Per risolvere la crisi climatica bisogna avere un pensiero globale

Lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, come tutti sanno (o almeno dovrebbero sapere), ci stanno trasportando verso una catastrofe ambientale che a sua volta provocherà una catastrofe umana.
L’ondata di calore che ha colpito l’Asia meridionale è una delle manifestazioni del cataclisma ambientale in corso. Per diversi giorni Jacobabad, nella provincia pachistana del Sindh, è stato uno dei posti più caldi del pianeta. Moltissime persone sono morte nel subcontinente a causa di colpi di calore e disidratazione. Sono le vittime del cambiamento climatico, decedute solo perché il genere umano ha sostenuto idee fuorvianti sul riscaldamento del pianeta o non ha prestato attenzione a chi aveva previsto questa situazione.
Dalla loro comparsa sulla Terra, gli umani consumano le risorse del pianeta e, da molti decenni a questa parte, stanno emettendo troppa anidride carbonica nella sua atmosfera. Anche adesso le economie in crescita come l’India e la Cina non sono interessate a impegnarsi per ridurre le emissioni, nel timore che questo possa fermare la crescita delle loro economie.

Il fatto che le conseguenze della catastrofe climatica non sono contenute dai confini nazionali rappresenta un problema.

Ma è proprio il fenomeno del degrado ambientale ad aver reso evidente quanto la concezione che vuole lo stato nazionale come unità politica fondamentale si sia rivelata fallimentare. È stata la pace di Vestfalia, firmata nel 1648, a sancire questo principio. I regni e gli imperi hanno lasciato il posto a paesi organizzati e delimitati da precisi confini geografici, e per vivere al loro interno sono diventati necessari dei documenti: un concetto del tutto nuovo per l’epoca. Viaggiatori del passato come Ibn-i Battuta non si sono mai dovuti preoccupare di passaporti e visti, come invece devono fare oggi gran parte dei viaggiatori. Negli anni di Vestfalia, però, questi erano concetti nuovi, compresa l’idea che il governo del popolo avrebbe sostituito il sistema delle monarchie sopravvissuto per centinaia di anni. È molto probabile che così come noi non riusciamo a immaginare un mondo senza stati nazione, i nostri antenati ridessero all’idea di paesi non governati dai re e dalle loro corti.

Un problema transnazionale.

I nuovi sistemi emergono quando quelli vecchi non funzionano più o perché le loro lacune li rendono inutili. Nella situazione in cui ci troviamo oggi, il fatto che le conseguenze della catastrofe climatica non sono contenute dai confini nazionali si sta dimostrando un problema. Quando gli agricoltori del Punjab indiano bruciano stoppie nei loro campi, il fumo arriva fino a Lahore e per giorni la qualità dell’aria è talmente bassa che è difficile vedere anche a pochi metri di distanza.
E lo smog non è l’unico problema, come hanno evidenziato molti esperti. Il fatto che il bacino idrico del Pakistan sia a valle rispetto all’India crea anche un problema di sicurezza ed è una spada di Damocle sospesa sulle teste di noi tutti. Se le ultime settimane hanno mostrato che inferno può essere il cambiamento climatico, immaginiamo questa situazione moltiplicata esponenzialmente nel momento in cui i fiumi si prosciugheranno in modo permanente e la siccità diventerà la norma.
Il modello dello stato nazione è fallimentare anche perché i suoi meccanismi obsoleti non riescono a gestire il cambiamento climatico in modo giusto o equo. Per esempio, il Pakistan emette una quantità di anidride carbonica inferiore a quella della maggior parte degli altri paesi. Eppure, non gli sono mai state concesse risorse adeguate per far fronte alle sfide climatiche delle quali è responsabile solo in minima parte.

Per gli ambientalisti il pianeta si sta trasformando in una unità politica: i suoi limiti e la sua salvaguardia a livello globale diventeranno l’obiettivo della cooperazione mondiale.

Ne consegue dunque che una delle sfide più significative della nostra epoca non si conforma al modello dello stato nazione. I progressi negli studi sulle carote di ghiaccio ricavate dai ghiacciai che si stanno sciogliendo consentono agli esseri umani di conoscere il loro impatto sul pianeta andando indietro di migliaia di anni. Grazie alla nascita e alla diffusione delle scienze della terra come la geologia, la geofisica e altre, enormi quantità di dati sono stati convertite in numeri che possono essere inseriti in modelli in grado di prevedere cosa aspettarci in futuro. Gli umani non erano in grado di fare previsioni sul clima quando è stata firmata la pace di Vestfalia. Adesso, invece, possono farlo con grande accuratezza ed è grazie a questo genere di tecnologia se la nostra specie riuscirà a comprendere davvero la gravità della catastrofe climatica che il pianeta sta affrontando.

Cooperazione planetaria.

Anche se le guerre come quella scoppiata in Ucraina sembrano sottolineare l’importanza dello stato nazione e la costruzione di muri ai confini, eretti come intorno alle fortezze, suggeriscono un’interpretazione il più letterale possibile di questa forma di organizzazione politica, questi fenomeni potrebbero anche rappresentare l’ultimo singulto dello stato nazione. Gli ambientalisti sostengono che il pianeta si sta trasformando in una unità politica: i suoi limiti e il suo benessere globale diventeranno l’obiettivo della cooperazione mondiale.
In parole povere, la valutazione del tempo sulla scala di millenni resa possibile dai progressi scientifici e dai supercomputer sottolinea la necessità di creare nuove unità politiche, pensate per interconnettere tutti e tutto sul pianeta. Anche la pandemia, probabilmente, è stata causata dall’aumento delle temperature, e anche questa sfida globale ha mostrato l’incapacità degli stati nazionali di elaborare una risposta collettiva.
Il passaggio dallo stato nazione alla cooperazione planetaria è inevitabile. La prospettiva di lungo periodo sullo stato del nostro pianeta che possiamo estrarre dai ghiacciai ha svelato com’era la Terra molto prima che facessero la loro comparsa gli esseri umani. Il pianeta sta diventando più caldo, ambienti naturali si stanno perdendo e noi continuiamo a scherzare con questa catastrofe. Il modello e l’ordinamento politico dello stato nazione non ha prodotto gli anticorpi per arginare la più grande minaccia per il nostro pianeta.
Forse è il momento di pensare a un nuovo modello.

Tratto dal quotidiano pachistano Dawn.

Il divario tra ricchi e poveri

Si allarga sempre più il fossato tra i pochissimi che posseggono molto e i moltissimi che posseggono poco.

La pandemia da Covid-19, la guerra in Ucraina e il grido disperato che si alza da più parti rendono quanto mai attuali le parole consegnate da B. Pascal al Pensiero n. 367: «Noi corriamo senza preoccuparci verso il precipizio, dopo esserci messi qualcosa davanti agli occhi per evitare di vederlo». Tra le cose che cerchiamo di non vedere e che, comunque, stanno accompagnando verso il precipizio un’umanità sempre meno incline a farsi aprire occhi e intelligenza, vi sono i numeri che registrano le sempre più insopportabili disuguaglianze nella distribuzione delle risorse. Con buona pace di quanti prospettavano un mondo che avrebbe imboccato la strada di una maggiore equità sociale, l’emergenza sanitaria legata al coronavirus ha notevolmente allargato il divario tra ricchi e poveri. Tanto da aver spinto qualcuno a parlare di «pandemia della disuguaglianza» e di «virus della disuguaglianza», capaci di devastare tante vite e di rendere davvero faticosa la creazione di spazi credibili di speranza. Cosa dire, infatti, di fronte ai report pressoché coincidenti pubblicati da Oxfam international e, per altri versi, da Caritas?
Gli indicatori offerti confermano il trend che da alcuni anni fa registrare un crescente divario tra i pochissimi che posseggono molto e i moltissimi che posseggono poco. «I 10 super ricchi», afferma la direttrice di Oxfam Gabriela Bucher, «detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi persone». E, durante la pandemia, i patrimoni dei 10 uomini più ricchi del mondo sono raddoppiati, mentre nello stesso periodo almeno 163 milioni di persone sono cadute in povertà. Dall’analisi delle politiche economiche e dei criteri che guidano la finanza emerge con evidenza che la sorte di quei 3,1 miliardi di persone non è tra le preoccupazioni principali dei nostri governanti. Il “precipizio” evocato da Pascal, e verso il quale siamo incamminati, ha tanti nomi. Il primo è la sempre più lontana auspicata coesione sociale; proprio quella che servirebbe per neutralizzare le crescenti tensioni sociali. Tra le ipocrisie destinate solo a distrarre l’attenzione dallo scandalo delle disuguaglianze, va annoveratala teorizzazione del cosiddetto “sgocciolamento” a valle del denaro dei ricchi, presentato quasi come soluzione automatica al problema delle diseguaglianze. Nell’enciclica Fratelli tutti, papa Francesco contesta con forza questa teorizzazione. Dalle tasche dei moderni Paperoni, infatti, non trabocca e non sgocciola proprio nulla peri poveri. È dal 2015 che l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%. Ciò vuol dire che l’attuale sistema economico favorisce l’accumulo di risorse nelle mani di una élite super privilegiata ai danni dei più poveri (in maggioranza donne). Altro che “sgocciolamento”! «La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fa-re strage», si legge al numero 168 della Fratelli tutti. «Dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Non ci si può, insomma, nutrire solo di algoritmi e di previsioni. D’altra parte, la finanziarizzazione dell’economia conti-nua a permettere al 10% della popolazione mondiale di consumare il 90% dei beni; e il risultato devastante di questa ingiustizia sono i 2 miliardi di individui che vivono con meno di 2 euro al giorno. E allora, da dove attingere le energie per non sentirsi condannati all’inerzia, se non proprio al soffocamento? Papa Francesco invoca il “principio della fratellanza”, non come comoda e retorica via di fuga. È consapevole che, per quanto originario, il compito della fraternità non può essere codificato, sfugge alla presa delle leggi ed è esposto alla facile trasgressione. Eppure, come afferma il filosofo francese Edgar Morin, la fratellanza è l’unico «mezzo per resistere alla crudeltà del mondo». La fratellanza assicura una base antropologica, etica e spirituale all’indispensabile processo di rinnovamento e di cambiamento che deve coinvolgere l’economia e il mondo della finanza. E, per farlo, papa Francesco entra in dialogo aperto e costruttivo con la tradizione di pensiero che si richiama al motto della Rivolu-zione francese (1789): liberté, égalité, fraternité. Trittico che sintetizzava, in una forma efficace, l’intero programma della modernità, ma che l’ordine post-rivoluzionario ha poi abbandonato, fino alla cancellazione della fraternità dal lessico politico-economico. «Che cosa accade», si chiede papa Francesco, «senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia» (Fratelli tutti 103). Allo stesso modo, l’uguaglianza senza la fraternità rimane un valore astratto. Si tratta di un processo che chiede non solo di uscire dal cerchio della finanza speculativa, la quale — come i “briganti della strada” della parabola evangelica del Buon samaritano — lungo la via lascia ferite intere popolazioni, ma anche dal cerchio dei “segreti alleati”: coloro che «passano per la strada guardando dall’altra parte», chiudendo così «il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse» (Fratelli tutti 7 5). Si tratta di vincere la tendenza costante all’egoismo che Francesco — ricorrendo a un termine della tradizione cristiana — non esita a chiamare “concupiscenza”. La fraternità — anche nel mondo della finanza — richiama quello spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni che pongano al centro la persona nella sua interezza.

di Nunzio Galantino presidente dell’amministrazione della Sede Apostolica.

Esistono guerre giuste?

Intervista a René Micallef SJ, docente di Teologia Morale presso la Pontificia Università Gregoriana. A cura di Mauro Bossi SJ. – Tratto da “Aggiornamenti Sociali

Molte delle riflessioni della teologia cattolica sulla guerra ruotano intorno alla teoria della “guerra giusta”, espressione che può anche suonare come ambigua all’orecchio di chi ha una sincera preoccupazione per la pace. In che cosa consiste questa riflessione e quali sono i suoi elementi che possono aiutarci, oggi, a discernere circa l’uso della forza militare?
Effettivamente, l’espressione “guerra giusta” è ambigua. Ma per capire di che cosa si tratta, bisogna dare uno sguardo alla storia, partendo dal Medioevo. Verso l’anno mille, nel sud della Francia, c’erano continui conflitti provocati da signori della guerra, che destabilizzavano varie regioni ed economie, distruggevano proprietà ecclesiastiche e rurali, e spesso compivano massacri di persone innocenti. Perciò nacquero movimenti – quelli della Pace di Dio e della Tregua di Dio – per limitare, passo dopo passo, questi conflitti; queste iniziative includevano anche elementi rituali, come processioni e giuramenti con sacre reliquie, per toccare il cuore dei belligeranti e creare tabù psicologicamente e socialmente efficaci. Era impensabile chiedere la pace totale e immediata, quindi la strategia era quella di limitare le cause accettabili per iniziare un conflitto, l’uso della violenza durante il conflitto e i tempi in cui si poteva compiere operazioni militari, escludendo determinati tempi liturgici e festività. Queste limitazioni ebbero l’effetto di costringere i combattenti a una rigorosa giustificazione della legittimità di ogni atto violento. Questo è il nucleo storico della cosiddetta teoria della “guerra giusta”: si tratta dell’arduo compito di una continua e critica valutazione della giustificabilità di ogni atto di guerra e ogni conflitto, per poter condannare con lucidità ciò che non è moralmente tollerabile, ma anche per arginare l’azione dei militari, offrendo dei princìpi per limitare la barbarie di una realtà per sé stessa crudele.
Concretamente, di che cosa si tratta? Quali elementi occorre tenere in considerazione, e rispetto a quali circostanze, per valutare se e quando l’impiego della forza militare sia legittimo?
La riflessione cattolica ha sviluppato due serie di norme. La prima riguarda i criteri in base ai quali è lecito avviare un’azione militare (ius ad bellum): in primo luogo, l’agire violento può essere soltanto difensivo ed essere adottato come rimedio estremo, quando le soluzioni pacifiche sono state rifiutate dall’aggressore; inoltre, l’intervento militare deve avere l’approvazione dell’autorità politica legittima, cosa che esclude ogni iniziativa autonoma dei militari; la risposta deve essere proporzionata ai danni causati dall’aggressore, mai esagerata o intesa per avviare una escalation; infine, deve esistere una reale possibilità di fermare l’aggressore. La seconda serie di regole riguarda il modo di condurre l’azione militare (ius in bello): occorre distinguere rigorosamente tra combattenti e non combattenti, rispettare costantemente la proporzionalità tra le azioni offensive e difensive, sempre per evitare l’escalation; a questo si aggiunge il principio di responsabilità: l’imputabilità di ogni azione deve essere chiara – quindi deve essere chiara anche la catena del comando – in modo tale che, al termine del conflitto, si possa anche individuare e punire i responsabili di crimini di guerra. Quest’ultimo punto è stato sviluppato dopo gli orrori delle guerre del XIX secolo, quando vari filosofi e giuristi hanno alimentato lo sviluppo di un diritto internazionale umanitario e di un diritto di guerra, con l’obiettivo di evitare la barbarie della guerra totale e cercare di abolire progressivamente il ricorso all’uso della forza per risolvere i litigi tra le nazioni.
Alcune persone che amano la pace credono che dare criteri di valutazione non serva: bisogna dire un semplice e chiaro “no” a tutte le guerre e tutte le forme di violenza. Regolare significa legittimare – non è così?
Riconosco che c’è una storia infelice dell’uso di questi principi, che a volte sono stati usati al rovescio, per giustificare gli interventi militari. Questo veniva fatto, per esempio, facendo leva sul valore dell’onore: si giustificava la guerra combattuta, prima, “per l’onore del re”, poi per il concetto romantico dell’“onore della nazione”. Verso la fine del XX secolo, sia nella teologia cristiana, sia nel pensiero laico, queste motivazioni sono state completamente abbandonate. Ormai, solo una guerra difensiva, nel senso di difesa fisica contro un’aggressione fisica già accaduta, o certa ed imminente potrebbe, dopo accurata analisi, essere ritenuta moralmente tollerabile. Sottolineo che l’obbligo di valutare la giustificabilità della guerra, usando i princìpi sopraccitati, è già “pacifista” nel senso che non permette l’aggressione ma solo l’autodifesa e non permette neppure difendersi con mezzi illegittimi, come armi nucleari, chimiche o biologiche: se l’uso di questi mezzi è l’unica alternativa per difendersi, bisogna arrendersi, anche qualora si è vittima di un’aggressione ingiusta. Anche nel caso di una guerra combattuta per difendersi, resterà sempre il dilemma: possiamo “sporcarci le mani” e usare la forza per fermare l’aggressore, senza essere contaminati dalla sua logica, diventare noi stessi aggressori, e perpetuare il ciclo della violenza? La tradizione della valutazione della giustificabilità del conflitto può forse essere un aiuto e salvarci da questo vortice della violenza perpetua nella misura in cui essa ci dà un linguaggio che ci permette di confrontarci onestamente con amici e nemici, cercando di rimanere critici rispetto ad ogni facile giustificazione della violenza.
Avvicinandoci di più alla situazione in Ucraina, basandoci sul magistero della Chiesa e sulla tradizione di pensiero che abbiamo richiamato, quale valutazione morale possiamo dare dell’iniziativa russa di attaccare lo Stato confinante?
Rispondendo brevemente e senza troppe sfumature, credo sia chiaro dai criteri del ius ad bellum tradizionale che l’aggressione russa non è giustificabile perché non c’è una causa giusta. Non c’è stato oggettivamente genocidio o gravi violazioni dei diritti umani, commessi dal Governo ucraino, e riconosciuti dalla comunità internazionale o da terze parti neutre e competenti, nell’est dell’Ucraina. Quindi non si può giustificare invasione del resto dell’Ucraina come una guerra difensiva o un atto di “responsabilità di proteggere”. Anche se ci fossero stati massacri o genocidio, la Russia non avrebbe potuto lecitamente agire da sola, e avrebbe dovuto chiedere all’ONU di lanciare un’operazione di pacificazione nelle regioni in cui c’era un conflitto previo, fornendo delle prove inconfutabili.
Che dire della difesa da parte ucraina del proprio territorio, dell’invio di armi all’Ucraina da parte di diversi Paesi, compresa l’Italia, delle sanzioni alla Russia?
Dato ciò che abbiamo detto prima l’Ucraina ha diritto di difendersi, usando forza letale se necessario, perché si tratta di un’aggressione fisica ingiustificabile. Tuttavia, l’Ucraina deve limitarsi a difendere il proprio territorio, e non deve mirare direttamente a causare danni fisici o economici alla popolazione russa non combattente o a indebolire la potenza militare Russa, o a cambiare il regime politico nel Cremlino, a meno che queste azioni non siano necessarie per effettivamente fermare l’aggressione, e fino al punto in cui siano necessarie. In più, difendersi ha senso solo se c’è una reale probabilità di vittoria: in questo caso c’è, dato l’appoggio internazionale, ma non è detto che rimarrà se il conflitto si prolunga. Bisogna essere attenti anche riguardo agli aspetti cibernetici del conflitto, e all’uso di tecnologie tradizionali ma molto sofisticate ed efficaci fornite dalla NATO, affinché venga mantenuta una certa proporzionalità, anche se a prima vista l’Ucraina lotta contro un aggressore più potente, ricco e popoloso. Per quanto riguarda le sanzioni economiche, va anzitutto fatta una considerazione generale: non si può eticamente esporre direttamente alla miseria e alla fame la popolazione di uno Stato per indebolire indirettamente un regime e le sue forze armate. La politica delle sanzioni non deve mai assumere l’aspetto di una punizione collettiva contro un popolo. Tuttavia, le sanzioni economiche possono rappresentare un’alternativa legittima al rischio di una escalation militare che, nel caso presente, potrebbe arrivare all’impiego di armi nucleari. In ogni caso, la logica delle sanzioni è che dovrebbero contribuire ad accorciare la guerra e, quindi, dovrebbero terminare prima di recare un danno grave alla popolazione non combattente; pertanto, la loro valutazione morale dovrà essere costantemente aggiornata.

Provare ad ascoltare le loro storie

Molti vedono l’emigrazione come una “invasione”, per paura ma anche per una pigrizia interiore.
Vincere i pregiudizi sui migranti, di Andrea Riccardi fondatore Comunità di Sant’Egidio.

Papa Francesco, nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, ha toccato un te-ma che oggi è di grandissima attualità in Italia, in Europa e nel mondo. Siamo in un tempo di migrazioni forzate. A lungo si è negato che quanti raggiungono l’Europa siano spinti da una situazione di grave bisogno o di drammatica necessità. Non si lascia la propria terra e la propria casa per niente. Invece è stata compiuta un’operazione difensiva, guardando questa gente da lontano e sentendoli stranieri: sì, estranei, perché africani, di altra religione, con altre abitudini rispetto alle nostre… Tanti anni fa, lo storico francese delle relazioni internazionali, Jean Baptiste Duroselle, parlò della percezione dell’emigrazione come di un’invasione”.
Questo è l’archetipo che giace nella mentalità di molti. Per paura, ma anche per pigrizia interiore. Francesco ci invita a “provare ad ascoltare le loro storie”. Non sono una massa indistinta, ma donne e uomini, bambini e anziani, provati da situazioni difficilissime, da lunghi viaggi rischiosi. Ma per il comune cittadino non è sempre facile cogliere questo con partecipazione. Vede immagini alla Tv; guarda gli sbarchi sulle coste; sa di problemi creatisi con un non italiano. Ne trae giudizi sommari che rafforzano il senso di estraneità. Qui c’è il ruolo decisivo degli operatori delle comunicazioni sociali. Qui, il significato dell’appello del Papa: «Dare un nome e una storia a ciascuno di loro».
Proprio in questo momento, con l’invasione russa in Ucraina e una guerra aperta, valutiamo l’importanza strategica dei giornalisti. Dobbiamo al coraggio di alcuni di loro informazioni e immagini preziose su aspetti inediti di questa guerra. Le vicende ucraine parlano a tutti noi, entrano nelle nostre case, ci inquietano e ci fanno pensare. Lo dobbiamo a questi coraggiosi giornalisti, che non si accontentano della propaganda di guerra o del lavoro sulle notizie di agenzia: fanno parlare la gente e toccano le situazioni più difficili. Se non ci fossero loro, oggi sarebbe caduto il silenzio sulla guerra in Ucraina, com’è avvenuto su quella in Siria, di cui si sa sempre troppo poco.
Si capisce quanto sia giusto che il Papa, ogni anno, si rivolga al mondo delle comunicazioni: il suo ruolo è strategico per accrescere la libertà e per tenere aperti i nostri oc-chi. La donna e l’uomo globali possono vedere e sapere molto riguardo alla vita del mondo, ma hanno bisogno di una chiave per orientarsi nella massa di notizie e di immagini. Se disorientati, divengono indifferenti. Francesco suggerisce una chiave: l’incontro con la storia delle persone su un tema così complesso, come quello delle “migrazioni forzate”.
Non c’è una massa uniforme, invadente e minacciosa. Lo ripeto: ci sono persone, che hanno tanto sofferto! L’invito è semplice, ma basilare: «Ascoltiamo queste storie! Ognuno poi sarà libero di sostenere le politiche migratorie che riterrà più adeguate al proprio Paese! Ma avremo davanti agli occhi, in ogni caso, non dei numeri, non dei pericolosi invasori, ma volti e storie di persone concrete, sguardi, attese, sofferenze di uomini e dorme da ascoltare». Questo aiuta a capire le situazioni da cui provengono e, d’altra parte, a sentire che sono persone come noi: mamme preoccupate per i propri figli, uomini alla ricerca d’integrazione e lavoro, bambini che aspirano a una vita serena come i nostri piccoli… tutta gente che vuole pace e non minaccia guerra, anzi la fugge.
Non sono bei pensieri astratti. Non sono nemmeno le esortazioni tipiche del Papa, cui taluni rimproverano di occuparsi degli stranieri più che degli italiani. Francesco si occupa di tutti e, in particolare, di quelli in difficoltà. E la Chiesa di cui parlò Giovanni XXIII alla vigilia del Vaticano II, che resta la stella polare del cammino dei cristiani anche nel nostro secolo: Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri. Inoltre, alzare i propri occhi, guardare i volti e ascoltare le storie di altri che vengono da terre di dolore, fa bene a loro nell’accoglienza, ma fa bene anche a noi. C’è una voglia di apertura e di accoglienza nella nostra società.
Lo abbiamo constatato con la terribile guerra in Ucraina. Gli italiani sono interessati alle vicende del conflitto, cercano di capire, offrono loro aiuto. Non era accaduto così in altre situazioni di guerra. Eppure, Mario Marazziti, nel suo libro, Porte aperte. Viaggio nell’Italia che non ha paura (Piemme), aveva mostrato come ci fossero non poche famiglie e comunità disponibili in Italia ad accogliere i rifugiati siriani, giunti coni “corridoi umanitari” della Comunità di Sant’Egidio, delle Chiese evangeliche e della Cei.
Ci troviamo di fronte a una rinnovata sensibilità di fronte ai rifugiati ucraini, che è un segnale significativo. Molti spiegano tale atteggiamento (anche a ragione) col fatto che gli italiani s’identificano con gli ucraini, che sono europei. Molte ucraine sono nelle nostre case, come badanti e colf, guadagnandosi la fiducia delle famiglie con il loro lavoro. Tuttavia l’Ucraina è anche lontana e non solo geograficamente. Paradossalmente Damasco è più vicina a Roma (2.283 km di distanza), di quanto non lo sia Kiev (2.439 km). Certo lo choc dell’invasione ci ha ridestato alla responsabilità. Ma c’è qualcosa di più. Sulla crisi ucraina non sono stati solo descritti scenari geopolitici, ma i comunicatori hanno narrato storie di donne e uomini ucraini. Hanno parlato i testimoni dei bombardamenti. Sono state intervistate donne che lasciavano il Paese con i figli. Sono state ricostruite vicende di ucraini alle prese con l’invasione e con la resistenza. Insomma, gli ucraini e le ucraine hanno acquistato un nome. Tanti volti hanno rappresentato, nel mondo della comunicazione, la dolorosa vicenda del Paese.
Per altri Paesi ci si è limitati a scarne notizie politiche, a qualche immagine magari drammatica, a qualche ricostruzione di scenario. Invece, per la bravura e il coraggio di tanti giornalisti, gli ucraini parlano ai nostri media.
Questo approccio diretto mostra quanto il messaggio di Francesco abbia colto nel segno. Così si vincono i pregiudizi sui migranti, provando ad ascoltare le loro storie. Si inizia un dialogo con loro, si entra nelle loro ragioni e motivazioni. In questo mondo globale, in cui dorme e uomini differenti s’incrociano, c’è il problema di capire l’altro, mettendosi nella sua “testa”, conoscendo la sua storia. Questa è un’opera che possono fare tutti, cui i comunicatori danno un contributo decisivo. Infatti, l’informazione globale è affollata di notizie, ma bisogna far parlare e ascoltare le donne e gli uomini, spesso umili protagonisti di vicende grandi e dolorose.

Un mondo senza pace

E’ un mondo senza pace. La Siria, lo Yemen, il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, il nord del Mozambico (Cabo Delgado), nel Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, la guerra civile nel Tigray in Etiopia. Sono ancora tanti i conflitti nel mondo: almeno 22 guerre ad alta intensità nel 2021, 6 in più rispetto all’anno precedente, quando erano 15 (dati Caritas italiana). Con l’Ucraina, purtroppo, si è arrivati a 23. Se invece si tengono in considerazione anche le crisi croniche e le escalation violente si arrivava a 359 conflitti nel 2020, tra cui quello storico e cronico tra israeliani e palestinesi. Tra il 2020 e 2021 erano già aumentate del 40% le persone che avevano bisogno di assistenza umanitaria, per un totale di 235 milioni di persone coinvolte. Il conflitto in Ucraina ha aggiunto oltre 12 milioni di persone in difficoltà all’interno del Paese – di cui 6,5 milioni sfollati interni – e più di 4,2 milioni di persone fuggite all’estero. Il punto su alcuni dei conflitti di cui non si parla più (o molto poco).

I conflitti dimenticati secondo Caritas italiana.

Siria
Il confitto in Siria dura da 11 anni e ha radici lontane. Nel corso della Primavera Araba del 2011, nell’ambito della strategia governativa di lotta contro il gruppo ribelle “Libero Esercito Siriano” (Free Syrian Army), il governo di Bashar al-Assad ha ripetutamente colpito obiettivi civili. Circa 500.000 le vittime. Più di 13 milioni di persone sono fuggite dal Paese o sono sfollate all’interno dei suoi confini. Oggi il 60% della popolazione soffre la fame, con i prezzi dei beni alimentari che sono raddoppiati nell’ultimo anno. 14,6 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Di questi, 6,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria, 2,5 milioni di bambine e bambini non vanno a scuola e quasi 800.000 sono malnutriti.

Yemen
Il conflitto in Yemen ha avuto inizio il 26 marzo 2015. Oggi la più grave crisi umanitaria al mondo, con 17,4 milioni di persone che soffrono la fame. Potrebbero salire a 19 milioni entro la fine dell’anno e hanno tutti bisogno di assistenza umanitaria. In 7 anni di conflitto tra la coalizione governativa appoggiata dall’Arabia Saudita e i ribelli Houthi filo-iraniani oltre 24.600 attacchi aerei hanno distrutto il 40% delle abitazioni nelle città, causando più di 14.500 vittime civili dal 2017.
La guerra ha costretto 4 milioni di persone a lasciare le proprie case in cerca di salvezza, 1 milione al momento si trovano nel governatorato di Marib. E’ di pochi giorni fa la notizia che il presidente dello Yemen, Abd Rabbo Mansour Hadi, ha ceduto il potere a un nuovo consiglio direttivo che negozierà una soluzione politica per porre fine al conflitto.
La decisione di Hadi segue l’entrata in vigore, il 2 aprile, di una tregua di due mesi, mediata dalle Nazioni Unite e concordata dalle parti.

Etiopia
In Etiopia si sta consumando una drammatica crisi nella contesa regione occidentale del Tigray. A marzo è stata annunciata una tregua ma una terribile carestia, e la difficoltà di accesso degli aiuti umanitari, rischia di affamare milioni di persone. Il conflitto tra il governo etiope e i combattenti affiliati al Fronte popolare di liberazione del Tigray è iniziato nel novembre 2020 e si è diffuso dal luglio 2021 in altre regioni dell’Etiopia settentrionale. Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato una campagna di pulizia etnica, con massacri, esecuzioni extragiudiziali, violenze sessuali e arresti arbitrari da parte delle forze governative, delle milizie alleate e delle forze armate eritree alleate con quelle dell’Etiopia. Il 2 dicembre 2021 l’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha dichiarato che dall’inizio del conflitto il numero dei tigrini sfollati era arrivato a un milione e 200.000. Un rapporto Onu del 9 dicembre scorso ha riferito che tra il 25 novembre e il 1° dicembre vi sono stati più di 10.000 nuovi sfollati. Circa 1,7 milioni di bambini in tutto il Tigray sono stati privati dell’istruzione in questi due anni.

Mozambico
Nel nord del Mozambico, nella provincia di Cabo Delgado, dal 2017 la popolazione è vittima di violenti attacchi da parte di formazioni di matrice jihadista che mirano al controllo delle risorse, con migliaia di morti, feriti e circa 800.000 sfollati. Nelle prime settimane del 2022, nei distretti di Meluco e Macomia meridionale, ci sono stati oltre 20 attacchi in 4 villaggi, con 2.800 case danneggiate o distrutte dal fuoco. Dalla fine di gennaio, più di 14.000 persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa dell’inasprirsi del conflitto e ancora oggi sono alla ricerca di sicurezza e beni di prima necessità.

Sud Sudan
Il Sud Sudan sta affrontando la sua peggior crisi alimentare di sempre in 10 anni di indipendenza, presto sfociata in cinque anni di guerra civile sino all’avvio di un processo di pace che nell’ultimo anno e mezzo ha fatto deboli passi avanti. Secondo un recente dossier di Caritas italiana la situazione umanitaria resta critica, con 8,3 milioni di persone in stato di bisogno; 1,4 milioni di bambini malnutriti; 1,62 milioni di sfollati e un significativo aumento di rifugiati e richiedenti asilo, pari a 2,3 milioni.

Repubblica Democratica del Congo
L’Ituri è una delle province più colpite da una violenza folle nella RD Congo, insieme al Nord Kivu, al Sud Kivu e al Tanganica. Intere famiglie – compresi bambini – sono state uccise a colpi di machete, centri sanitari e scuole sono stati saccheggiati e interi villaggi dati alle fiamme. Gli attacchi dei combattenti in tutto l’est hanno costretto intere comunità a fuggire. Perfino Medici senza frontiere è stata costretta un mese fa a sospendere le attività in due zone dell’Ituri a causa dell’insicurezza crescente. Secondo le Nazioni Unite che ci sono attualmente 5,2 milioni di sfollati nella Repubblica democratica del Congo, più che in qualsiasi altro paese eccetto la Siria. Il conflitto ha spinto 1,6 milioni di persone a lasciare le loro case solo nei primi sei mesi del 2020. Si stima che più di 3 milioni di bambini siano stati sfollati nell’est della RD Congo. Più di 8 milioni di persone soffrono di una grave insicurezza alimentare.

Mali
In Mali i jihadisti impediscono ai contadini di mietere le risaie, bruciano i loro campi e attaccano gli stessi lavoratori quando cercano di provvedere al raccolto. Secondo Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) la situazione è particolarmente instabile nella regione di Ségou, nel Mali centrale, a causa di scontri tra milizie della comunità locale e gruppo di autodifesa dei cacciatori di Donso, da un lato, e jihadisti dall’altro. Fonti locali parlano dell’esistenza di un terzo gruppo di banditi armati, difficile da identificare ma non appartenente né ai jihadisti né ai cacciatori di Donso. Dai dati Unhcr il numero di sfollati maliani interni ha superato i 400.000 alla fine di settembre 2021. I rifugiati includono sia musulmani sia cristiani, anche se il numero di musulmani supera di gran lunga quello dei cristiani, dato che quasi il 90% (88,7%) della popolazione del Mali è islamica.