E’ possibile andare in collera ma senza cadere in peccato

Come accaduto sia a Dio che a Gesù, ci sono situazioni in cui adirarsi serve per disapprova il male e le ingiustizie.

“Nel salmo 4 c’è un versetto che può suonare di difficile comprensione per i nostri orecchi che vedono nell’ira, nella collera, nello sdegno solo un peccato, o per lo meno un difetto del carattere. Il versetto […] va tradotto: «Adiratevi ma non peccate», o «Andate in collera e non peccate» (Sal 4,5). L’Apostolo lo riprende tra le esortazioni della Lettera agli Efesini, aggiungendovi le parole: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date spazio al diavolo” (Ef 4,26-27). Dunque è possibile andare in collera, adirarsi, ma occorre nello stesso tempo non cadere in peccato, non permettere che il divisore trovi spazio in questo sentimento e nella sua espressione.”
Enzo Bianchi riconosce che spesso nella Bibbia l’ira ha come soggetto Dio stesso. Di fronte a ciò che è male, Egli non resta impassibile, ma prova un sentimento che lo porta a manifestare il suo disappunto e a soffrire. Anche Gesù è capace di mostrare collera e sdegno in diverse situazioni, con atteggiamenti e parole che possono sorprendere per la loro durezza.
“Quando grida verso Corazin e Betsaida, dicendo che Tiro e Sidone avranno una sorte meno dura nel giudizio, o quando inveisce contro Cafarnao, dicendo che sarà sprofondata all’inferno, Gesù si mostra come un profeta pieno di passione, capace di assumere toni collerici. Quando attacca scribi e farisei e ne fa la caricatura, denunciando apertamente i loro atteggiamenti di peccato e menzogna, gridando loro: «Serpenti! Razza di vipere!» (Mt 12,34; 23,33), Gesù è adirato. E così quando, entrato in Gerusalemme, scaccia dal tempio con una corda i commercianti e rovescia i loro tavoli, Gesù mostra di essere in collera.”
Ma queste parole e questi gesti non sono certamente peccato, perché «in lui non c’è stato peccato» (1Gv 3,5); anzi, sono segni della passione per la giustizia e la sincerità di Gesù, che esprimono la volontà di Dio. Ci sono dunque situazioni in cui alzando la voce e gridando si esprime la propria disapprovazione del male, dell’errore commesso, si fa capire la gravità di ciò che viene denunciato come ingiustizia, peccato.
“Ma oggi siamo ancora capaci di indignazione, di un’insurrezione delle coscienze, oppure l’indifferenza è a tal punto diffusa che lascia posto solo a rabbia e a rancore? Ecco, il rancore, questo sì è un grande peccato ispirato dal diavolo. Si tratta di una rabbia non espressa esternamente, che si contiene e si nutre ogni giorno con l’ostilità: non si reagisce in modo manifesto all’altro ma si cova rabbia contro di lui; non si alza la voce ma si lascia posto all’ululare nel cuore; non si dice la propria contrarietà ma interiormente si accumula risentimento. […] Anche l’ultimo rapporto annuale del Censis sulla situazione italiana denuncia come malattia sociale il rancore che ammorba la vita dei cittadini, incapaci di indignazione ma pronti a essere cattivi e rabbiosi. Difficile esercizio quello dell’andare in collera senza peccare, senza cedere al rancore; ma difficile esercizio anche quello dell’accogliere la parola collerica dell’altro, quando è motivata come correzione (non come offesa o disprezzo), e non farne un’occasione di inimicizia o di condanna, ma una possibilità di interrogarsi, esaminarsi ed eventualmente convertirsi.”

Enzo Bianchi

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