosofi e giuristi hanno alimentato lo sviluppo di un diritto internazionale umanitario e di un diritto di guerra, con l’obiettivo di evitare la barbarie della guerra totale e cercare di abolire progressivamente il ricorso all’uso della forza per risolvere i litigi tra le nazioni.
Alcune persone che amano la pace credono che dare criteri di valutazione non serva: bisogna dire un semplice e chiaro “no” a tutte le guerre e tutte le forme di violenza. Regolare significa legittimare – non è così?
Riconosco che c’è una storia infelice dell’uso di questi principi, che a volte sono stati usati al rovescio, per giustificare gli interventi militari. Questo veniva fatto, per esempio, facendo leva sul valore dell’onore: si giustificava la guerra combattuta, prima, “per l’onore del re”, poi per il concetto romantico dell’“onore della nazione”. Verso la fine del XX secolo, sia nella teologia cristiana, sia nel pensiero laico, queste motivazioni sono state completamente abbandonate. Ormai, solo una guerra difensiva, nel senso di difesa fisica contro un’aggressione fisica già accaduta, o certa ed imminente potrebbe, dopo accurata analisi, essere ritenuta moralmente tollerabile. Sottolineo che l’obbligo di valutare la giustificabilità della guerra, usando i princìpi sopraccitati, è già “pacifista” nel senso che non permette l’aggressione ma solo l’autodifesa e non permette neppure difendersi con mezzi illegittimi, come armi nucleari, chimiche o biologiche: se l’uso di questi mezzi è l’unica alternativa per difendersi, bisogna arrendersi, anche qualora si è vittima di un’aggressione ingiusta. Anche nel caso di una guerra combattuta per difendersi, resterà sempre il dilemma: possiamo “sporcarci le mani” e usare la forza per fermare l’aggressore, senza essere contaminati dalla sua logica, diventare noi stessi aggressori, e perpetuare il ciclo della violenza? La tradizione della valutazione della giustificabilità del conflitto può forse essere un aiuto e salvarci da questo vortice della violenza perpetua nella misura in cui essa ci dà un linguaggio che ci permette di confrontarci onestamente con amici e nemici, cercando di rimanere critici rispetto ad ogni facile giustificazione della violenza.
Avvicinandoci di più alla situazione in Ucraina, basandoci sul magistero della Chiesa e sulla tradizione di pensiero che abbiamo richiamato, quale valutazione morale possiamo dare dell’iniziativa russa di attaccare lo Stato confinante?
Rispondendo brevemente e senza troppe sfumature, credo sia chiaro dai criteri del ius ad bellum tradizionale che l’aggressione russa non è giustificabile perché non c’è una causa giusta. Non c’è stato oggettivamente genocidio o gravi violazioni dei diritti umani, commessi dal Governo ucraino, e riconosciuti dalla comunità internazionale o da terze parti neutre e competenti, nell’est dell’Ucraina. Quindi non si può giustificare invasione del resto dell’Ucraina come una guerra difensiva o un atto di “responsabilità di proteggere”. Anche se ci fossero stati massacri o genocidio, la Russia non avrebbe potuto lecitamente agire da sola, e avrebbe dovuto chiedere all’ONU di lanciare un’operazione di pacificazione nelle regioni in cui c’era un conflitto previo, fornendo delle prove inconfutabili.
Che dire della difesa da parte ucraina del proprio territorio, dell’invio di armi all’Ucraina da parte di diversi Paesi, compresa l’Italia, delle sanzioni alla Russia?
Dato ciò che abbiamo detto prima l’Ucraina ha diritto di difendersi, usando forza letale se necessario, perché si tratta di un’aggressione fisica ingiustificabile. Tuttavia, l’Ucraina deve limitarsi a difendere il proprio territorio, e non deve mirare direttamente a causare danni fisici o economici alla popolazione russa non combattente o a indebolire la potenza militare Russa, o a cambiare il regime politico nel Cremlino, a meno che queste azioni non siano necessarie per effettivamente fermare l’aggressione, e fino al punto in cui siano necessarie. In più, difendersi ha senso solo se c’è una reale probabilità di vittoria: in questo caso c’è, dato l’appoggio internazionale, ma non è detto che rimarrà se il conflitto si prolunga. Bisogna essere attenti anche riguardo agli aspetti cibernetici del conflitto, e all’uso di tecnologie tradizionali ma molto sofisticate ed efficaci fornite dalla NATO, affinché venga mantenuta una certa proporzionalità, anche se a prima vista l’Ucraina lotta contro un aggressore più potente, ricco e popoloso. Per quanto riguarda le sanzioni economiche, va anzitutto fatta una considerazione generale: non si può eticamente esporre direttamente alla miseria e alla fame la popolazione di uno Stato per indebolire indirettamente un regime e le sue forze armate. La politica delle sanzioni non deve mai assumere l’aspetto di una punizione collettiva contro un popolo. Tuttavia, le sanzioni economiche possono rappresentare un’alternativa legittima al rischio di una escalation militare che, nel caso presente, potrebbe arrivare all’impiego di armi nucleari. In ogni caso, la logica delle sanzioni è che dovrebbero contribuire ad accorciare la guerra e, quindi, dovrebbero terminare prima di recare un danno grave alla popolazione non combattente; pertanto, la loro valutazione morale dovrà essere costantemente aggiornata.

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