Fiducia Supplicans – La risposta della Chiesa a una richiesta di sostegno

Leggendo il comunicato stampa del Dicastero per la dottrina della fede in ordine alla ricezione della Dichiarazione Fiducia supplicans, colpisce la quantità di volte in cui ricorre il termine “pastorale”. Vi si auspica un «periodo più lungo di riflessione pastorale»; si richiama la «proposta di brevi e semplici benedizioni pastorali» o ancora di «benedizioni spontanee e pastorali»; si chiede di «arricchire la prassi pastorale». La dimensione pastorale della missione della Chiesa, dalle intuizioni iniziali di Giovanni XXIII attraverso il Vaticano II, ha acquisito sempre maggior importanza e rivendica un suo spazio originale e una sua intenzionalità propria.
Tale ricorrenza quasi ossessiva potrebbe essere interpretata come una strategia per ridimensionare la portata della Dichiarazione o un segno di incertezza riguardo al senso del documento. Ma è più probabile che si tratti di un richiamo all’intenzionalità che animava la Dichiarazione e che riprende una preoccupazione più volte ribadita da papa Francesco: la sfida dell’evangelizzazione, oggi, non consiste nel riaffermare la dottrina tradizionale, peraltro nota e indiscussa; ma neppure nel modificarla, aggiornandola alle mode del tempo. La sfida “pastorale” chiede il coraggio di assumere le situazioni a volte confuse, intricate, incerte in cui si trovano tante persone, cercando di valorizzare il passo possibile, lo spiraglio di cielo che si può aprire nel desiderio implicito o nell’invocazione appena sussurrata di un gesto di sostegno e benevolenza.
Ciò che è emerso dalle varie reazioni alla Dichiarazione è il fatto che proprio la “pastorale” è ormai un terreno conflittuale, non pacifico, anzi animato da molte tensioni e preoccupazioni. É qualcosa di complesso. C’è chi vede in questo il segno che la nozione di “pastorale” non è mai stata chiara, né in sé né tantomeno nel rapporto con la dottrina. Certo non si tratta di una pura e semplice applicazione della dottrina ai casi concreti. La logica deduttiva non funziona nella varietà delle vicende della vita. C’è chi invece sottolinea come la dimensione pastorale sia un pericoloso pretesto per relativizzare la disciplina o anche un alibi per pratiche arbitrarie e disorientanti. Ma forse alla radice del problema c’è semplicemente il fatto che l’appropriazione della fede oggi non si dà più in un contesto segnato da un costume condiviso e pacifico, nel quale si viene a sapere in modo chiaro e univoco cosa significhi amare, crescere, lavorare, soffrire, trovare la propria vocazione e quindi il senso da dare alla vita. Questa incertezza rende più tortuosi i cammini personali e più ansioso il compito di vivere, nella ricerca della propria strada. L’intenzionalità pastorale a cui richiama papa Francesco si assume la responsabilità di prendersi cura delle persone anche in queste situazioni incerte e
confuse, dotandosi di strumenti per individuare il passo possibile in ordine a un’esperienza di fede, fosse anche in condizioni limitate o fragili o ambivalenti.
Non è possibile che per tanta gente non ci possa essere una parola, un gesto o un’attenzione che facciano sentire la vicinanza del Dio di Gesù Cristo, un Dio che guarisce e sostiene la vita.
É significativo l’esempio di benedizione proposto dal Comunicato stampa. La scena immaginata è più mediterranea o latinoamericana che mitteleuropea. Colpisce la tenerezza e l’empatia che vi traspare. Tutto parte da una richiesta da cui ci si lascia interpellare. Si tratta di rispondere alla domanda di un sostegno, che non chiede approvazione o assoluzione, né pretende qualche grazia spirituale speciale. Chiede la vita e i suoi beni essenziali, anche materiali e chiede di sentire che in questi desideri non mancherà il sostegno del Creatore e Padre buono, che ai figli che chiedono pane non dà pietre (Mt 7,9). La benedizione non ha la forma della consacrazione di una situazione da legittimare. Ha piuttosto la forma dell’apertura di un pezzettino di cielo su una situazione difficile, che sembra chiudere l’orizzonte della speranza. Il gesto chiesto, ossia la benedizione, dice che non si tratta solo di donare un sorriso, un saluto, una stretta di mano o una pacca sulla spalla. Ciò che è chiesto è un gesto proprio dell’esperienza religiosa, di cui si intuisce ancora il carattere promettente. La risposta a questa richiesta interpella il “cuore di pastore” e cerca di ritrovare un’intenzionalità pastorale autentica, che non congeda con freddo distacco.
Vista dal versante mitteleuropeo, questa benedizione pastorale, spontanea e informale, funziona invece come contenimento di eccessive corse in avanti. Non si tratta di predisporre rituali per benedizioni liturgiche ufficiali. Su questo si fa chiarezza. Emerge in ciò la consapevolezza della differenza dei contesti pastorali e un sano invito alla riflessione pacata e alla prudenza, proprie di chi non cerca soluzioni facili e immediate, ma avvia processi di discernimento sul bene possibile.
Le precisazioni richieste dai vari dibattiti hanno un carattere provvidenziale. Mostrano non tanto un magistero incerto e contraddittorio, quanto piuttosto un magistero “in ricerca” a livello pastorale, in ricerca cioè non di novità dottrinali, ma dei comportamenti più idonei all’attuale contesto antropologico. Si tratta di abitare questo spazio umano, segnato da identità incerte e confuse, spesso accompagnate da grandi sofferenze, propiziando condizioni favorevoli all’accoglienza di un sostegno religioso. Le doverose precisazioni aiutano inoltre a recepire l’intenzione pastorale autentica di queste benedizioni, evitando ambiguità legittimanti e confusive. Più il dibattito entra nella comunicazione globale, più si toglie ambiguità al gesto della benedizione, comprendendone la portata reale.
Rimane il dubbio se tali preoccupazioni pastorali debbano essere oggetto dell’attenzione del Dicastero per la dottrina della fede. Nell’immaginario collettivo, almeno degli addetti ai lavori, il gioco di ruoli al Vaticano II era ben diverso: il Sant’Ufficio si faceva custode della sana dottrina tradizionale, mentre il collegio episcopale unito al Papa cercava vie per rendere pastoralmente efficace l’annuncio del Vangelo. Al di là della storia, è vero che ci sarebbero altri Dicasteri più competenti in ambito pastorale. Forse però vale qui la precisazione inziale della Dichiarazione, che intende dare voce e argomentazione all’istanza pastorale di papa Francesco. Di fatto la Dichiarazione cita quasi solo i discorsi e i testi di papa Francesco proprio perché si fa eco della sua preoccupazione pastorale: non basta riaffermare una dottrina vera, ma che vola sopra la testa delle persone; occorre mostrare la forza vitale di un Vangelo che è capace ancora di leggere le condizioni di vita di tanti, aprendo in esse una porzione di cielo. È ancora un’esigenza squisitamente pastorale.

don Alberto Cozzi, teologo, membro della Commissione teologica internazionale.

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