Il dialogo nella famiglia: un diamante incastonato nell’amore

I consultori di ispirazione cristiana della Regione Lombardia, appartenenti alla Federazione Lombarda dei Centri di Assistenza alla Famiglia (FeLCeaf), desiderano contribuire, con una riflessione sul dialogo, al percorso di preparazione della giornata mondiale della famiglia. E’ un testo condiviso dai 48 consultori privati e accrediti alla Regione Lombardia a partire dall’esperienza di accoglienza e ascolto delle famiglie che ogni anno vi si rivolgono.

I brevi ma intensi punti sul dialogo in famiglia fanno parte del capitolo 3 dell’Amoris Laetitia, il capitolo redatto a partire dall’Inno alla Carità di San Paolo (1 Cor, 13, 4-7 – AL, 89-90), che da molti anni tantissimi sposi hanno scelto come lettura per la celebrazione delle proprie nozze, intuendonela portata profetica. È la parte più poetica e commossa dell’Esortazione apostolica, forse quella maggiormente in sintonia con il cuore più vero e appassionato di papa Francesco, quella in cui la dottrina diventa esperienza, rileggendo le parole della vita familiare alla luce della fede in Cristo. È in questo capitolo, ad esempio, che vengono riportate le tre parole chiave che Papa Francesco aveva annunciato fin dall’inizio del suo pontificato, “permesso, grazie, scusa” (26 ottobre 2013, vedi anche AL, 133), a voler mostrare da subito una parola della Chiesa capace di essere chiara e comprensibile
nel linguaggio quotidiano di ogni famiglia. E nel cuore di questo capitolo, incastonate come un diamante in un anello, sono state poste le indicazioni sull’importanza del dialogo nelle relazioni familiari (AL, 136-141).
Un dialogo che deve essere prima di tutto apertura e incontro con l’altro, che sia capace di spostare il fuoco dell’attenzione dall’io al tu, che sappia vedere l’altro come dono, come novità infinita, come bellezza sorprendente – o meglio – come bello proprio perché continuamente sorprendente.
L’ascolto viene qui proposto come un potente antidoto all’individualismo, all’egoismo, al ripiegamento su sé stesso, tentazione ricorrente per l’uomo di oggi; solo un ascolto reale, sincero e fedele dell’altro potrà rompere la corazza di un io che si pretende onnipotente, e che non sa più ascoltare, tutto attento solo ad affermare sé stesso.
Nel dialogo e nell’ascolto viene così a costruirsi una circolarità di doni: chi ascolta offre uno spazio e un tempo in cui accoglie e custodisce la narrazione di chi parla, che a sua volta si dona liberamente all’altro affidandogli parte di sé.
Così il dialogo diventa una vera e propria danza, in cui i ruoli si possono scambiare continuativamente, così che ciascuno si faccia accogliente delle parole dell’altro, sapendo tacere, ma anche mettendosi a sua volta in gioco, offrendo la propria parola all’abbraccio dell’ascolto dell’altro, senza paura di essere respinto.
Rimettere nella circolarità di una relazione la parola che si fa dono per l’altro, è il compito quotidiano dei consultori che nella loro missione, hanno cura dei legami ponendosi a servizio delle relazioni affinché possano diventare relazioni autentiche e generative. La pratica dei nostri consultori nasce da questo modo di ascoltare chi ci sta di fronte, non solo per competenze professionali, ma soprattutto per visione cristiana della persona e della coppia.

La forza dell’amore sconfigge la morte

Gesù è risorto perché la sua vita è stata amore vissuto per Dio e per gli uomini fino all’estremo.

Dopo aver sostato sul grande evento del Dio fatto carne, del racconto che Gesù ci ha fatto nella sua carne mortale di Dio e dopo aver anche messo in rilievo continuità e rottura nell’insegnamento e nel comportamento di Gesù rispetto alla tradizione ebraica dei padri, occorre contemplare l’esito di questa vita umana. Vita di un ebreo marginale, vita profetica, messianica, e confessata come vita umana del Figlio di Dio che venuto dal Padre è tornato al Padre. Ed è qui, in questo esito che sta il proprium, lo specifico del cristianesimo: la morte in croce di Gesù e la sua risurrezione dai morti. Risurrezione dalla morte che Gesù, «il primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29), estende a tutta l’umanità per la quale l’alienazione della morte resta sempre la necessità da cui essere liberati, salvati. Ma cominciamo a porci la domanda: perché Gesù è risorto dai morti, l’unico uomo che, per i credenti in lui, ha conosciuto una vittoria della vita sulla sua morte? Sarebbe troppo sbrigativo affermare che egli è risorto, perché era Figlio di Dio. Questa risposta non basta. È frutto dello stesso errore da cui siamo partiti: cominciare dalla fede in Dio, e poi solo in un secondo momento credere in Gesù. D’altra parte, non è neppure sufficiente leggere la risurrezione come il miracolo dei miracoli. Tale interpretazione contiene certamente una verità, perché la risurrezione è l’inaudito per noi uomini. È ciò che contraddice la certezza universale secondo cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana. Ma è ancora una spiegazione insufficiente…
Partendo proprio dalla realtà della morte, vorrei abbozzare una meditazione che consenta di comprendere in che senso la risurrezione di Gesù è l’evento determinante della fede cristiana. Nell’Antico Testamento la morte è il segno per eccellenza della fragilità umana. Ogni uomo porta dentro di sé “il senso dell’eterno” (Qo 3,11), l’ansia di eternità. E, tuttavia, è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia, in qualche modo, una necessità biologica, come lo è per ogni creatura. Ma tale giustificazione non spegne dentro di noi la sensazione che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minacci fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! È qui che entra in gioco la riflessione che ogni uomo e ogni donna fanno sotto il cielo, da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore. Quando, infatti, diciamo a qualcuno: «Ti amo», ciò equivale ad affermare: «Io voglio che tu viva per sempre». La nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati. E tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti dell’eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici, posto al cuore
della Bibbia, consiste proprio nel fatto che in esso si parla di amore dall’inizio alla fine, dell’amore umano tra un ragazzo e una ragazza che diventa cifra di ogni amore.
A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, /perché forte come la morte è l’amore, /tenace come l’inferno è lo slancio amo-roso. /Le sue rampe sono fiamme di fuoco,/ una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).
Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte. La Scrittura, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza. Non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. Com’è noto, l’Antico Testamento non ha pagine chiare e nette sulla risurrezione dai morti; ma al suo cuore sta la consapevolezza che l’amore può combattere la morte. E questo non è poco. Tenendo presente questo orizzonte, possiamo ritornare alla nostra domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei Vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agezpe, è stata amore vissuto per gli uomini e per Dio fino all’estremo. Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena. In altre parole, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? E questa la domanda che si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: «Dio ha risuscitato Gesù, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24). Com’era possibile che l’amore restasse preda degli inferi? La risurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: risuscitandolo dai morti, Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto. E ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto ciò che è essenziale per conoscere lui. È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù Risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba pasquale, nell’alba di quel “primo giorno dopo il sabato” (Mc 16,2)? Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto. Mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, sulle rive del lago di Tiberiade… Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. Di più, egli si è manifestato nella forma con la quale, nel corso della sua esistenza, aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: «Rabbuni, mio maestro!» (Gv 20,16). I discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane, cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti. E il discepolo amato che lo riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade e grida a Pietro: «E il Signore!» (Gv 21,7). Insomma, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno. E quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che “Dio è amore”. Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare. E, infine, a mettere per iscritto nei Vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una ragione per cui morire. E, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore dei fratelli, vissuto con semplicità, gratuitamente e liberamente. Quell’amore che non può morire!

Enzo Bianchi

E’ in atto una “nuova genesi culturale”

Una cultura inedita
di Armando Matteo docente di teologia all’Urbaniana

Di fronte al cambio d’epoca in cui viviamo,
i credenti sono chiamati ad affrontare nuove sfide

Una seconda coordinata dell’Opzione Francesco riguarda la necessità di entrare in consapevole contatto con l’effetto complessivo del cambio d’epoca che ci tocca vivere. Grazie a esso, infatti, siamo davanti a uno scenario culturale del tutto inedito rispetto a quello che ha governato l’esistenza dei nostri antenati. Già in Evangelii Gaudium, 73, parlando delle nuove città, papa Francesco invitava a ciò: «Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cri-stiano non suole più essere pro-motore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città». L’urbano contemporaneo diventa così il simbolo di quella “nuova genesi culturale” che è in atto e che sottrae ai credenti e ai loro pastori la regia sul senso della vita, proponendo visioni dell’esistenza differenti quando non addirittura opposte al Vangelo. E di cos’è segno l’urbano contemporaneo? Esso è segno di un’immensa gamma di possibilità e sviluppo a disposizione del cittadino occidentale, grazie all’accrescimento formidabile dell’apparato tecnologi-co e grazie alle conquiste della medicina e della farmaceutica; è segno di una quota di benessere medio mai raggiunta prima, grazie a una circolazione del denaro consistente e ai sistemi di welfare sempre più performanti; è segno di un compimento delle potenzialità culturali e formative dei singoli mai sperimentato prima e, infine, di un collegamento tra i singoli e tra i singoli e il mondo circostante, grazie alla comunicazione digitale. Si fa spazio così una cultura inedita che ribalta gli elementi portanti che hanno strutturato la coscienza collettiva si-o a pochi decenni fa. La nuova cultura che palpita nelle città dell’Occidente non riconosce più alcun primato alla trascendenza, alla verità, alla razionalità, alle leggi naturali, al-la tradizione, alla comunità, alla coerenza morale, a Dio, al senso del dovere, al valore del sacrificio e della sobrietà. Oggi ben altri sono gli orizzonti di senso e di valore che governano le esistenze dei cittadini occidentali. Si tratta della singolarità, della corporeità, dell’alterità e della pluralità di prospettive, dell’emotività, della spontaneità, dell’immediatezza, della salute, della comodità, del benessere economico dell’allergia per ogni forma di trauma e di inceppamento del circolo esuberante della propria esistenza. Esagerando un po’, si potrebbe dire che siamo davanti a “una nuova specie dell’umano” che vive della libertà del sentirsi libero e unico e che questa libertà e unicità difende a ogni costo. Questa nuova configurazione non esclude ambivalenze e lati oscuri. I credenti, tuttavia, debbono entrare in contatto con essa, per evitare quello che per papa Francesco è un rischio ricorrente al presente: dare risposte a domande che nessuno pone più. La cultura nuova pone, infatti, domande nuove.

Il valore relazionale del digiuno

In Quaresima occorre lasciare spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla relazione primaria con Dio.

Nel tempo di Quaresima, il digiuno è una delle pratiche religiose che suscitano domande. Ha ancora senso al giorno d’oggi? Già nel resto dell’anno c’è chi lo pratica per dimagrire o depurarsi. Ma il suo significato non è solo fisico. Intendendolo così, si rischia di impoverire un comportamento dal profondo significato: adattarlo alle proprie intenzioni vuol dire non capire il digiuno di Gesù nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti (Mt 4,1-11, Mc 1,12-13; Lc 4,1-13).
Solo introiettando la logica del Padre e vivendo in pienezza la comunione con Lui Gesù ha scacciato la tentazione di tutto ciò che lo avrebbe allontanato dalla sua vocazione. Non per niente, il primo tentativo di corruzione del diavolo è legato al cibo: un pezzo di pane. Ma Gesù gli risponde che non di solo pane vivrà l’uomo.
Le regole alimentari religiose, che vanno dal digiuno all’astinenza da determinati cibi, possono essere vissute per un verso come un auto-dominio in ottica ascetica e penitenziale, per un altro come mezzo per focalizzare l’attenzione sulla nostra relazione primaria con la vita. Il senso immediato di quest’ultimo caso è il fatto che se non mangio muoio, mentre quello mediato è legato al fatto che, attraverso la cucina, l’essere umano esprime simboli e valori di importanza vitale.
In Quaresima, con una rinuncia parziale dal cibo abbiamo la possibilità di capire ciò che è necessario per il vivere quotidiano e ciò che ci allontana dal vivere umanamente. Come capita anche in altri aspetti della vita, è nell’assenza che ci accorgiamo della presenza e dell’essenzialità di qualcuno o qualcosa. De Vecchi indica alcune domande essenziali che si deve porre il cristiano: di che cosa mi nutro? Come nutro la relazione con Dio e come me ne nutro? Che ruolo ho nella “fame” del fratello?
«Il digiuno ha quindi anche un senso penitenziale, ma non se intendiamo il “penitenziale” in senso psicologico, massacrante, bigotto, solipsistico, nel senso di sentirci solo peccatori e dannati in eterno (il senso della Pasqua a cui il digiuno deve farci avvicinare è esattamente il contrario!). Ha un senso penitenziale in questa ottica: lasciare lo spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla mia relazione primaria, che è quella con Dio. Ne emerge il valore relazionale della penitenza.»

Il Regno, Giada De Vecchi.

Ritagli di Riflessione

Evangelii Gaudium

279. Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Questa certezza è quello che si chiama “senso del mistero”. È sapere con certezza che chi si offre e si dona a Dio per amore, sicuramente sarà fecondo (cfr Gv 15,5). Tale fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata. Uno è ben consapevole che la sua vita darà frutto, ma senza pretendere di sapere come, né dove, né quando. Ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte con amore, non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli altri, non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita. A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui.