LA LETTERA DEI VESCOVI ITALIANI
di monsignor Francesco Savino – vescovo di Gassano vicepresidente Cei.
Nel vortice delle partenze forzate e delle speranze annegate, l’Europa appare smarrita, incapace di articolare una risposta coesa, solidale e lungimirante. La sonnacchiosa inerzia dell’agire comunitario, accompagnata da una crescente tendenza securitaria e da una narrazione mediatica sempre più ansiogena, produce effetti devastanti tanto sul piano umano quanto su quello politico. Non solo per i migranti, ma fra noi: prigionieri di noi stessi. L’Italia, porta meridionale del continente, sembra ormai orientata a declinare l’accoglienza solo nei termini dell’emergenza o del respingimento, rinunciando a un’elaborazione sistemica e strutturale che coniughi diritto, umanità, responsabilità condivisa, crescita del Paese.
La tragedia di Cutro, con il suo straziante corteo di corpi restituiti dal mare, inchioda le nostre coscienze al banco degli imputati, rivelando l’abisso di un fallimento collettivo che pesa come una colpa storica, una miopia politica, una cecità spirituale. In quel tratto di costa calabrese si è infranta non solo una fragile imbarcazione, ma un intero sistema di protezione che avrebbe dovuto salvare, e invece ha lasciato morire. Le lacrime tardive né ci sono, né basterebbero. Servono un ribaltamento delle nostre coordinate morali e la scoperta della potenza culturale della compassione.
Come vescovo della Calabria, terra di frontiera e di passaggi, sento il dovere di denunciare l’ipocrisia di un’Europa che alza muri, firma accordi con regimi che calpestano i suoi valori fondanti e subappalta le proprie responsabilità a Paesi terzi, spesso in nome di un’apparenza di efficienza che maschera disumanità e crudo disincanto.
Ancora di più, sento il dovere di testimoniare che un’altra via è possibile. Una via che passa attraverso l’ospitalità come gesto politico, sociale e spirituale. Un gesto non di mera solidarietà, ma di solidità e lungimiranza.
Zygmunt Bauman, nel suo libro Stranieri alle porte, ci ha messi in guardia contro il “panico morale” indotto da narrazioni allarmistiche che fanno dello straniero il deposito dell’ansia collettiva. Scrive: «Il migrante è il testimone muto delle nostre paure. Non per ciò che è, ma per ciò che ci ricorda: la nostra nudità esistenziale, l’instabilità del nostro mondo».
La sua vulnerabilità risveglia la nostra. Da qui deve ripartire un’analisi profonda: riconoscere nel fratello in cammino non una minaccia, ma un orizzonte spalancato di promessa e di possibilità. Ma perché l’ospite inatteso ci spaventa così visceralmente? Perché diventa simbolo perturbante, quasi un intruso che incrina l’illusione della nostra stabilità?
La sua povertà diventa specchio della nostra: è il riflesso della precarietà delle nostre vite ipermoderne, vissute tra disgregazione sociale, insicurezza economica, smarrimento del senso. La sua presenza ci obbliga a riconoscere che anche noi potremmo trovarci al margine e in larga misura lo siamo già.
René Girard in “La violenza e il sacro” ci ha insegnato che le società costruiscono l’ordine attraverso meccanismi vittimari: si individua un capro espiatorio su cui proiettare paure e tensioni, e lo si sacrifica per ristabilire una parvenza di armonia.
In questa prospettiva, il migrante è divenuto bersaglio perfetto anche delle democrazie.
La cura dell’altro, pertanto, non è più solo un gesto etico, ma un’operazione culturale e antropologica per restituire umanità a chi ne è stato spogliato. Vediamo governi che ritengono eversiva la cura, che trattano come minaccia chi soccorre e come alleato chi discrimina e viola diritti umani fondamentali. Avviene oggi, alla luce del sole. Urge testimoniare un orizzonte di condivisione entro una mentalità di esclusione.
L’incontro con l’altro riscatta: ci sottrae all’isolamento e ci fa ripensare l’identità non come fortezza ma come narrazione plurale.
Lévinas ci ricorda che «il volto dell’altro mi chiama, mi obbliga, mi espone alla responsabilità». E nel volto dell’altro che l’Altro ci interpella.
Ogni muro innalzato, ogni linguaggio disumanizzante che riduce la persona a flusso, minaccia o emergenza, è un impoverimento culturale e spirituale. Rifiutare l’incontro significa rinunciare a crescere, a convertirsi, a trasformarsi. In un tempo attraversato da crisi multiple, la vera alternativa non è il controllo ossessivo dei confini, ma la costruzione di legami, la creazione di comunità inclusive.
E’ tempo di immaginare un’Europa non come fortezza assediata, ma come casa comune, capace di dare volto politico all’ospitalità. La solidarietà concreta non è una concessione, ma una scelta strutturale. Non un’opera di benevolenza, ma la condizione per un futuro abitabile. La convivenza tra popoli diversi non è un’utopia, bensì un’esigenza.
Come suggeriva Paul Ricoeur, «l’ospitalità è la virtù dell’uomo che è capace di abitare poeticamente la terra».
Sul piano teologico, questa visione si radica nel cuore del Vangelo. Gesù non solo si identifica con lo straniero, ma chiede di riconoscerlo: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Papa Francesco ci invitava a non abituarci alla crudeltà del mondo: «Domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi e chiediamoci: chi ha pianto? chi ha pianto oggi nel mondo?».
Le esperienze virtuose non mancano. I corridoi umanitari sono un modello replicabile: ingresso legale e integrazione programmata. Da Nord al Sud si stanno già sperimentando percorsi di accoglienza diffusa, che è una scelta di civiltà.
Non esistono alternative praticabili al riconoscimento reciproco. Tornare a pensare l’altro come risorsa è la sfida antropologica e spirituale del nostro tempo. In Calabria, le nostre comunità già ferite da povertà e spopolamento possono ritrovare un respiro largo accogliendo. Ospitare l’umano non è un gesto eroico, ma la più alta forma di umanità autentica.