La risurrezione di Gesù è la verità dell’uomo

Fondamento della speranza, la risurrezione di Gesù è anche la verità dell’uomo. E questo perché la croce non appartiene soltanto al cammino di Gesù, ma è anche, in un senso molto reale, il simbolo della vita in generale, della nostra vita incamminata (sembra) verso la morte, sconfitta di fronte al peccato e alla violenza. E’ la risurrezione che permette di fare di questa vita, in apparenza segnata dalla vanità e dal peccato, una diversa lettura.
Molte sono le esperienze che possono indurre l’uomo a perdere il senso dell’esistenza e a smarrirsi. L’esperienza, ad esempio, di una vita che promette e non mantiene, irrimediabilmente condannata alla morte. È l’esperienza della «vanità», che il libro di Qoèlet ha analizzato con molto rigore: l’uomo è di fronte alla sapienza e alla stoltezza, e comprende molto bene che la prima è superiore alla seconda, ma poi constata che spesso la saggezza è vinta dalla stupidità. La vita afferma, da una parte, una netta gerarchia di valori, ma poi, dall’altra, sembra non rispettarla. L’uomo ha sete del definitivo, ma deve poi accontentarsi di ciò che è relativo. Desidera ciò che è certo e sicuro, ma deve accontentarsi dell’incerto e del provvisorio. Il suo desiderio è aperto, infinito, mentre la realtà dell’esistenza è quella che è, inferiore. Perché l’uomo – ecco la domanda che non si può eludere – è costruito così, squilibrato, con un’esigenza di globalità e di durata che poi resta insoddisfatta? E accanto all’esperienza della vanità c’è l’esperienza del peccato, che a sua volta sembra condurre al non senso: lo sforzo di liberazione e di redenzione che l’uomo compie, sembra irrimediabilmente condannato alla sconfitta e il peccato appare come il vero dominatore. La parola di Dio, l’amore, i veri valori sono troppo spesso perdenti, combattuti o lasciati nell’indifferenza; le parole degli uomini sembrano più efficaci della parola di Dio, gli idoli più affascinanti del vero Dio, e così il peccato sembra annullare ogni sforzo di liberazione. Il mondo nuovo anziché avvicinarsi sembra allontanarsi, e la storia continua a essere in mano ai potenti e ai prepotenti: il Nuovo Testamento direbbe in mano «alla potenza delle tenebre» (Lc 22, 53). Queste riflessioni ci portano ai piedi della croce, cioè al momento in cui (nella vita di Gesù e nella nostra) l’amore sembra sconfitto dal peccato, la verità dalla menzogna, la vita dalla morte, la promessa di Dio dal suo apparente abbandono. Ma dopo la croce c’è la risurrezione, e con la risurrezione tutto cambia: diventa possibile una diversa lettura e le contraddizioni dell’esistenza mutano significato. La fatica di vivere non appare più come un affannarsi inconcludente. La risurrezione di Gesù mostra infatti che il muro della vanità si è infranto. Naturalmente, non ogni vita infrange il muro della vanità, ma solo quella che ripercorre il passaggio aperto da Gesù: la via dell’amore, della dedizione e dell’obbedienza a Dio.
La via dell’egoismo, della menzogna e dell’idolatria non vincono il muro della morte, ma vanno incontro — come dice l’Apocalisse — alla seconda morte, la morte al quadrato (Ap 2, 11; 20, 6; 20, 14; 21, 8). La salvezza dell’uomo e del mondo sono saldamente nelle mani dell’amore di Dio apparso sulla croce in tutto il suo splendore: il peccato si ostina a distruggere la liberazione dell’uomo, ma l’amore di Dio e la sua fedeltà sono più forti dello stesso peccato. Non sarebbe certo difficile prolungare oltre queste nostre riflessioni, ma quanto detto basta a provare che nella Pasqua del Signore l’uomo trova la sua verità. L’uomo che si apre alla fede nella risurrezione vive la gioia di un’esistenza che ha trovato finalmente il suo fondamento e la sua ragione: un’esistenza che continua a essere faticosa, segnata dalla contraddizione e dalle smentite, ma che, nel contempo, è consapevole di essere vittoriosa sulla morte e sul peccato, perché fondata sulla fedeltà dell’amore di Dio.

Bruno Maggioni

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