La nostra vita non è retta dal caso

Per la scrittrice Susanna Tamaro se tornassimo a guardare il cosmo con la lente dell’umiltà scopriremmo un ordine profondo che è bellezza e gratuità.
Ma il nostro tempo non sa più riconoscere il mistero.

Olga, la protagonista di Va’ dove ti porta il cuore, ha più di ottant’anni. Pochi mesi dopo l’uscita del libro, ho ricevuto una telefonata di una signora molto anziana. «Come ha fatto a descrivere così profondamente la nostra età?», mi ha domandato, «non c’è una sola parola in cui non mi sia riconosciuta!». Allora avevo appena trentatré anni. Se a trent’anni ho potuto interpretare perfettamente i pensieri e i sentimenti di una persona molto in là negli anni è semplicemente perché, da quando ho memoria di me, sono sempre stata consapevole della presenza della morte. Avevo attorno a me ancora la barriera del letto infantile che già pensavo alle sponde della bara che un giorno avrebbero accolto il mio corpo. Più che stare con i miei coetanei, amavo frequentare le persone anziane. Se ero libera di fare un disegno, al posto di una casetta con i fiori, disegnavo un cimitero o la lunga e dolorosa processione di un funerale. Per mia fortuna all’epoca non avevano ancora sguinzagliato gli psicologi nelle scuole! La vita, contemplata nel suo fluire materiale, mi sembrava priva di senso. Per quale ragione avrei dovuto ripetere ossessivamente le azioni di sopravvivenza quotidiana quando, in qualsiasi istante, tutto poteva venire risucchiato nel nulla annichilente della morte? E poi, mi chiedevo, era davvero annichilente? O invece si trattava soltanto di un passaggio? A senso unico, naturalmente, perché nessuno tornava indietro, ma pur sempre un passaggio. Pur non conoscendo ancora la paleontologia, mi era abbastanza chiara l’estrema brevità dei nostri giorni. Mi guardavo intorno, vedevo tutta la magnificente e gratuita bellezza della natura e mi chiedevo: tutto questo per una sola rappresentazione e di così breve durata?
In questo modo piano piano, in punta dei piedi, l’eterno è entrato nei miei pensieri. C’è il tempo e c’è l’eterno, mi sono detta a un certo punto, e noi siamo continuamente sospesi tra queste due dimensioni. Come la luce danza con il buio, come il maschile con il femminile, così il tempo danza con l’eterno. E questa danza è il grande mistero nascosto in ogni istante della nostra vita. I volti lividi e contratti della contemporaneità, il dilagare epidemico dei disturbi psichiatrici, la sempre più estesa follia di omicidi delle persone che dovrebbero essere amate – genitori sui figli, figli sui genitori, mariti sulle mogli, compagni sulle compagne – traggono origine in buona parte dall’oblio dell’eterno. Se la nostra unica dimensione è quella del tempo, se la nostra posizione è quella di Atlante che porta il peso del mondo intero sulle sue spalle, come facciamo a non sentirci schiacciati, a non essere travolti dagli strali della follia? Alla farfalla che batte gioiosamente le ali è stata legata una palla di piombo e si pretende che continui a volare leggiadra con quel macigno addosso. Possiamo dire che la nostra società è povera?
Ricca di beni, ricca di merci ma molto povera, poverissima di visione dell’umano? Il mondo che ci ha consegnato la storia degli ultimi quattro secoli è un mondo dominato dalla razionalità. Consideriamo vero ciò che si può pesare, che si può misurare, che si può vendere e comprare, ciò che, sottoposto ai rigorosi criteri della scienza, risulta sempre assolutamente coerente. Sappiamo misurare con precisione ogni cosa ma non sappiamo più chiederci che origini abbiano le leggi che permettono all’universo di esistere. Le leggi della fisica, della chimica, della matematica, da dove vengono? Non le abbiamo inventate noi, siamo stati soltanto così genialmente curiosi e intelligenti da scoprirle. Ma quelle leggi ci precedevano. Esistevano già quando abbiamo assunto la posizione eretta. Erano tutte lì quando con fatica abbiamo articolato la prima parola attivando aree cerebrali che nessun altro animale è mai riuscito ad attivare. Senza quelle leggi l’universo, la vita che popola il nostro modesto pianeta – e probabilmente ne popola altri in qualche altra galassia – non avrebbe preso forma.
La nostra incapacità di leggere il cosmo attraverso la lente dell’umiltà ci fa affermare con stolida certezza che è solo il caso a reggere le redini del mondo. È questa la vulgata trasmessa ossessivamente ai nostri tempi, fin dagli anni dell’asilo. Ma basta essere anche mediamente disordinati per rendersi conto che il caso e l’ordine fanno a pugni uno con l’altro. Se io in camera mia, giorno dopo giorno, lascio le cose a caso, a un certo punto, per non venire sommersa dal caos, sono costretta a perdere diverse ore del mio tempo per riportare l’ordine. Cioè per rimettere ogni cosa nel luogo che fin dall’inizio le era riservato. Il caso insomma genera caos. Sarà ancora una volta un “caso” che le parole caos, caso e cosa – vale a dire, la pura materialità – siano in realtà termini anagrammatici? Certo, nei fenomeni fisici compaiono anche dei momenti di caos – le grandi catastrofi naturali, i vicoli ciechi evolutivi – ma credo si tratti in qualche modo della straordinaria creatività della forza vitale, la via scelta per riportare l’ordine, aprire nuovi orizzonti o chiudere storie che non avevano più senso di esistere. Se così non fosse, il nostro mondo non sarebbe diverso dal perfettissimo meccanismo di un orologio. Perfettissimo e noiosissimo, perché privo di elementi di innovazione e del fondamentale principio del libero arbitrio. Per contro, basta fare una passeggiata in un prato nel mese di aprile, per rendersi conto che l’energia della vita è dominata da un minuzioso ordine. I bombi visitano fiori che le api non sfiorano neppure, e viceversa, perché la diversa lunghezza delle loro lingule li rende atti a frequentare con successo una specie piuttosto che un’altra. I tarassachi splendenti come piccoli soli, le soldanelle, le pervinche, gli anemoni, i crochi ci parlano di un mondo che non è solo ordine, ma anche armonia, bellezza. E la bellezza ha una caratteristica imprescindibile: colpisce profondamente il nostro cuore. Inoltre non si può vendere né comprare, neppure misurare. È assolutamente gratuita. […]
Per la nostra specie la mezzanotte è scoccata, come per Cenerentola. Abbiamo versato lo spumante e stiamo avvicinando le labbra al calice per bere il primo sorso. Ci riusciremo? Riusciremo a berne un altro e magari un altro ancora? Siamo comparsi sulla scena del mondo con un cambiamento climatico, sarà per le stesse ragioni che ce ne andremo? La nostra piccola meravigliosa Terra si trova in un equilibrio estremamente precario.
Non occorre essere degli ideologi catastrofisti per affermarlo, basta semplicemente fermarsi lungo un corso d’acqua e accorgersi che in quell’acqua non c’è più vita o che semplicemente non c’è più l’acqua. Basta osservare la silenziosa ecatombe degli anfibi, l’inarrestabile strage delle api. La Terra ci sta chiedendo disperatamente di riattivare la profonda, calda e vivificante energia del nostro cuore, di purificare il nostro sguardo rendendolo nuovamente capace di distinguere con chiarezza ciò che è necessario da ciò che non lo è. Ci sta implorando di sostituire il frastuono con il silenzio perché solo il silenzio è capace di generare nuovamente parole ricche di senso. Riusciremo a godere di quelle deliziose bollicine oppure lasceremo che siano i topi a tuffarsi nelle coppe di champagne? Ancora una volta, la scelta dipende da noi.

Ritagli di riflessione – Lettera enciclica “Laudato sì”

IV. IL MESSAGGIO DI OGNI CREATURA NELL’ARMONIA DI TUTTO IL CREATO

84. Insistere nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio. La storia della propria amicizia con Dio si sviluppa sempre in uno spazio geografico che diventa un segno molto personale, e ognuno di noi conserva nella memoria luoghi il cui ricordo gli fa tanto bene. Chi è cresciuto tra i monti, o chi da bambino sedeva accanto al ruscello per bere, o chi giocava in una piazza del suo quartiere, quando ritorna in quei luoghi si sente chiamato a recuperare la propria identità. 85. Dio ha scritto un libro stupendo, «le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo».[54] I Vescovi del Canada hanno espresso bene che nessuna creatura resta fuori da questa manifestazione di Dio: «Dai più ampi panorami alla più esili forme di vita, la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza. Essa è, inoltre, una rivelazione continua del divino».[55] I Vescovi del Giappone, da parte loro, hanno detto qualcosa di molto suggestivo: «Percepire ogni creatura che canta l’inno della sua esistenza è vivere con gioia nell’amore di Dio e nella speranza».[56] Questa contemplazione del creato ci permette di scoprire attraverso ogni cosa qualche insegnamento che Dio ci vuole comunicare, perché «per il credente contemplare il creato è anche ascoltare un messaggio, udire una voce paradossale e silenziosa».[57] Possiamo dire che «accanto alla rivelazione propriamente detta contenuta nelle Sacre Scritture c’è, quindi, una manifestazione divina nello sfolgorare del sole e nel calare della notte».[58] Prestando attenzione a questa manifestazione, l’essere umano impara a riconoscere sé stesso in relazione alle altre creature: «Io mi esprimo esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo».[59]

Si può sperare solo insieme

Il tempo scorre inesorabilmente, un altro anno è passato, ed ecco ne inizia uno nuovo, al quale quasi sempre leghiamo attese, speranze; ma soprattutto, rimandiamo all’anno che inizia ciò che dovevamo fare e non abbiamo ancora fatto. Anche questo però dipende dalle stagioni della vita che viviamo, perché con il passare degli anni si impone sempre più davanti a noi il principio della realtà: e così siamo posti di fronte alle difficoltà incontrate, ai progetti caduti nel vuoto, a sogni che si mostrano illusori, a fallimenti ineludibili… Vengono inoltre meno le energie e gli entusiasmi della giovinezza e appaiono le tentazioni, prima sconosciute, connesse al crescente cinismo. Così il passare del tempo ci opprime, «non abbiamo più tempo», ripetiamo spesso, anche a causa della dittatura dei tempi della tecnica e dell’informatica, e finiamo per non vivere più nel tempo ma nell’accelerazione del tempo. Abitare il tempo significa invece abitare ciò che viviamo, ritrovare il senso della durata, darsi tempo per guardare indietro, in avanti, e dunque per considerare con sapienza il presente, assumendo la realtà: in una parola, siamo chiamati a fare del tempo il luogo, lo spazio della vita. Ed ecco che allora, finalmente, il tempo si manifesta come il senso della vita. Si tratta perciò di combattere l’alienazione creata all’idolo del tempo che ci domina: non solo nella forma del “non avere tempo” ma – come si dice con superficialità – nella convinzione che “il tempo è denaro”, generatore simbolico di tutti i valori e perciò non più mezzo ma fine che determina i bisogni e la produzione per soddisfarli. La sapienza afferma: «Impara a contare i tuoi giorni e il tuo cuore discernerà la sapienza». Sì, ci è chiesto di contare i giorni, cercando di rispondere alla prima domanda presente nel grande codice della Bibbia: «O terrestre, dove sei?». Dove sei nel tuo cammino di umanizzazione, dove sei nel rapporto con gli altri, dove ti collochi nella società umana? Il solo fatto di essere vivi è una benedizione, è ciò di cui essere grati al mondo, perché la cosa più importante nella vita è la vita stessa. La fine di un anno è dunque l’ora per dire: «Al passato, grazie; al futuro, sì!». E lo scambio degli auguri non sia un gesto formale e scaramantico ma ci porti ad assumere una precisa responsabilità e a rivestirla di impegni concreti: sappiamo dare finalmente alla fraternità il suo ruolo decisivo, in modo che libertà e uguaglianza possano, grazie a un tale fondamento, essere davvero instaurate nella società? Rinasca la solidarietà tra tutti noi appartenenti all’unica umanità, una solidarietà tra generazioni e tra popolazioni diverse. Così sapremo impegnarci per affrontare a livello globale i problemi che opprimono l’umanità: cambiamenti climatici, guerre, migrazioni, violazioni dei diritti umani… Si tratta di sperare contro ogni speranza: ma si può sperare solo “insieme”, mai da soli, mai senza l’altro.

Monastero di Bose

E il verbo disse: “Uomo di che pasta sei fatto”

In Gesù Cristo Dio ha vissuto l’esperienza dell’umano dal di dentro, facendo avvenire in sé l’alterità dell’uomo. Scrive Ippolito di Roma: “Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)”. Gesù di Nazaret ha narrato, spiegato, visibilizzato Dio nello spazio dell’umano: “Ecce homo! Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Ha dato sensi umani a Dio consentendo a Dio di fare esperienza del mondo e dell’alterità umana e al mondo e all’uomo di fare esperienza dell’alterità di Dio.
La corporeità è il luogo essenziale di questa narrazione che rende l’umanità di Gesù di Nazaret sacramento primordiale di Dio. Il linguaggio di Gesù e, in particolare, la parola, ma poi i sensi, le emozioni, i gesti, gli abbracci e gli sguardi, le parole intrise di tenerezza e le invettive profetiche, le pazienti istruzioni e i ruvidi rimproveri ai discepoli, la stanchezza e la forza, la debolezza e il pianto, la gioia e l’esultanza, i silenzi e i ritiri in solitudine, le sue relazioni e i suoi incontri, la sua libertà e la sua parrhesía, sono bagliori dell’umanità di Gesù che i vangeli ci fanno intravedere attraverso la finestra rivelatrice e opaca dello scritto.
E sono riflessi luminosi che consentono all’uomo di contemplare qualcosa della luce divina. L’alterità e la trascendenza di Dio sono state evangelizzate da Gesù e tradotte in linguaggio e pratica umana.
È la pratica di umanità di Gesù che narra Dio e che apre all’uomo una via per andare verso Dio. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio unigenito … lo ha raccontato ” (Gv 1,18), rivelato una volta per tutte, in modo ultimo e definitivo.
Per questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei vangeli da parte chi è stato coinvolto nella sua vicenda, i discepoli, divenuti “servi della Parola” (Lc 1,2); solo attraverso questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a confessarlo “Signore”, “Figlio di Dio”, “Salvatore”, e così giungere alla fede in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero.
Ecco perché ritengo sia un grave rischio per i cristiani quello di “deificare” Gesù prima di conoscerne la concreta esistenza umana. Se infatti non si conosce l’umanità di Gesù, attraverso i vangeli, si finisce per credere in lui come a una realtà da noi immaginata e costruita.
Nell’uomo Gesù la condizione di Dio ha subito uno svuotamento: colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio (cf. Fil 2,6-7), e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo “fino alla morte, anzi alla morte di croce” (Fil 2,8)! La sua condizione di Dio è stata per così dire “messa tra parentesi”, e Gesù è stato uomo, uomo come noi, soggetto alla nostra limitata condizione mortale.
Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile, esattamente come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato nella storia come uomo, pienamente uomo: un uomo capace di fare della sua vita un capolavoro d’amore.
In risposta a questa umanizzazione di Dio in Gesù Cristo, la fede è un atto umano.
È un atto della libertà umana, un atto vitale di tutta la persona, un atto che implica l’entrare in una relazione ed è un atto in divenire, che avviene e si snoda nel tempo.
Essa è innanzitutto fiducia, fiducia nella vita, fiducia negli altri. Fiducia nell’umano che è in ogni uomo e in cui consiste l’immagine e la somiglianza con Dio.
Umano che, come immagine di Dio nell’uomo, è dono, e come somiglianza, è responsabilità dell’uomo.
Nella sua prassi di umanità Gesù ha saputo destare, creare fiducia e così generare alla vita e dare vita. Nei suoi incontri egli suscitava la soggettività delle persone che incontrava e valorizzava la loro umanità, il loro volto e il loro nome, cioè le manifestazioni della loro unicità e irripetibilità.
Quante volte ha detto: “La tua fede-fiducia ti ha salvato!” (Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42; cf. anche Mt 8,13; 15,28).
Declinare oggi la fede come cammino di umanizzazione e come cammino della fiducia e del senso è il compito richiesto ai cristiani.
Compito nuovo e antico al tempo stesso: raccontare Dio agli esseri umani attraverso una pratica di umanità improntata all’umanità di Gesù di Nazaret.

Enzo Bianchi

Il passaggio dall’individuo alla comunità

L’unica salvezza della società, della cultura e dell’economia di Filippo Santoro arcivescovo di Taranto

(…) Vogliamo soffermarci per offrire a tutti, e non solo ai cattolici, un contributo di pensiero e di azione che nasce dalla Dottrina sociale della Chiesa e dal magistero di Francesco. La Laudato si’ e la Fratelli tutti contengono un’originalità che permette un approccio nuovo alla questione ecologica, pur partendo dal dialogo con interlocutori non cattolici come il patriarca Bartolomeo e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb.
In un recente scritto Francesco afferma che «nel momento attuale vedo l’ora della verità». E parla della grave crisi sanitaria in cui tutto il mondo è messo alla prova: «In questi tempi difficili traggo speranza dalle ultime parole dette da Gesù nel vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fi-ne del mondo” (Mt 28,20)». Inoltre, il Papa mette in rilievo il confronto tra due realtà: ciò che afferma la comunità scientifica e la cul-tura dello scarto che produce una economia che ammazza. Esattamente dice che la «Laudato si’ mette in relazione il consenso della comunità scientifica con la dimenticanza di chi siamo, quel rifiuto di noi stessi in quanto creature di un Creatore che ci ama, che per conseguenza ci porta a vivere non nella sua creazione ma contro di essa».
Si uniscono cosi il contributo della maggioranza della comunità scientifica sui cambiamenti climatici e le ferite del nostro tempo, cui viene incontro la sapienza del Vangelo. Nell’udienza del 16 settembre 2020 il Papa afferma: «Qual è l’anti-doto contro la malattia di non prendersi cura della casa comune? È la contemplazione. “Quando non si impara a fermarsi ad ammirare e apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli” (LS 215). Anche si trasforma in oggetto di “usa e getta”. Tuttavia, la nostra casa comune, il creato, non è una mera “risorsa” che può essere sfruttata a nostro bel piacimento. Le creature hanno un valore in sé stesse e “riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio” (Catechismo della Chiesa cattolica, 339)». E aggiunge: «Chi sa contemplare, più facilmente si metterà all’opera per cambiare ciò che produce degrado e danni alla salute. Si impegnerà a educare e promuovere nuove abitudini di produzione e consumo, a contribuire a un nuovo modello di crescita economica che garantisca il rispetto per la casa comune e il rispetto per le persone. Il contemplativo in azione tende a diventare custode dell’ambiente». Il contenuto del secondo capitolo della Laudato si’ è tutto contemplativo; è di carattere biblico e teologico, e si coniuga con il terzo capitolo che è di spessore filosofico. Il semplice titolo di questo terzo capitolo, La radice umana della crisi ecologica, indica che l’essere umano è la causa principale dell’inquina-mento e del cambiamento climatico. Ciò sorge da una ragione più profonda che consiste nel «paradigma
tecnocratico dominante» (LS 101) che, a sua volta, nasce da un antropocentrismo esagerato, da una concezione prometeica della tecnica e dello sviluppo, che il Papa chiama «eccesso antropocentrico» (LS 116). In tale concezione «l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto» (LS 117). Così si sviluppa un atteggiamento predatorio verso la realtà, invece di esserne colui che la coltiva e la custodisce.

Rispetto per la casa comune e per le persone.

Di fronte a tale situazione occorre una cultura ecologica che dovrebbe essere «uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma a una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico» (LS 111). In questa prospettiva il Papa riprende la critica di Romano Guardini nei confronti di una tecnologia separata dalla coscienza e da ogni altro valore. E sembra echeggiare elementi della critica della civiltà occidentale della Scuola di Francoforte. Il Papa indica, quindi, l’urgenza di passare da una cultura “ego-centrica” a una cultura “eccentrica”, che ha il centro fuori di sé e che considera la vita come dono. E questo riguarda vari aspetti: la Dottrina sociale con il primato del-le periferie e dei poveri; la cultura dove il centro non è più l’io ma l’altro. Una sintesi di tutti questi aspetti è data nel secondo capitolo della Fratelli tutti, quando Francesco presenta l’icona del Buon samaritano. E qui troviamo, nella forma più chiara, il superamento dell’individualismo ormai stigmatizzato come il male del nostro tempo anche da molta cultura laica. Tutti invocano il passaggio dall’individuo alla comunità come l’unica salvezza della società, della cultura e dell’economia. Questo aprirsi della crosta dell’io, nella visione di un dialogo plurisettoriale mediante una con-versione epistemica, costituisce la proposta dell’ecologia integrale che è il centro della Laudato si’. E davvero complesso il dialogo con i dati delle varie scienze, ma la Chiesa ha sempre sostenuto che è possibile un modo non paternalista, né integrista e razionalmente valido di produrre un discorso etico pubblico insieme a non credenti e credenti di altre religioni per la cura della casa comune (cfLS 63-64). Nel contesto di questo dialogo si collocano alcune affermazioni del quarto capitolo della Laudato si’: «Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati». Si giunge così alla celebre affermazione che aiuta a impostare nel modo giusto il conflitto tra ambiente e lavoro: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (LS 139) . Occorrono nuovi stili di vita. Per questo ci viene incontro l’icona eloquente del Buon samaritano, che ci spinge alla cultura della cura nei confronti dei fratelli feriti e della casa comune.