Nella notte della storia la preghiera apre alla speranza.
Il terzo millennio si è aperto sotto il segno della minaccia, la paura è diventata compagna oscura della contemporaneità – paura delle guerre e del nucleare, del degrado ecologico, della manipolazione genetica, del trovarsi disoccupati, della precarietà dell’esistere – e si ha l’impressione che la speranza sia venuta meno nell’orizzonte della nostra cultura. Oggi la situazione è peggiorata. Sta sotto gli occhi di tutti noi la situazione che viviamo: cambiamenti climatici delle stagioni, drammatiche situazioni di possibile guerra nucleare. Da qui l’incremento generalizzato della produzione e della vendita delle armi, di quelle nucleari in particolare, che riempiono gli arsenali dei singoli Stati mette in gioco il destino del mondo e dell’intera umanità. A questo si deve aggiungere l’indifferenza da parte di molti, che si esprime anche nei pochi che vanno a votare, e la violenza sempre più presente nelle famiglie e tra i ragazzi. Anche la Chiesa vive le sue difficoltà: sia a causa degli scandali e degli abusi di vario genere che si perpetuano al suo interno, sia perché avverte che è finito il tempo della cristianità: siamo ormai diventati piccole comunità e in esse spesso sono assenti i giovani.
È possibile sperare?
Per cui, oggi, ci si chiede non solo cosa sperare, ma, in modo più radicale: è possibile sperare? Questo navigare al buio e senza speranza, determinato da varie circostanze, che a volte sfocia in forme di violenza, di indifferenza verso l’altro o di rassegnazione, di per sé non si addice all’uomo, perché egli, credente o non credente, non solo avverte il bisogno di speranza, ma è speranza. Egli sente il bisogno di oltrepassare lo scacco dell’esistenza, seppure confusamente, avverte come un risucchio in avanti, una gravitazione sul futuro, verso una pienezza di senso. Giovanni Crisostomo evidenziava: «Ciò che ci porta alla sventura non sono tanto i nostri peccati quanto la disperazione». Pensiamo, allora, che è urgente riflettere e coltivarsi come uomini di speranza perché essa ci educa a non trascorrere i nostri giorni da rassegnati e a non concedere mai, rabbiosamente, spazio alla distruzione. Il nostro, comunque, è un tempo in cui si pone con palpabile drammaticità la domanda: che cosa posso sperare? E da questo interrogativo non è esente il cristiano. La speranza cristiana, infatti, è bene chiarirlo, in un’epoca in cui molti disperano, non vuole semplicemente consolare o favorire facili ottimismi, ma vuole ricordare che la promessa biblica non ha certo risparmiato ai suoi testimoni la lunga attesa nella notte. Il cammino di fede è segnato da un processo che nella Bibbia è chiamato deserto, e che dai mistici sarà chiamato notte. Consapevole che il cammino con Dio avviene tra luce e buio, il salmista prega: «Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre. Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (Sal 44,24-25). Questa è l’esperienza che facciamo un po’ tutti: passiamo da momenti belli, luminosi in cui riteniamo di sapere chi è Dio per noi e poi, invece, facciamo esperienza dell’aridità, del vuoto, della perdita di orientamento, del silenzio di Dio e di non sapere nemmeno se crediamo!
La notte avvolge il vissuto.
All’origine della tenebra o della nausea interiore si trova ordinariamente un fatto doloroso, un conflitto di relazione, una disgrazia: eventi che sconvolgono l’esistenza e la fede di una persona. Sono svariate le circostanze difficili che mettono in crisi la nostra fede. Ma c’è da dire che, forse, sono anche rivelazione del costitutivo fondamentale della fede cristiana. Essa non è rimozione del negativo della vita e della storia, ma possibilità di attraversarlo e di confrontarsi con esso, avendo Qualcuno a cui rivolgersi, a cui gridare e con cui vivere. Il cammino di fede diventa ancora più paradossale e drammatico quando questo Qualcuno a cui ci si rivolge fa silenzio o sembra ostile. Allora la domanda “perché?” si fa straziante e insistente. È bella, al riguardo, l’intuizione/risposta di S. Weil: «Egli (Dio) è colui, che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro». «È Dio che per amore si ritira da noi perché sia possibile amarlo», in pura gratuità. Il tema della notte, quindi, è presente nella tradizione spirituale ed è vista come un processo dinamico attraverso il quale l’uomo viene strappato dalle sue sicurezze, da una vita centrata sul proprio io, per radicarsi in una vita centrata in Dio e quindi animata dalla sua Parola. Dal racconto biblico emerge con chiarezza che la speranza è dono connesso alla fede e all’ascolto della parola di Dio insperata e gratuita: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is 41,10), dice il Signore al suo popolo, attraverso il profeta. Essa, quindi, non si fonda sulle proprie capacità di mutare le cose, ma sulla fede in Dio motivata dall’amore.
La speranza ha la sua voce: la preghiera.
Se la speranza è dono di Dio, dono offerto a noi nel Figlio, per Paolo, Cristo stesso è la nostra speranza (1Tm 1,1), l’unica cosa da fare è cercare Dio e vivere insieme a lui. Dallo stare con lui scaturisce la speranza che va oltre ogni disperazione. Uno degli spazi determinanti per cercare Dio e sperare in Lui è la preghiera. Nell’enciclica Spe Salvi, Benedetto XVI indica dei luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza e, tra essi, propone la preghiera. Egli scrive nel paragrafo 2: «Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi. Se sono relegato in estrema solitudine…; ma l’orante non è mai totalmente solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l’indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza – di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta».
Parte 1 di 2 continua…