Settima sociale di Trieste – La radicalità dell’incontro

Il potere si concentra attorno a un nemico». Così sentenziava Carl Schmitt nel cuore di tenebra del Novecento. Osservazione molto “realistica”, verrebbe da dire “saggia”. Lo si può riscontrare tutti i giorni: sembra che la politica non riesca a emanciparsi da questo tic di cercare sempre un nuovo nemico, qualcuno da contrastare, qualcuno su cui scaricare tutte le colpe. È l’assunzione della responsabilità altrui, è lo “scarica barile”, sport in cui gli esseri umani spesso si rivelano dei campioni, dai tempi di Adamo che scaricò su Eva ed Eva sul serpente, ma entrambi in fondo scaricavano su Dio («la donna che tu mi hai messo a fianco…»). Dalla saggezza della sentenza schmittiana il cristiano è provocato nella sua consapevolezza di essere chiamato da un’altra saggezza che viene da Dio. Forte della sua fede paradossale per cui «Cristo crocifisso è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per chi crede è potenza, sapienza di Dio!» (1 Cor 1, 23-24.), il cristiano è un uomo abitato dalla speranza, cosa ben diversa dall’ottimismo. Quindi non crede fino in fondo che la seduzione del potere, a cui tutti gli uomini sono sottoposti, possa arrivare a rinchiudere tutta la realtà sociale e politica in quel circolo vizioso che porta inesorabilmente alla lotta, alla violenza, alla guerra. E contrappone a quella frase un’altra, pronunciata venti secoli prima, in un altro cuore buio della storia apparentemente “tranquillo”, ma la pax romana di Augusto era tutto tranne che vero sviluppo e trionfo della giustizia e della pace; ed è una frase che fu detta sopra un monte non lontano dal piccolo lago di Tiberiade, in una provincia periferica del grande impero romano, e suona come uno schiaffo in faccia ancora oggi: «Amate i vostri nemici». Il dilemma, il bivio, è ancora questo, oggi. Quale strada intraprendere? La logica dell’amico-nemico, consapevoli che poi di amici ne rimarranno ben pochi, o quello dell’“amore politico” di cui parla Papa Francesco nella Fratelli tutti e che parte dal fatto che «riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie» (ft 180). Di fronte a questo bivio si trova, forse oggi più di ieri, la coscienza del cristiano chiamato ad essere “sale della terra” e vivere la dimensione politica con passione ed intelligenza profetica ricordandosi sempre del ribaltamento del Vangelo che rovescia la logica del potere declinandola nel servizio. Questa chiamata è urgente oggi forse più di ieri, perché si assiste quotidianamente alla crisi acuta della democrazia che rivela un «cuore ferito» come ha detto il Papa il 7 luglio a Trieste concludendo i lavori della 50ª Settimana Sociale. In quel discorso, denso e appassionato, il Papa ha affermato che «la democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare». Se ritorniamo a partecipare la democrazia assomiglierà, dice il Papa, «a un cuore risanato». Parole precise, puntuali. Le cose infatti non vanno in quella direzione: i leader politici appaiono intenti non tanto a dialogare con il popolo, quanto invece a parlare alle proprie “curve”, alla propria tifoseria. Da qui la polarizzazione estrema che si verifica, anche a livello elettorale, in cui i poli si contrappongono radicalmente e al tempo stesso si “spalleggiano”, ognuno fa da sponda all’altro e si avvia un circolo vizioso che innalza a livello incandescente i toni dello scontro e produce un effetto respingente nei confronti del popolo sempre più distante e disgustato dallo scenario politico. Tutto questo produce infine l’indifferenza che, come ricorda in modo tagliente il Papa, «è un cancro della democrazia, un non partecipare». Alla radicalità dello scontro che emerge in ogni occasione, dalle aule del Parlamento ai dibattiti nei talk show televisivi, fino ad arrivare alla violenza cieca e assassina come quella esplosa pochi giorni fa negli Usa, il cristiano è chiamato a rispondere con un’altra radicalità: la radicalità dell’incontro. Alla demonizzazione dell’avversario visto come un nemico da abbattere, un male (una “zizzania”) da estirpare, il cristiano è chiamato a proporre un altro stile, che faccia prevalere il tempo sullo spazio, che sia dunque “radicalmente moderato”, non per introdurre un “moderatismo”, come se fosse un’ideologia contrapposta alle altre, ma appunto come stile che fa dell’incontro, dell’ascolto e del dialogo, la sua ragion d’essere. Ricondurre la politica nel suo alveo originale, come “organizzazione della speranza”, per dirla con La Pira, citato insieme ad Aldo Moro nel discorso di Trieste. Quell’Aldo Moro così radicale nel suo cercare di moderare, mediare, fare sintesi verso l’alto e verso l’altro, a favore dell’altro, che ha pagato con la vita quella sua radicalità. È la radicalità del Vangelo che impone ai cristiani di essere miti, parola più giusta di “moderati”, uomini che con passione e con tenacia credono che la via del dialogo possa risanare il cuore ferito della democrazia.

di Andrea Monda

Riflettere sull’accoglienza

La resistenza nei confronti dell’estraneo.

La tendenza a incasellare, ridurre a dato dominabile, acuisce la resistenza nei confronti dell’estraneo. Ciò che non conosciamo ci spaventa e preferiamo respingerlo o relegarlo in uno spazio recintato, tenuto distante dai luoghi della vita comune; o portarlo altrove, quasi fosse un oggetto da collocare dove può disturbare di meno la nostra tranquillità. Salvo poi accorgerci che degli stranieri, dell’estraneo abbiamo bisogno per far andare avanti la nostra economia.
Il dibattito che in questi giorni si sta svolgendo nel nostro paese sullo ius scholae è quanto mai significativo. Una misura necessaria, anche se ancora osteggiata, che in alcuni discorsi lascia trasparire però una idea di accoglienza e di integrazione non priva di ombre. C’è sicuramente il prendere atto di una necessità che si impone per la sostenibilità socioeconomica e il futuro del nostro paese, ma rimane sullo sfondo la convinzione che chi arriva non può e non deve “contaminare” il nostro modo di essere e di concepire la vita. Il percorso scolastico richiesto per il conferimento della cittadinanza rischia di avere il sapore di un inquadramento dalla funzione rassicurante in ordine alla salvaguardia della nostra italianità. Ma se è fuor di dubbio che la conoscenza del paese dove si va a vivere, della sua cultura, della sua storia e soprattutto della sua lingua contribuisce a sentirsene parte, ed è assolutamente da favorire, è altrettanto vero che questo non può significare assumerne la forma come una sorta di vestito destinato a coprire o addirittura a neutralizzare l’identità culturale che ciascuna persona immigrata porta con sé. Non si può chiedere allo straniero di smettere di essere tale per poter diventare italiano. Le migrazioni sono da sempre dentro la storia dei nostri paesi e delle nostre culture mediterranee. E hanno contribuito con il loro apporto culturale a plasmare il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare. È lo scambio, la contaminazione reciproca che costruisce le culture; nei fatti prima ancora che nell’ordine di una enunciazione di principio. Perché allora temerlo?
Gli stranieri che ci affanniamo a tenere ai margini, spesso con un assurdo dispendio di forze e di soldi, ci restituiscono alle nostre radici che non hanno nulla della purezza invocata e strenuamente difesa in quanto sono piuttosto all’insegna di contaminazioni sedimentatesi nel tempo, di un meticciato che ci definisce profondamente.

Una storia da costruire insieme.

Lo straniero da accogliere e riconoscere parte delle nostre comunità è già dentro la storia dalla quale veniamo. Ma è anche dentro la storia verso la quale andiamo, il futuro da costruire, che ci piaccia o no. L’interdipendenza tra i paesi e i popoli è un dato di fatto da cui non è possibile prescindere. Le grandi sfide del nostro tempo, dai cambiamenti climatici alle crescenti disuguaglianze, dalla globalizzazione tecnocratica ai conflitti dilaganti oltre i confini
regionali e l’urgenza della pace, ci pongono dinanzi alla necessità di riconoscerci in una comunità di destino perché di fatto ci accomunano nell’impossibilità di soluzioni isolate o della delimitazione di zone protette.
Ma la storia che ci attende dovrà essere scritta insieme se non si vuole che progetti e disegni siano cancellati dall’incalzare degli eventi come dall’urto di un’onda in piena. Non si può più pensare nella logica di culture dominanti tali da dettare il passo al resto del mondo. E non si può neppure immaginare di gestire i rapporti con i paesi del Sud del mondo attraverso progetti di assistenza o di presunta cooperazione allo sviluppo più funzionali in realtà ai paesi occidentali, ai loro interessi economici (o al controllo delle loro frontiere) che non all’effettivo superamento di condizioni di fragilità e di vulnerabilità.
Le migrazioni che ci sforziamo di tenere ai margini sono portatrici di una domanda di riconoscimento prima ancora che di assistenza. Ed è questa domanda che deve poter dar sostanza all’accoglienza. Si tratta di creare le condizioni per una conoscenza reciproca, di imparare a conoscere e rispettare la cultura e la fede dell’altro in un’accoglienza che deve potersi costruire come mutua accoglienza e come mutuo riconoscimento, lasciando cadere ogni pretesa di assimilazione; aprendo invece al senso dell’autentica prossimità che è nel sentirsi parte di una vicenda comune, essendo e rimanendo diversi. A chi viene da un altro paese non deve essere chiesto di dimenticare le proprie radici, quanto piuttosto di sentirsi pienamente parte dei luoghi e della storia in cui si inserisce e che contribuisce a costruire. Si diventa prossimo nella piena condivisione, imparando a ricercare e a disegnare insieme le strade da percorrere per il bene di tutti. Vale per i singoli paesi come per il mondo globalmente inteso. In tal senso la scuola, quale spazio creativo di educazione al pensiero critico e alla libertà, può divenire la forma istituente di un processo di integrazione inclusivo.
È questa, ci pare, la prospettiva in cui muoversi con decisione, per superare la sfiducia crescente nella guerra di tutti contro tutti, aprendo percorsi di autentica umanità.

Tratto da “Dialoghi” – Azione Cattolica Italiana – di Pina de Simone.

Omologazione e superficialità nei social

Il rapporto social-minori espresso recentemente dalla massima Autorità sanitaria americana che si occupa di salute pubblica dovrebbe essere considerato una pietra angolare di una nuova attenzione collettiva. Ma, passato il clamore delle prime reazioni, è probabile che anch’esso venga metabolizzato. E però, preziosi sono tutti i contributi che mirano a richiamare la responsabilità e la consapevolezza collettive.(…) E se è vero che per buona parte della popolazione mondiale la questione a tema è l’accesso stesso al web, è altresì vero che i social hanno permeato ormai l’intero pianeta, con condizionamenti di cui si è poco consapevoli e con la sollecitazione continua di contrapposizioni, divisioni, odio sociale. La questione si fa più seria quando si parla di nuove generazioni, più attrezzate tecnicamente ma molto meno attrezzate culturalmente a fronte dell’abdicazione educativa più o meno sconsolata praticata da tanti. A dire il vero l’impatto delle nuove tecnologie, mediatiche e non solo, sugli adolescenti sta diventando un tema sempre più centrale (…) Peraltro, l’enfasi viene posta per lo più sui mezzi (ad esempio, i social) piuttosto che sui contenuti, cioè sul tipo di cultura che tali mezzi veicolano. È lo stesso errore che diversi decenni fa si realizzò con il passaggio dalla televisione generalista alle diverse piattaforme a pagamento e no. Inebriati dalla novità e dall’ampliarsi improvviso e imponente dell’offerta di contenuti audiovisivi si disse che ogni pericolo di omologazione o di impatto di contenuti nocivi sui minori veniva a cadere perché finalmente c’era la possibilità quasi illimitata di cambiare, di scegliere qualcos’altro. Senza accorgersi, (scarsa attenzione o scelta intenzionale) in realtà, che dal punto di vista della crescita equilibrata dei ragazzi, i contenuti che si rendevano disponibili sulle diverse tv (a pagamento e non) erano sostanzialmente gli stessi, farciti di parole e comportamenti aggressivi oppure di edulcorate rappresentazioni della realtà (indirizzate per lo più alle bambine). E malgrado l’impegno di centinaia di istituti di ricerca in tutto il mondo che formulavano allerta circostanziate sulla base di migliaia di studi convergenti, le nuove tecnologie mediatiche seguirono indisturbate il loro corso, contribuendo a rafforzare quanto di violento e protervo ci fosse nelle pieghe della società, da una parte, e, dall’altra, coltivando una visione evasiva, inconsistente, ottusa. (…) Recentemente una delle influencer più seguite ha postato una sua foto abbigliata con un niente; confortante che una ragazzina abbia postato una presa di posizione decisa con la domanda rivolta all’influencer se quella foto fosse un invito alle ragazzine a fare altrettanto. Ma quante altre si saranno confrontate nel chiuso della loro cameretta con lei, assumendo la stessa posa e avvertendo la propria inadeguatezza come se il problema fosse essere “non abbastanza esibibili”? I social, di cui si favoleggiava decenni fa fossero un mezzo per una maggiore partecipazione sociale sono diventati invece lo specchio stregato di un’estetica omologata che presuppone una gran cura (e dunque una sostanziosa spesa) e si impone su ogni altro interesse. Una superficialità, che investe anche quella ridotta quota di giovani che si interessa di politica: per fare un esempio, quando alcune ragazze a favore( sic!) della gravidanza per altri (Gpa) la sostengono recitando vecchi slogan degli anni Settanta (“l’utero è mio”) si rendono conto che la Gpa è proprio l’alienazione dell’utero femminile che diventa di chi ha i soldi per affittarlo? E che stanno gridando qualcosa che è esattamente il contrario di quello che vogliono o che credono di volere? Quanta superficialità affligge questo cambiamento d’epoca… Lavoriamo con speranza insieme perché i media, come ha detto recentemente Papa Francesco, ci aiutino a comprendere l’unità della famiglia umana.

La fede superstiziosa che abita i social network

Pagine apparentemente cristiane diffondono post che hanno a che fare più con il magico che con il sacro.

Sui social network capita di imbattersi in pagine che promuovono un cristianesimo dai risvolti superstiziosi. Queste, talvolta parecchio seguite, pubblicano post con immagini sacre rielaborate per attirare l’attenzione e accompagnate da frasi, come quello del profilo su Facebook “Dio è con Noi” in cui a fianco di un’immagine del Cristo della Misericordia c’è un cuore, sormontato da delle rose, con sopra scritto in modo minaccioso: «Tu, che adesso hai il telefono in mano, se passi senza ringraziare Gesù, domani potrebbe essere troppo tardi». Come fare per rendere grazie al Signore? Sotto c’è l’indicazione, accanto al disegno di una mano che tiene un cellulare: «tocca il pulsante di whatsapp e dichiara Amen». Il post è seguito appunto da un tasto della diffusa app di messaggistica che serve per iscriversi a una chat della community della pagina. Come spiega Paola Springhetti, che insegna Giornalismo alla Pontificia Università Salesiana, questo invito serve a «far aumentare il numero delle interazioni con il post e quindi a far sì che l’algoritmo di Facebook lo ritenga interessante e continui a farlo vedere nelle bacheche virtuali». Ma dal punto di vista religioso il problema è il tono imperioso e superstizioso della frase, analogo a quella in un altro post dove si vede santa Rita in un letto di rose: «Santa Rita verrà a trovarti oggi. Porterà via tutto il tuo dolore, le preoccupazioni e le paure, e benedirà tutti coloro che toccano l’immagine e scrivono Amen». Insomma, si combina la devozione con il ricatto digitale. Un altro esempio segnalato nell’articolo mostra una raffigurazione retrò della Madonna, con vestiti rosa e azzurro e occhi chiari, accanto alle scritte «Madonna delle Lacrime, in questo momento difficile per il mondo, asciuga le nostre lacrime. Amen» e «Non scorrere senza condividere la Madonna delle Lacrime. Porta solo bene». Una manifestazione di pietà popolare viene dunque usata per alimentare la credenza che condividere un’immagine su un social network porti “solo bene”. Sostanzialmente, la Madonna viene equiparata alle coccinelle e ai quadrifogli. Il pensiero superstizioso che sta alla base di questi meccanismi è lo stesso di quello delle catene di sant’Antonio, degli oroscopi, dell’astrologia, dell’usanza di gettare una moneta in una fontana o in un pozzo. D’altronde, i social sono lo specchio di una parte della realtà e, quindi, vi rientrano anche queste espressioni magiche con cui la gente cerca consolazione, sicurezza, speranza. Le migliaia di like e condivisioni ci ricordano come nella fede, come nella vita, molte persone si lascino guidare da istinti irrazionali e irragionevoli.
Nel rapporto del 2021 del Censis sulla situazione sociale del Paese si legge: «Di fianco alla maggioritaria società ragionevole e saggia, si leva un’onda di irrazionalità, un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà circostante». Per credere nel Dio della Sacra Scrittura non bisogna lasciare spazio alle superstizioni.

Presentazione del messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale di preghiera per la cura del creato

Pretendere di possedere e dominare la natura è una forma di idolatria

Siamo credenti non perché abbiamo fede in qualcosa di trascendente che la nostra ragione non riesce a capire, ma perché in noi abita lo Spirito Santo, che ha riversato nei nostri cuori l’Amore di Dio. Così, siamo stati resi liberi di vivere protesi verso i beni eterni secondo la pienezza dell’umanità bella e buona di Gesù. Questo ottimismo si fonda su una speranza viva, nonostante il dolore e la sofferenza. «Tutta la creazione è coinvolta in questo processo di una nuova nascita e, gemendo, attende la liberazione: si tratta di una crescita nascosta che matura, quasi “granello di senape che diventa albero grande” o “lievito nella pasta” (cfr Mt 13,31-33). Gli inizi sono minuscoli, ma i risultati attesi possono essere di una bellezza infinita. In quanto attesa di una nascita – la rivelazione dei figli di Dio – la speranza è la possibilità di rimanere saldi in mezzo alle avversità, di non scoraggiarsi nel tempo delle tribolazioni o davanti alla barbarie umana». Lo ha detto Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, che sarà celebrata l’1 settembre 2024. Il titolo scelto è “Spera e agisci con il creato”, perché la speranza cristiana non delude e «il gemito della creazione, dei cristiani e dello Spirito è anticipazione e attesa della salvezza già in azione». Quindi, l’armonia a cui dovrebbero puntare gli esseri umani va estesa anche al creato, perché la responsabilità per un’ecologia umana e integrale è la via di salvezza della nostra casa comune e di noi che la abitiamo. Inoltre, la liberazione dell’uomo comporta anche quella di tutte le altre creature che, solidali con la sua condizione, sono state poste sotto il giogo della caducità. Anche il creato, dunque, è soggetto alla dissoluzione e alla morte, aggravate dagli abusi umani sulla natura. Ma la salvezza in Cristo è sicura speranza anche per esso. Continua il pontefice: «Nell’attesa speranzosa e perseverante del ritorno glorioso di Gesù, lo Spirito Santo tiene vigile la comunità credente e la istruisce continuamente, la chiama a conversione negli stili di vita, per resistere al degrado umano dell’ambiente e manifestare quella critica sociale che è anzitutto testimonianza della possibilità di cambiare. Questa conversione consiste nel passare dall’arroganza di chi vuole dominare sugli altri e sulla natura – ridotta a oggetto da manipolare –, all’umiltà di chi si prende cura degli altri e del creato». Sperare e agire con il creato significa anzitutto unire le forze e contribuire a ripensare il potere umano e i suoi limiti. L’essere umano, ricordandosi che la terra gli è stata affidata, ma resta di Dio, può cambiare radicalmente atteggiamento, passando da predatore a coltivatore del giardino. «Sperare e agire con il creato significa allora vivere una fede incarnata».