In occasione delle prossime elezioni politiche offriamo uno stralcio di un articolo di Giacomo Costa
tratto da “ Aggiornamenti Sociali”.
Inizio passando in rassegna alcuni dei sentimenti che ci accompagnano in questo tempo. Il primo è probabilmente l’indifferenza: quella cronica di chi è interessato solo al proprio privato; quella di chi fatica a percepire la rilevanza della posta in gioco, visto che sempre di più le questioni cruciali si decidono fuori dal Parlamento; quella di chi non segue la politica e non si sente competente a prendere una decisione, arrivando magari a considerare l’astensione come una scelta di onestà. Ma c’è anche una indifferenza che non si astiene, quella di coloro che votano per abitudine o inerzia sempre lo stesso partito (o un suo succedaneo): se questo poteva funzionare nella politica del Novecento, quando i partiti mantenevano un ancoraggio almeno di facciata a un’ideologia, nel contesto attuale non sembra avere
molto più senso.
Altrettanto diffusi sono confusione e incertezza, complici anche alcune peculiarità dell’attuale congiuntura, dal tramonto del bipolarismo a una legge elettorale mai sperimentata. Verosimilmente dalle urne non uscirà un vincitore con numeri che gli permettano di governare da subito. Si modificheranno schieramenti e alleanze dopo il voto? In modo coerente con la volontà degli elettori? Anche esaminando i programmi risulta difficile capire per che cosa si vota: le proposte di partiti e movimenti sono modellate a misura di sondaggio per “catturare” voti, senza preoccuparsi di coerenza o fattibilità.
Circolano poi tanta rabbia e tanto disgusto, che possono derivare dal sentirsi dimenticati dalle istituzioni anziché tutelati: sono sentimenti da interrogare, cercando di valutare la fondatezza della pretesa o aspettativa che si ritiene frustrata. Un capitolo a parte sono le reazioni al malaffare e ai crimini commessi dai politici: l’astensione è spesso vissuta come un modo per non sporcarsi la coscienza e non sentirsi complici. Ma c’è rabbia anche in molti militanti di movimenti “dirompenti” anti-casta, anti-sistema, magari accompagnata da una fiducia cieca che porta a usare pesi e misure diverse per i propri beniamini e per tutti gli altri, perché in qualcuno bisogna pur credere. Raffreddandosi, frequentemente la rabbia diventa Nonostante tutto – abbiamo il dovere di riconoscerlo – non manca nemmeno la trepidazione, quel sussulto di speranza che ci assale quando all’orizzonte compare qualcosa o qualcuno di nuovo: «Sarà la volta buona? Sarà quello giusto per uscire dalla palude?». La speranza del bene non muore, e questa è una risorsa; il problema è quando si declina in un’attesa messianica, che collude con la personalizzazione e il leaderismo della nostra politica, senza diventare generatrice di impegno.
Tenere saldamente i piedi per terra senza rinunciare alla passione per il nostro Paese e mettere in gioco tutte le proprie risorse, razionali ed emotive: sono questi i punti dell’esercizio pre-elettorale che vi sto proponendo.
Nella prospettiva che provo a tracciare, l’astensione è una opzione da non ridicolizzare né demonizzare, e non è sempre sinonimo di rinuncia e disimpegno, ma, come ho già sottolineato, oggi va riconosciuta come una opzione insostenibile, specialmente nel lungo periodo. La sua forza attrattiva va interrogata e ascoltata, e ci invita a renderci conto che la fine delle ideologie ci ha privato di un apparato di controllo degli eletti, obbligando i cittadini ad assumersi la responsabilità di una interazione continua con i propri rappresentanti. Proprio come il consumo critico evidenzia la forza del “voto col portafoglio” come esercizio quotidiano di pressione sulle imprese, abbiamo bisogno di crescere
nella capacità propositiva a livello di società civile e nell’esercizio di forme di cittadinanza attiva. La ciclica lamentela sulla decadenza dei costumi senza alcuna attivazione lascerà sempre il tempo che trova.
Il principio di realtà ci spingerà a prendere distanza dalla seduzione di un leader forte, capace di risolvere ogni problema, o di un partito a cui affidare una sorta di delega in bianco onnicomprensiva: una proiezione a scala nazionale dell’immaginario infantile del genitore tanto onnipotente quanto inesistente. La domanda di concretezza che gli elettori esprimono ci condurrà a partire dai bisogni di chi abita il Paese più che dalle ideologie, facendo
però attenzione al rischio della chiusura individualistica, che assolutizza il proprio bisogno immediato e ne scambia la frustrazione, magari parziale o provvisoria, con il fallimento del sistema sociale e politico. In chiave sociologica i bisogni restano una fonte di conflitto e di tensione senza fine, anche perché sono illimitati, oltre a prestarsi a essere manipolati in chiave consumistica. A livello di vissuto personale sono fonte di paure e di entusiasmi, per cui dobbiamo imparare a riconoscerli e articolarli. Altrimenti attenzione ai bisogni e concretezza scivoleranno velocemente verso una politica fondata sul puro auto-interesse, senza alcuna considerazione per il bene comune. È proprio il principio di realtà a imporre di confrontare l’illimitatezza dei bisogni con la scarsità delle risorse, ponendo la domanda della sostenibilità anche in chiave intergenerazionale. Non si tratta di considerazioni teoriche: alla base di tante politiche dell’amministrazione Trump – dalle questioni energetiche a quelle internazionali – sembra esserci l’incapacità di uscire dalla logica del puro auto-interesse immediato, che ritroviamo in tanti slogan, da “America first” a “Prima gli italiani”.
Il richiamo del “prima noi” – se non addirittura “prima io” – è potente, e non solo per i politici; infatti lo riconosciamo in tanti comportamenti generalizzati, a partire dell’evasione fiscale. Si tratta di pretese sempre più spesso “sdoganate” e dichiarate legittime, che ci conducono nella direzione opposta a quella della coesione e dell’«amicizia sociale». Quanti e quali partiti e candidati resistono ad assecondare o addirittura ad alimentare questa tendenza? Invece quello di cui abbiamo bisogno è costruire spazi di dialogo e di mediazione, recuperare la capacità di articolare differenze e pluralità: pare saggio allora scegliere una classe politica almeno potenzialmente capace di accompagnare questo percorso. A urne chiuse, la nuova legge elettorale obbligherà probabilmente gli eletti a trovare accordi e mediazioni: è bene che cooperiamo scegliendo persone capaci di farlo. La sfida si ripropone anche a livelli più alti: ce ne dimentichiamo spesso, ma se non vogliamo rassegnarci a un progressivo ripiegamento su noi stessi, chi eleggeremo sarà chiamato a partecipare, a nostro nome, al governo della globalizzazione e allo sforzo
di riprogettazione della casa comune europea.
La capacità di dialogo e di mediazione sarà preziosa in questi contesti.
Per queste ragioni abbiamo bisogno di più politica, non di meno. Votare “per realtà” è meno attraente che votare “per entusiasmo” – forse questa è una delle ragioni che rendono difficile ai più giovani pensare di recarsi alle urne – , ma questo non ne sminuisce l’importanza. Anzi sfida la nostra responsabilità e maturità a misurarsi anche con i limiti della democrazia e le sue contraddizioni: ne siamo tutti più che consapevoli, ma la riduzione della partecipazione non farà che esaltarli. Il percorso che questo editoriale vi propone è uno strumento per esercitare in
modo consapevole la responsabilità di votare: non ci sarà una politica adulta senza elettori maturi.