Calano i fedeli praticanti

In Italia negli ultimi vent’anni il numero di chi partecipa regolarmente a un rito religioso si è quasi dimezzato.
In Italia, chi partecipa a un rito religioso almeno una volta alla settimana è circa il 19% della popolazione, mentre il 31% non frequenta un luogo di culto se non in occasioni di eventi particolari come battesimi, matrimoni e funerali. L’altra metà degli abitanti vi si reca in modo discontinuo: una volta al mese, qualche volta l’anno, nelle grandi festività. Negli ultimi vent’anni, dunque, il numero dei praticanti regolari si è quasi dimezzato dal 36% del 2001 e i non praticanti sono ormai raddoppiati, con il sorpasso che è avvenuto in un non sospetto 2018. Questi dati, riportati da SettimanaNews, provengono da un’indagine dell’Istat – la più recente, rappresentativa e attendibile che ci sia sulla pratica religiosa nel nostro Paese – e si riferiscono al 2022 (anno libero dalle restrizioni pandemiche) e a tutte le confessioni. Considerando che oggi circa il 70% degli italiani si dichiara cattolico, queste cifre possono essere considerate uno specchio del fenomeno nella Chiesa. La riduzione ha coinvolto tutte le classi di età, ma in modo molto marcato la fascia tra i 14 e i 24 anni. Il calo di adolescenti e giovani nella pratica religiosa regolare è stato addirittura di oltre i due terzi, a fronte di una diminuzione della metà tra gli adulti maturi e del 30-40% tra gli anziani. Negli ultimi vent’anni, gli adolescenti sono passati dal 37% al 12% e i giovani adulti dal 23% all’8%. La loro disaffezione alla frequentazione dei riti sacri viene da lontano, con gli anni segnati dal Covid-19 che le hanno inferto un’ulteriore accelerata. Da questa indagine, si evince dunque che l’appuntamento settimanale in un luogo di culto (per i cattolici la messa domenicale) attrae sempre di meno, con la pandemia che ha accelerato questo andamento di lungo periodo. In Italia ci sono inoltre da considerare differenze territoriali e di genere. Al Sud i praticanti regolari sono il 23% degli abitanti delle regioni meridionali, al Centro-Nord il 17% di quelli delle regioni centro-settentrionali. Poi, la frequenza costante è appannaggio delle donne per il 22% della popolazione femminile, degli uomini per il 15% della popolazione maschile. In generale, il calo della pratica religiosa coinvolge tutti i Paesi occidentali, anche con percentuali di molto superiori a queste: questo rappresenta una prova vitale per la Chiesa e ogni confessione.

Centro di ascolto Caritas parrocchiale “ Di mano in mano”

In occasione della giornata diocesana della Caritas Ambrosiana, domenica 5 novembre, pubblichiamo una breve relazione dell’anno 2023 del centro di ascolto della Caritas parrocchiale.

Nel 2023 le famiglie aiutate dal Centro d’Ascolto Caritas sono state in media una ventina (più o meno come nel 2022). La frequenza di consegna delle borse è principalmente quindicinale. Tutte le famiglie seguite risiedono nel nostro Comune. Il 50% di loro è di origine italiana. I problemi che li hanno portati al centro sono la perdita di lavoro, la mancanza di alloggio, situazioni di fragilità (fisica e psichica).
Per poter far fronte alle esigenze di queste famiglie, oltre alla raccolta mensile di offerte e alimenti presso la nostra Chiesa, riceviamo regolarmente 5 pacchi alimentari mensili donati dal gestore della mensa scolastica, 6 pasti gratuiti a pranzo, alcuni pasti serali ritirati presso la mensa “Non di solo pane” di Magenta e qualche pacco donato in occasione della colletta alimentare.
Nel mese di Ottobre in collaborazione con l’Amministrazione Comunale e i rappresentanti del palio dei rioni – che hanno distribuito l’avviso casa per casa – verrà fatta una raccolta straordinaria di alimenti presso il Centro socio-culturale di via Piave.
Come sempre il nostro grazie di cuore va a tutte le persone che con costanza assicurano il loro aiuto e ci permettono di continuare la nostra opera, facendo sentire la presenza e la vicinanza della comunità parrocchiale ai fratelli in difficoltà.

Portare i fiori ai morti

Gli alberi si spogliano delle foglie e le lasciano cadere a terra, appaiono nebbie mattutine sempre più lente a dissolversi e anche in noi emergono sentimenti velati di oscurità… È autunno inoltrato, è ora di pensare ai nostri morti. Forse per contrastare questa spoliazione in atto, che rende la terra desolata, noi rendiamo alcuni lembi di terra, i cimiteri, simili a prati primaverili in fiore, che con i loro colori trasformano un “campo santo” in una tavolozza che richiama i tramonti, con tonalità penitenziali, violacee o pallide. Resto sempre stupito da questo ripetersi fedele di gesti che si concentrano ogni anno nel giorno di domani, vigilia dei “morti”. Andiamo ai cimiteri, puliamo le tombe imbrattate dalle intemperie, portiamo fiori e anche fiammelle, per creare un’atmosfera vissuta già prima, quando eravamo tutti insieme sulla terra. Perché anche nelle tombe preistoriche troviamo sempre “fiori” accanto ai morti, deposti dai parenti, da chi dava sepoltura a chi aveva cessato di vivere? Certamente perché da sempre gli umani contraggono un debito verso i morti. Ma che cosa dobbiamo loro? Come pagare il nostro debito ora che non sono più con noi? Proprio dal sentire un debito di riconoscenza, gratitudine, scaturisce in noi il dovere di compiere un gesto, dare un segno che siamo umani dotati di memoria, capaci di ricordare e conservare fili di relazione e pepite di amore da scambiare con chi non c’è più. Se qualcosa abbiamo ricevuto dobbiamo riconoscerlo, perché chi ci ha preceduto ci ha fatto venire al mondo, ci ha fatto crescere, ci ha amato, ha significato qualcosa di buono per la nostra vita. Nessuno è esentato e non trova motivo per dire un grazie a qualcuno. Anche per portare a termine i nostri doveri verso le generazioni future occorre essere esercitati al riconoscimento dei doveri che abbiamo verso chi ci ha preceduto. Ciò che abbiamo ricevuto lo dobbiamo trasmettere… e possibilmente un po’ meglio. Chi fa tabula rasa del passato e sente la vocazione del rottamatore (attualmente tanto esercitata dalla generazione di mezzo) lascia macerie dietro di sé, e spesso continua ad agitarsi perché non riesce a vedere il deserto che si è creato intorno. Sì, ci sono alcuni che pensano di non aver ricevuto nulla, e quindi di non aver nulla da dare, ma in questa incapacità di donare e accogliere i doni ricevuti sta nient’altro che la loro disperata solitudine. Il gesto semplice di andare a scegliere un fiore, di portarlo sulla tomba e offrirlo al morto è un gesto di grande umanità, è usare un linguaggio non verbale per dire a chi non c’è più che l’amore continua, la memoria è viva, e che nel cuore c’è riconoscimento e gratitudine, l’assolvimento di un dovere. Un amico morto resta un amico sempre, un nemico morto non è più un nemico. E chi porta un fiore al cimitero spero l’abbia portato anche mentre l’altro era ancora in vita. I morti non vanno uccisi, ma neanche i vivi devono essere dimenticati.

Enzo Bianchi

Giornata mondiale della Gioventù Lisbona 2023

Siamo partiti il 1° agosto dall’aeroporto di Malpensa carichi di entusiasmo, aspettative, zaini stracolmi e segnalibri da scambiare, preoccupati di non aver portato con noi tutto il necessario per affrontare la settimana che ci aspettava.
Ignari del fatto che per vivere a pieno l’incredibile esperienza della GMG fosse sufficiente molto, ma molto meno: orecchie disposte ad ascoltare, occhi curiosi e cuore pronto ad accogliere. Ma soprattutto inconsapevoli del fatto che quello che avremmo portato a casa sarebbe stato un bagaglio molto più consistente, non da imbarcare in aereo, ma da tenere ognuno con sé.
La nostra GMG, o meglio JMJ, è stata ricca di tante esperienze e di tante parole piene di significato, sicuramente di spicco la condivisione. Vogliamo condividere con le nostre comunità alcuni pensieri su cosa ci ha donato questa esperienza, perché, come abbiamo ripetuto tutti insieme al Campo da Graça di Lisbona, noi eravamo lì “per portarlo agli altri, la gioia è missionaria!”. E così portiamo questa nostra gioia missionaria a voi.
Porto con me l’incontro con innumerevoli giovani, provenienti da luoghi vicini e molto lontani, ma senza percepire barriere.
Porto con me le preziose e semplici parole di Papa Francesco, l’invito a non avere paura di fallire, ma al contrario trovare sempre la forza di rialzarci.
Porto con me la voglia di vivere la vita con coraggio ed entusiasmo.
Porto con me i moltissimi dubbi iniziali e la paura di partire, e allo stesso tempo porto con me la riuscita di questa avventura meravigliosa che mi ha coinvolta completamente.
Porto con me l’inaspettata preghiera del rosario sul treno, con degli sconosciuti, in tre lingue differenti.
Porto con me il vero significato della parola coraggio: “alzarsi e andare in fretta”… verso Dio. Un coraggio ritrovato nelle strade, nelle piazze e nel campo della veglia, colmi di fedeli provenienti da qualsiasi parte del mondo.
Porto con me il silenzio di un milione e mezzo di giovani in ascolto, in ginocchio, in preghiera.
Porto con me la consapevolezza di non essere sola, vedendo così tanti giovani riuniti per Lui, e di avere tanti amici con cui condividere la mia fede.
Porto con me i saluti spontanei e i confronti amichevoli, il sentirsi una grande famiglia dove nessuno è escluso.
Porto con me l’invito a non temere, non avere paura, non lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà quotidiane, perché ci saranno inevitabilmente.
Porto con me il canto, risuonava in ciascuna lingua, allo stesso tempo, in ogni metro, via e piazza, con un’unica voce.
Porto con me una Chiesa che non si esaurisce nelle nostre comunità, piena di coetanei con cui condivido la stessa fede.
Porto con me un’esperienza di gioia per l’incontro con l’Altro e con gli altri, il sentirsi parte di una Chiesa giovane e motivata.
Porto con me la crescita delle nostre amicizie, divenute più solide, e i legami rinnovati nella fede.
Portiamo con noi un incontro di vita piena da custodire nel nostro cammino.

I ragazzi della JMJ di Lisbona dell’area omogenea e di Corbetta

Analfabetismo relazionale

Il cammino (….) sarà legato al tema della relazionalità, della qualità del convivere, della condivisione, della tenuta delle nostre reti sociali. Ci sembra urgente farlo perché la sensazione di disintegrazione dei corpi sociali è troppo forte e sembra poter investire anche il nostro ambito. Non si tratta di fenomeni legati all’andamento economico o finanziario, ma alla condizione psicologica in cui siamo immersi, al deficit di fiducia che getta un’ombra di scoraggiamento sul nostro agire. Proveremo a lavorare per parole chiave perché avvertiamo l’esigenza profonda di stilare un alfabeto emotivo e affettivo: si ha l’impressione, infatti di una profonda diseducazione, di una regressione evidente, di una mancanza di formazione che riguarda ormai anche gli adulti, i giovani adulti o gli adulti restii a diventare tali. Tra i molti miti che caratterizzano i nostro tempi, infatti, spicca la seduzione della chimera del forever young, causa ed effetto di una società narcisistica tenacemente legata ad una convinzione illusoria: l’infinita espansione dell’ego. Immersi nella dittatura del presente, incapaci di cogliere la tridimensionalità di rapporti cronologici con il passato e con il futuro, siamo ostaggi di un individualismo assoluto. Il rischio o il destino è vivere come monadi che vedono nell’irruzione dell’altro solo un attentato al proprio benessere. Il mito della sicurezza serve a contenere la paura di essere aggrediti, ma ci consegna all’orrore della solitudine che diventa isolamento. Tutto questo produce la sensazione di una fine della socialità. La diffusione della rete non consola: siamo esseri sociali, non social, riusciamo ad essere pienamente noi stessi all’interno di una comunità, non di una community. Come animali relazionali abbiamo davvero una necessità ontologica di collegarci, di agire sinergicamente, di ritrovarci per confrontare visioni del mondo, progettualità, reti di senso. Abbiamo bisogno, per farlo, di affidarci gli uni agli altri, di costruire alleanze e fare comunità: la finalità è vivere bene, vivere meglio, raggiungere una condizione di benessere il più possibile estesa, senza distinzioni di ceto, di appartenenze o di fedi religiose, limitando di fatto le diseguaglianze e le asimmetrie. Già in queste poche righe si scoprono parole chiave da approfondire, per esempio il termine ambiguo, ambivalente e scivoloso come comunità, il concetto di bene comune, di generosità e generatività che diminuiscono quando si saturano tutti gli spazi.
❮❮ Immersi nella dittatura del presente, incapaci di cogliere la tridimensionalità di rapporti cronologici con il passato e con il futuro, siamo ostaggi di un individualismo assoluto ❯❯

Prendersi cura delle relazioni.

Non si esercitano più le competenze relazionali essenziali che chi ha esperienza di associazionismo, di attività di terzo settore, di cittadinanza attiva sviluppa ed esercita quotidianamente: ascolto, accoglienza, capacità di mediare, gestione del conflitto, generosità, pazienza, capacità di perdonare e di riconoscere i propri errori.
Si tratta di qualità che in tempi come i nostri, che Baumann ha definito (ormai quasi 30 anni fa) liquidi, non sono più condivise, incorporate o sottintese nel sentire comune. Ne facciamo esperienza quotidiana nella vita lavorativa, negli scambi sociali, nelle scuole e purtroppo anche nelle famiglie: i legami sono liquefatti, deteriorati, volatilizzati. È all’interno della coppia il campo su cui si combattono battaglie durissime e avviene la capitolazione e la resa dei più vulnerabili, dei più indifesi, coloro per i quali la famiglia dovrebbe essere un presidio di accoglienza, di sicurezza, di crescita umana. Si fa fatica a dire noi anche quando si è solo in due, perché preferiamo la certezza dell’uno, da solo, autosufficiente. I rapporti quotidiani diventano legami percepiti come catene insopportabili, lo spazio di condivisione sembra sottrarre libertà, la crescita dei figli un’incombenza pesante e insostenibile, e non solo per questioni economiche. È in corso un’erosione grave di valori una volta tacitamente condivisi, a prescindere dalle convinzioni religiose e/o politiche o ideologiche: abbiamo difficoltà evidenti, patologie, narcisismi, egoismi, miopie, asfissia del cuore, anemia dei sentimenti. Crisi di panico o attacchi di ansia affliggono buona parte della popolazione, specie giovanile, mentre il diktat della velocità brucia in un presentismo onnivoro le esitazioni, le remore, gli scrupoli che pure sono parte integrante di una valutazione del comportamento che ha bisogno di tempi adatti. Stiamo clinicizzando la timidezza, la riservatezza, la mitezza. Prova ne sia che le voci più autorevoli e in grado di proporre una disamina dello stato attuale sono prevalentemente psicoterapeuti come Crepet o Recalcati che nelle loro analisi, affidate a testi o a interventi più brevi, provano a fornire qualche chiave interpretativa di quella che potremo chiamare catastrofe antropologica. Di fronte alla disgregazione in corso, le nostre reti relazionali capaci di tenere hanno un valore straordinario che va coltivato e nutrito; sono il tesoro più grande, che non potrà essere portato via, sono le nostre lucerne ancora accese, il nostro olio di riserva, la capacità di coltivare la fiducia.

La pazienza del laboratorio di sartoria.

La metafora della tessitura è la più adatta a rappresentare la situazione che stiamo vivendo: smagliature, strappi, lacerazioni di un tessuto sociale che non ci offre più occasioni di crescita e che, però, ha bisogno di tutta la nostra premura per essere riparato, rammendato, ricucito, con la pazienza di chi sbroglia le matasse, di chi dice “ecco, ecco” quando un nodo cede senza essere rabbiosamente strappato. Occorrono i tempi giusti e l’alacrità del lavoro del sarto, che non getta nulla, ma sa comporre e lavorare con gli scampoli. Quelli che coltiviamo nella fedeltà a un progetto, nella condivisione, sono i beni relazionali, gratuiti e senza prezzo, ma preziosi e necessari. Li abbiamo a volte senza valutarli abbastanza perché prevale la frustrazione o il disincanto. Eppure se non possiamo “cambiare il mondo” possiamo migliorare il nostro mondo. La situazione esistenziale attuale è la nostra occasione di esserci, ora e non dopo, in questo luogo e non in altri. È questo lo spazio che abbiamo per imparare a guarire, a rimediare (nel senso di mediare di nuovo) di sperimentare la creatività che solo il limite sa offrire, per agire al di qua del bordo e orlare le ferite che restano aperte trasformandole in asole per collegarsi ad altre parti. Che senza quel vuoto non avremmo visto.

di Antonella Fucecchi docente di Lettere, redattrice per molti anni di Cem mondialità, esperta di didattica interculturale.