Appunti sulla preghiera – Parte quarta

L’orazione.

Osiamo parlare dell’orazione? Che cos’è? Come praticarla? Sarò prudente, affermerò il necessario pudore e non permetterò che le parole divaghino o siano eccessive su questo tema così delicato, Ribadisco che l’orazione deve avere come fonte la parola di dio contenuta nelle Scritture e la liturgia della chiesa, soprattutto l’eucaristia, preghiera delle preghiere.
Negli ultimi secoli si è molto parlato dell’orazione, a volte isolandola dalla sua fonte al punto da illustrare un’attività religiosa ma non cristiana. L’orazione è preghiera intima, è un bocca a bocca con Dio (oratio, da os), è un “cor ad cor loquitur” (san Francesco di Sales e John Henry Newman), è una parola che sgorga dalla fede e dall’amore. È un respirare lo Spirito santo, che è Spirito dell’amore e un sentirsi in Cristo per rivolgersi al Padre, Dio. È uscita da se stessi ma non è una relazione chiusa con Dio, un tu a tu, dal quale sarebbe escluso tutto ciò che ci circonda.
Proprio perché l’orazione è sempre un’operazione trinitaria, comunionale, non può chiudere, non può esaurirsi in un individualismo, né può essere un consumo sentimentale che ha come destinatario Dio e su di lui si esaurisce. Il Dio al quale si dà del tu è un Dio vivente che ci rinvia sempre agli altri, alla comunità, all’umanità intera. Anche nell’orazione il protagonista è lo Spirito santo che è presente in noi e ci suggerisce con gemiti ineffabili cosa dobbiamo dire a Dio nostro Padre (cf. Rm 8,26). Dice a Dio “Abba”, “Papà” (cf. Rm 8,15) solo chi ha in sé lo Spirito santo e solo chi sa di avere come fratello Gesù Cristo. L’orazione è permettere allo Spirito di esprimersi in noi nella libertà.
Ecco perché il silenzio è così primario nella preghiera cristiana. Ciò che muove l’orazione non è la nostra azione, il nostro pensiero, ma il nostro amore, “amore che Dio ha versato nei nostri cuori” (Rm 5,5).

L’intercessione.

Nella nostra relazione con colui che chiamiamo nostro Dio, nostro Padre, sono sempre presenti gli altri, fratelli e sorelle davanti al Signore insieme a noi. Per questo l’intercessione è un’operazione che fa parte della preghiera cristiana, anzi è l’ispirazione del nostro amore per il prossimo. Senza l’intercessione il cristiano non è abilitato ad amare l’altro, a diventare responsabile dell’altro, a vivere con lui la fraternità. Gli altri non sono mai un ostacolo alla nostra preghiera perché sono sempre presenti nel rapporto che Dio ha con noi e noi con lui. Ma come vivere l’intercessione?
Innanzitutto intercedere è fare un passo (inter cedere), un passo tra Dio e l’altro, gli altri. Come fece Abramo intercedendo per Sodoma: si è messo tra la città peccatrice e Dio, per chiedere a lui misericordia (cf. Gen 18,23-32). Si tratta di entrare nella situazione per cui si prega, di farsi solidali di chi grida e invoca.
Intercedere significa poi prendersi cura di un altro, stare dalla sua parte per chiedere a Dio di intervenire con i doni del suo amore, come Mosè che osa chiedere a Dio di escludere lui dal libro della vita ma di preservare il suo popolo (cf. Es 32,32). In questo modo intercedere presso Dio significa cercare di mettersi in empatia con l’altro, quasi stando al suo posto per poterlo rappresentare davanti a Dio.
Ma intercedere significa anche sperare per l’altro. Ciò non è facile, perché si tratta di amare l’altro fino al punto di poter unire la propria voce alla sua, al punto di poter dire all’altro che può abbandonarsi, confidare, perché ciò che lui non può, tentiamo di viverlo noi.
L’intercessione è sempre un atto creativo che richiede perseveranza, durata, persistenza, impone che non si abbassino le braccia ma che restino alzate come quelle di Mosè nel deserto della disperazione (cf. Es 17,12). Sì, l’intercessione origina l’amore del prossimo e di esso si nutre.

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