La quiete e il valore della parole

Ai nostri giorni siamo invasi dalle parole, dal rumore, dalle chiacchiere, al punto che l’inquinamento sonoro può ormai essere annoverato tra i problemi ecologici. Nella società cacofonica in cui viviamo, inoltre, la parola è diventata quasi uno strumento obbligato per l’affermazione e la celebrazione di se stessi, anche a costo di assumere forme quanto mai aggressive e capaci di ferire: «parole come armi», è stato giustamente detto… Si comprende dunque perché molti avvertano il bisogno del silenzio, vorrebbero cioè imparare a tacere per riscoprire la bellezza del silenzio e, insieme, la bellezza di forme di comunicazione non verbali. Tacere equivale a digiunare verbalmente e il silenzio è paragonabile al digiuno fisico, entrambi salutari quando lo esigono il corpo e la psiche, cioè l’intera persona umana. Occorre però subito precisare che il silenzio non consiste semplicemente nell’assenza di rumore e di parola, ma è una realtà plurale. C’è un silenzio necessario in certi luoghi, e come tale imposto, c’è un silenzio inscritto con segni all’interno della scrittura stessa, c’è silenzio tra le note musicali… Accanto a questi silenzi funzionali, ve ne sono altri negativi o addirittura mortiferi: silenzi che «pesano», che rendono inquieti e spaventano, silenzi opprimenti, silenzi di morte, abissi di silenzio! Di più, esistono silenzi complici e pieni di viltà, silenzi che dovrebbero essere spezzati dalla forza di un profeta, silenzi di ostilità che paralizzano la comunicazione, silenzi amari di solitudine sofferta…Vi sono però anche silenzi positivi, irrinunciabili. In primo luogo il silenzio rispettoso della parola dell’altro, ma anche il silenzio scelto nella consapevolezza che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare». Un silenzio particolare è quello dell’amicizia e dell’amore: l’amore crea un linguaggio non verbale, molto più eloquente e intenso di qualsiasi parola, linguaggio in cui il silenzio stesso diventa parola. Nasce così quel silenzio di presenza e di pienezza, in cui il semplice stare insieme è fonte di gioia: silenzio che è ascolto amoroso, attento, contemplativo, raccolto; «silenzio sottile» che si fa voce come per Elia sul monte Oreb. Vi è infine il silenzio interiore, nel cuore di ciascuno di noi, per accogliere la presenza degli altri e dell’Altro, Dio: è quella disposizione che scava nel nostro intimo uno spazio per il Signore e consente che la sua Parola prenda dimora in noi. Ma perché fare silenzio, perché imparare il silenzio in modo progressivo e ragionevole? Innanzitutto perché nel silenzio possono emergere energie che si traducono in un’attività intellettuale più feconda, capace di stimolare la nostra memoria e di aguzzare le nostre facoltà di ragionamento e di immaginazione. Sì, nel silenzio diventiamo più ricettivi alle impressioni trasmesseci dai nostri sensi, sappiamo meglio ascoltare, vedere, odorare, toccare, anche gustare. Si pensi solo a un’esperienza comune: quando si vuole fare o ricevere una carezza non diventa forse naturale restare in silenzio? Lunghe ore di silenzio, ore in cui non si parla e non si ascoltano parole o suoni, ci rendono diversi, ci aiutano a guardare dentro di noi, a dimorare con noi stessi e, soprattutto, ad ascoltare ciò che ci abita in profondità. E così impariamo poco a poco quali sono le ragioni per cui parliamo, venendo a conoscenza di verità non supposte. Scopriamo cioè che le nostre parole sono sovente strumento di conquista e di seduzione, mezzi per permettere al nostro «io» di acquistare potere, successo, dominio sugli altri: parole aggressive e interessate, piegate a scopi inconfessati e inconfessabili, strumenti di manipolazione… Insomma, grazie al silenzio impariamo a parlare, decidiamo quando e se vale la pena di rompere il silenzio, dominiamo il modo e lo stile con cui ci rivolgiamo agli altri. Attraverso la pratica consapevole del silenzio possiamo vigilare affinché le nostre parole siano sempre fonte di dialogo e di conoscenza, di consolazione e di pace.

Dieci uomini e donne della Bibbia da cui imparare qualcosa

La Bibbia è piena di uomini e di donne che ci hanno provato e che, con l’aiuto di Dio, sono riusciti a fare la storia con i loro gesti di amore…pur con i loro limiti.
La Bibbia è piena di storie, di testimonianze e di spunti per chi vuole vivere la propria fede in pienezza.
Certo, imparare dai grandi non è sempre semplice e di mezzo ci sono le nostre paure, le nostre debolezze, le nostre limitate capacità umane.
Ma la Parola di Dio è piena di uomini e di donne che ci hanno provato e che, con l’aiuto di Dio, sono riusciti a fare la storia con i loro gesti di amore…pur con i loro limiti.
Ecco allora alcuni/e uomini/donne della Bibbia da cui prendere spunto per vivere la fede nel quotidiano!

1. Prega come Neemia che non si dimenticava mai di dedicare del tempo a Dio, in ogni circostanza della sua vita e del suo servizio alla corte di Persia. Come Neemia, accompagna ogni singola tua azione con la preghiera al Signore, così che la Sapienza ispiri le tue azioni.

2. Obbedisci come Daniele. E’ la capacità di avere l’umiltà di ascoltare Dio, essere fedele a Dio prima tutto e tutti, alla legge del bene e alla giustizia, anche se questa ci sembra incomprensibile. “Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L’obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi.” (Benedetto XVI). Come Daniele, coltiva l’umiltà per ascoltare e obbedire Dio e sarai liberato da ogni paura.

3. Sii leader come Mosè, che ha saputo fidarsi di Dio e condurre un intero popolo fuori dalla schiavitù. Non per le sue capacità di leadership né per le sue capacità oratorie, visto che era balbuziente, ma per essersi lasciato guidare prima di tutto da Dio.

4. Costruisci come Noè. Non perdere tempo a distruggere e demolire ciò che non va, ma impiega le tue giornate a costruire quell’arca che ti servirà per restare a galla e ritornare alla Vita. Coltiva relazioni sane, cerca ciò che è buono e bello, costruisci il bene in te e intorno a te.

5. Combatti come Davide, che non si è lasciato scoraggiare dalla sua poca forza, dalla sua bassa statura, dalla sua mancanza di armi efficaci. Combatti con la consapevolezza che Dio ti darà la forza e la sapienza necessaria per abbattere ogni gigante che blocca la tua vita.

6. Servi come Marta. che ci metteva il cuore per far sì che Gesù potesse trovarsi bene in casa sua, anche se nella sua ingenuità si stava dimenticando di ascoltare le Sue parole. Compi opere di carità e pratica l’accoglienza, lasciando entrare Dio stesso in casa tua.

7. Credi come Maria. È grazie alla sua fede che Dio ha potuto farsi uomo e salvare l’umanità. Credi come Maria, con una fiducia costante e salda che non si ferma neanche di fronte alla croce, perché lei è la prova che Dio compie le sue promesse se noi lo lasciamo agire nella nostra vita.

8. Educa come Paolo, che una volta incontrato il Signore si è speso fino alla fine della sua vita per testimoniarlo agli altri e per educare alla fede le comunità che gli erano affidate. Non tenere per te il bene, ma accompagna verso il bene le persone che hai accanto.

9. Proteggi come Pietro, che nonostante non capisse la missione di Gesù e avesse paura di venire ucciso con lui, aveva nel cuore un amore grande per il Maestro, che lo ha portato a cercare di proteggerlo in ogni modo. Proteggi la tua relazione con Dio come Pietro ha mantenuto la sua guidando la Chiesa fino all’ultimo respiro.

10. Ma soprattutto, ama come Gesù. Senza calcoli e senza tornaconto. Chiedi a Gesù di insegnarti ad amare i tuoi nemici, di darti il coraggio di donare la vita, cioè di rendere la tua vita dono per gli altri. Cerca ogni giorno di avvicinarti un po’ al modo di amare di Gesù, che è la cosa più importante. Tutto il resto verrà di conseguenza.

Messaggio CEI per la giornata della vita

1) Il diffondersi di una “cultura di morte”.

In questo nostro tempo, quando l’esistenza si fa complessa e impegnativa, quando sembra che la sfida sia insuperabile e il peso insopportabile, sempre più spesso si approda a una “soluzione” drammatica: dare la morte. Certamente a ogni persona e situazione sono dovuti rispetto e pietà, con quello sguardo carico di empatia e misericordia che scaturisce dal Vangelo. Siamo infatti consapevoli che certe decisioni maturano in condizioni di solitudine, di carenza di cure, di paura dinanzi all’ignoto… È il mistero del male che tutti sgomenta, credenti e non. Ciò, tuttavia, non elimina la preoccupazione che nasce dal constatare come il produrre morte stia progressivamente diventando una risposta pronta, economica e immediata a una serie di problemi personali e sociali. Tanto più che dietro tale “soluzione” è possibile riconoscere importanti interessi economici e ideologie che si spacciano per ragionevoli e misericordiose, mentre non lo sono affatto. Quando un figlio non lo posso mantenere, non l’ho voluto, quando so che nascerà disabile o credo che limiterà la mia libertà o metterà a rischio la mia vita… la soluzione è spesso l’aborto. Quando una malattia non la posso sopportare, quando rimango solo, quando perdo la speranza, quando vengono a mancare le cure palliative, quando non sopporto veder soffrire una persona cara… la via d’uscita può consistere nell’eutanasia o nel “suicidio assistito”. Quando la relazione con il partner diventa difficile, perché non risponde alle mie aspettative… a volte l’esito è una violenza che arriva a uccidere chi si amava – o si credeva di amare –, sfogandosi persino sui piccoli e all’interno delle mura domestiche. Quando il male di vivere si fa insostenibile e nessuno sembra bucare il muro della solitudine… si finisce non di rado col decidere di togliersi la vita. Quando l’accoglienza e l’integrazione di chi fugge dalla guerra o dalla miseria comportano problemi economici, culturali e sociali… si preferisce abbandonare le persone al loro destino, condannandole di fatto a una morte ingiusta. Quando si acuiscono le ragioni di conflitto tra i popoli… i potenti e i mercanti di morte ripropongono sempre più spesso la “soluzione” della guerra, scegliendo e propagandando il linguaggio devastante delle armi, funzionale soprattutto ai loro interessi. Così, poco a poco, la “cultura di morte” si diffonde e ci contagia.

2) Per una “cultura di vita”.

Il Signore crocifisso e risorto – ma anche la retta ragione – ci indica una strada diversa: dare non la morte ma la vita, generare e servire sempre la vita. Ci mostra come sia possibile coglierne il senso e il valore anche quando la sperimentiamo fragile, minacciata e faticosa. Ci aiuta ad accogliere la drammatica prepotenza della malattia e il lento venire della morte, schiudendo il mistero dell’origine e della fine.
Ci insegna a condividere le stagioni difficili della sofferenza, della malattia devastante, delle gravidanze che mettono a soqquadro progetti ed equilibri… offrendo relazioni intrise di amore, rispetto, vicinanza, dialogo e servizio. Ci guida a lasciarsi sfidare dalla voglia di vivere dei bambini, dei disabili, degli anziani, dei malati, dei migranti e di tanti uomini e donne che chiedono soprattutto rispetto, dignità e accoglienza. Ci esorta a educare le nuove generazioni alla gratitudine per la vita ricevuta e all’impegno di custodirla con cura, in sé e negli altri. Ci muove a rallegrarci per i tanti uomini e le donne, credenti di tutte le fedi e non credenti, che affrontano i problemi producendo vita, a volte pagando duramente di persona il loro impegno; in tutti costoro riconosciamo infatti l’azione misteriosa e vivificante dello Spirito, che rende le creature “portatrici di salvezza”. A queste persone e alle tante organizzazioni schierate su diversi fronti a difesa della vita va la nostra riconoscenza e il nostro incoraggiamento.

3) Ma poi, dare la morte funziona davvero?

D’altra parte, è doveroso chiedersi se il tentativo di risolvere i problemi eliminando le persone sia davvero efficace. Siamo sicuri che la banalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza elimini la ferita profonda che genera nell’animo di molte donne che vi hanno fatto ricorso? Donne che, in moltissimi casi, avrebbero potuto essere sostenute in una scelta diversa e non rimpianta, come del resto prevedrebbe la stessa legge 194 all’art.5. È questa la consapevolezza alla base di un disagio culturale e sociale che cresce in molti Paesi e che, al di là di indebite polarizzazioni ideologiche, alimenta un dibattito profondo volto al rinnovamento delle normative e al riconoscimento della preziosità di ogni vita, anche quando ancora celata agli occhi: l’esistenza di ciascuno resta unica e inestimabile in ogni sua fase. Siamo sicuri che il suicidio assistito o l’eutanasia rispettino fino in fondo la libertà di chi li sceglie – spesso sfinito dalla carenza di cure e relazioni – e manifestino vero e responsabile affetto da parte di chi li accompagna a morire? Siamo sicuri che la radice profonda dei femminicidi, della violenza sui bambini, dell’aggressività delle baby gang… non sia proprio questa cultura di crescente dissacrazione della vita? Siamo sicuri che dietro il crescente fenomeno dei suicidi, anche giovanili, non ci sia l’idea che “la vita è mia e ne faccio quello che voglio?” Siamo sicuri che la chiusura verso i migranti e i rifugiati e l’indifferenza per le cause che li muovono siano la strategia più efficace e dignitosa per gestire quella che non è più solo un’emergenza? Siamo sicuri che la guerra, in Ucraina come nei Paesi dei tanti “conflitti dimenticati”, sia davvero capace di superare i motivi da cui nasce? «Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione» (Francesco, Omelia al sacrario di Redipuglia, 13 settembre 2014).

4) La “cultura di morte”: una questione seria.

Dare la morte come soluzione pone una seria questione etica, poiché mette in discussione il valore della vita e della persona umana. Alla fondamentale fiducia nella vita e nella sua bontà – per i credenti radicata nella fede – che spinge a scorgere possibilità e valori in ogni condizione dell’esistenza, si sostituisce la superbia di giudicare se e quando una vita, foss’anche la propria, risulti degna di essere vissuta, arrogandosi il diritto di porle fine. Desta inoltre preoccupazione il constatare come ai grandi progressi della scienza e della tecnica, che mettono in condizione di manipolare ed estinguere la vita in modo sempre più rapido e massivo, non corrisponda un’adeguata riflessione sul mistero del nascere e del morire, di cui non siamo evidentemente padroni. Il turbamento di molti dinanzi alla situazione in cui tante persone e famiglie hanno vissuto la malattia e la morte in tempo di Covid ha mostrato come un approccio meramente funzionale a tali dimensioni dell’esistenza risulti del tutto insufficiente. Forse è perché abbiamo perduto la capacità di comprendere e fronteggiare il limite e il dolore che abitano l’esistenza, che crediamo di porvi rimedio attraverso la morte?

5) Rinnovare l’impegno.

La Giornata per la vita rinnovi l’adesione dei cattolici al “Vangelo della vita”, l’impegno a smascherare la “cultura di morte”, la capacità di promuovere e sostenere azioni concrete a difesa della vita, mobilitando sempre maggiori energie e risorse. Rinvigorisca una carità che sappia farsi preghiera e azione: anelito e annuncio della pienezza di vita che Dio desidera per i suoi figli; stile di vita coniugale, familiare, ecclesiale e sociale, capace di seminare bene, gioia e speranza anche quando si è circondati da ombre di morte.

Curiosità: Il Significato cristiano dell’albero di Natale

In molti lo collegano a un’usanza celtica, ma ha a che fare con le rappresentazioni medievali della storia del peccato originale.
Se si chiede a una persona, cristiana o no, che allestisce il tradizionale albero di Natale quale sia l’origine di questa usanza, probabilmente risponderebbe che essa è celtica, legata all’antica celebrazione del solstizio d’inverno. L’immagine di questo rito pagano nelle terre germaniche e scandinave è alquanto radicata nel pensiero collettivo. È documentato che ancora nel medioevo qui si andasse nel bosco a tagliare un abete da decorare con ghirlande e uova dipinte. Ma il legame tra l’uomo e il culto degli alberi è molto più ampio e primordiale, in quanto essi sono stati considerati da diverse civiltà simboli di vita e di rigenerazione, che con le loro radici e le loro fronde collegano la terra al cielo. Dall’albero dell’universo cinese a quello rovesciato indiano, dall’albero della rinascita egiziano a quello del paradiso maya, dall’abete sacro romano al frassino cosmico della mitologia nordica, queste maestose piante, spesso decorate, sono state ovunque oggetto di culto. L’albero di Natale cristiano è certamente collegato a tutto ciò, in quanto parte di una concezione radicata nell’essere umano. Però, nella forma della tradizione attuale esso ha un’origine propria.
Nel Medioevo, durante la Santa Notte davanti alle chiese veniva messa in scena la storia del peccato originale nel Paradiso terrestre, in quanto allora il 24 dicembre venivano particolarmente celebrati i “santi” Adamo ed Eva e, almeno dal Quattrocento, nei sagrati i fedeli erigevano l’albero del Paradiso, appendendovi mele (impostesi come frutto proibito) per ricordare il racconto della Genesi. La rappresentazione dell’origine del peccato umano era dunque direttamente collegata al fatto che il giorno successivo, a Natale, ci sarebbe stata la sua redenzione con la nascita di Gesù.
Nelle terre tedesche, siccome all’inizio dell’inverno non era possibile trovare un melo fiorito, si scelse il sempreverde abete, i cui rami erano già utilizzati come ornamento dei portali durante il periodo natalizio. Nel XVII secolo, questa usanza passò dagli spazi pubblici alle case private, dove le decorazioni si arricchirono di fiori di carta, lamine metalliche, dolci. È nell’Ottocento che arrivano le palline di vetro, inventate dai mastri vetrai dell’Alsazia e della Turingia, e che l’albero di Natale giunge in Italia. Questo simbolo si afferma dunque nelle celebrazioni cristiane, vista anche la sua connessione con la Passione di Cristo: secondo alcune leggende medievali, la croce fu costruita con il legno legato al peccato originale e infissa sul Calvario sopra il cranio di Adamo sepolto. Così, grazie a una pianta il Natale si unisce alla Pasqua.

Messaggio LVI giornata mondiale della pace

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 5,1-2).
1. Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie. 2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle. Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza. Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà. Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze.Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento. Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità. 3. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo? Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre. Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza. Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.
4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità. Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante. Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23). 5. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune. Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace. Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero.

Francesco