Appunti sulla preghiera – Parte terza

Lectio divina.

Per esercitarsi all’ascolto della voce di Dio nel nostro profondo, occorre imparare a riconoscere questa sua parola nell’eco registrata nelle sante Scritture. Perché la parola di Dio è risuonata nel cuore di credenti, nella storia della salvezza, nell’alleanza tra Dio e il suo popolo Israele e di questa parola ci danno testimonianza le Scritture. Queste la contengono perché sono una certa umanizzazione della Parola, umanizzazione che sarà piena nell’umanità di Gesù, il Figlio di Dio, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14). La Bibbia e soprattutto il Vangelo contengono la parola del Signore e noi, attraverso il dono dello Spirito santo, possiamo ascoltare questa parola non umana, ma veramente di Dio (cf. 1Ts 2,13), indirizzata a noi. È un mistero grande quello delle scritture, parola umana, in lingue umane, scritte da autori umani, e nello stesso tempo libri contenenti la parola di Dio, offerta a noi quale luce per il nostro cammino (cf. Sal 119,105), come cibo quotidiano per noi viandanti verso il Regno, come promessa e speranza di salvezza. Si tratta di pregare iniziando con l’ascolto, aprendo le scritture e leggendole, frequentandole con assiduità. Lectio è il primo gradino, al quale segue quello della meditatio, del prendere cura di ciò che si è letto (medeor), di frequentare con attenzione il testo (meditor). Più leggiamo la Scrittura e la meditiamo, più essa diventa cibo da mangiare (manducatio, dicevano i medioevali) perché ci nutre e noi ne sentiamo il gusto; a volte dolcissimo, come miele, a volte amato perché ci giudica (cf. Ez 3,1-3; ap 10,8-11). Così “la parola di Dio cresce con chi la legge”, diceva Gregorio Magno, e viene compresa sempre più in profondità, in modo sempre nuovo, rendendoci addirittura abilitati alla ruminatio, al riprendere e custodire una parola nel tempo che segue la lettura. Dalla meditatio può sgorgare la preghiera intima, possono nascere parole rivolte a Dio con amore e riconoscenza. E dall’oratio si sale all’ultimo gradino, la contemplatio, che è una cosa semplice: vedere la realtà con gli occhi Dio. Questa la preghiera cristiana.

La meditazione.

Oggi si parla molto più di meditazione che di preghiera, e la meditazione conosce successo mai avuto nei secoli passati, almeno in occidente. Ormai l’esercizio della meditazione è slegato dalle tradizioni religiose che lo proponevano e lo regolavano, perché è un’operazione che si vuole semplicemente umana, un cammino di conoscenza di sé, di ricerca della pace, una via di guarigione e di benessere. Per questo la pratica attuale ha come soggetti soprattutto persone non appartenenti al cristianesimo, sovente indifferenti alla fede, ma alla ricerca di una vita interiore che aiuti l’edificazione del sé, la relazione con gli altri, l’armonia con la natura. Nessuna demonizzazione di questi cammini, ma resta necessaria la chiarezza nell’affermare che la meditazione cristiana va oltre ed è altra. In essa, infatti, Dio, il Signore, è riconosciuto come fonte di senso e di salvezza: si sta di fronte a lui e, soprattutto, gli si dà la parola per poterla ascoltare e approfondire attraverso la meditazione. Credo che tutti i metodi e i mezzi proposti per la meditazione possono essere utili e preliminare alla meditazione cristiana, ma questa si nutre di un dono che viene dall’alto, della parola di Dio e del suo Spirito santo, domandato dal credente e donato gratuitamente dal Signore. Nella meditazione cristiana la mente deve accordarsi a ciò che è proclamato (“mens concordet voci”: Regola di Benedetto 19,7), cioè alle sante Scritture che contengono la parola di Dio. La meditazione cristiana scaturirà dunque sempre dall’ascolto, dalla lettura intelligente e impegnata di una parola accolta, ripetuta, custodita e amata. Essa è sempre interpretazione e impegno personale a comprendere e ad applicare a se stessi ciò che lo Spirito dice al credente e alle chiese (cf. Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Non c’è meditazione cristiana senza dare a Dio la parola, accogliendola con fede, umiltà e povertà di cuore.

Appunti sulla preghiera – Parte seconda

Ostacoli: peccati.

Sul cammino della preghiera che sempre apre alla comunione con Dio ci sono altri ostacoli: la nostra lontananza da lui, i nostri peccati, le nostre contraddizioni all’amore gratuito che Dio sempre rinnova nei nostri confronti. Metterci davanti a Dio significa avere il coraggio di Pietro che, riconosciuto Gesù e la sua santità, non può fare altro che dirgli: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Sì, il Signore è santo, e di fronte alla sua santità dobbiamo confessare: “Sono una persona dalle labbra impure!” (Is 6,5).
Infatti abbiamo coscienza di quante volte e di come abbiamo mancato di fede, di come, non vivendo la volontà di Dio, non lo abbiamo amato. E il male commesso ci fa fuggire da Dio, ci fa addirittura aver paura di lui, in modo oscuro e non sempre a noi evidente. In molti casi fuggiamo da Dio e ignoriamo la sua presenza proprio a causa di un’indegnità timorosa che abita le nostre profondità, Ma il Signore, che non è un occhio che ci spia, ci chiama: “Dove sei?” (Gen 3,9), non per rimproverarci ma per riannodare il rapporto e permetterci di ricominciare un nuovo cammino.
Con semplicità, se affiorano i nostri peccati, umilmente ma senza ipocrisia né servilismi mettiamoli alla luce del suo volto, avviciniamoli alla sua santità che è contagiosa, distrugge i peccati e sana tutte le ferite: “Davanti a lui acquietiamo il nostro cuore, perché se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). Pregare è esporsi al Signore così come si è. Non prega chi davanti al Signore, come il fariseo al tempio, si ammanta e si vanta del bene che ha fatto (cf. Lc 18,11-12); prega chi, come il pubblicano, osa solo dire: “O Dio, abbi misericordia di me peccatore! (Lc 18,13).

L’ascolto.

La nostra preghiera sovente è minacciata di non essere cristiana: questo accade quando cerchiamo di pregare parlando a Dio, moltiplicando le parole davanti a lui come fanno i pagani (cf. Mt 6,7), manifestando a Dio le nostre richieste senza neppure pensare o mettere in conto che nella preghiera, come ci è stata insegnata nella Bibbia, la cosa più importante è ascoltare.
Non si può pregare secondo la nostra fede senza ascoltare Dio, mentre ascoltare Dio è pregare perché, anche se non diciamo nulla, è comunque un atto di ricezione, un “amen” detto alla sua parola con gli orecchi del nostro cuore.
E l’esperienza mi dice che, se la nostra preghiera conosce fallimenti, è perché pretendiamo di essere noi i suoi protagonisti.
Chi invece inizia la preghiera è in verità il Signore, è Dio che è Parola rivolta a noi, una Parola che innanzitutto manifesta il suo amore per noi: Dio è Parola, l’uomo è in primo luogo ascolto. Ecco perché il grande comandamento di Dio ai credenti è: “Ascolta” (Shema‘: Dt 6,4) e il credente è colui che ascolta e crede perché ha ascoltato. “La fede” – dice l’Apostolo – “nasce dall’ascolto” (Rm 10,17). Prega dunque chi ha “un cuore che ascolta” (leb shomea‘: 1Re 3,9), seconda a richiesta di Salomone: questo è “il dono tra i doni”, l’unico veramente necessario.
Quando desideriamo pregare, dobbiamo dunque predisporci ad ascoltare, nel profondo del
nostro cuore, quella Presenza eloquente del Dio che abita in noi. Non è un’operazione facile, perché richiede il silenzio, lo stare in quiete, in disparte, e il cercare di sentire una voce come di silenzio trattenuto, come di brezza silenziosa che ci parla (cf. 1Re 19,12). Come a Elia sull’Oreb, il Signore non ci parla nella voce del tuono, né nel turbamento del terremoto, né nel vento tempestoso (cf. 1Re 19,11-12) ma nel silenzio che va ascoltato come grembo della Parola che Dio vuole indirizzarci. Ascoltare, dunque, quale principio della preghiera cristiana.

La risurrezione di Gesù è la verità dell’uomo

Fondamento della speranza, la risurrezione di Gesù è anche la verità dell’uomo. E questo perché la croce non appartiene soltanto al cammino di Gesù, ma è anche, in un senso molto reale, il simbolo della vita in generale, della nostra vita incamminata (sembra) verso la morte, sconfitta di fronte al peccato e alla violenza. E’ la risurrezione che permette di fare di questa vita, in apparenza segnata dalla vanità e dal peccato, una diversa lettura.
Molte sono le esperienze che possono indurre l’uomo a perdere il senso dell’esistenza e a smarrirsi. L’esperienza, ad esempio, di una vita che promette e non mantiene, irrimediabilmente condannata alla morte. È l’esperienza della «vanità», che il libro di Qoèlet ha analizzato con molto rigore: l’uomo è di fronte alla sapienza e alla stoltezza, e comprende molto bene che la prima è superiore alla seconda, ma poi constata che spesso la saggezza è vinta dalla stupidità. La vita afferma, da una parte, una netta gerarchia di valori, ma poi, dall’altra, sembra non rispettarla. L’uomo ha sete del definitivo, ma deve poi accontentarsi di ciò che è relativo. Desidera ciò che è certo e sicuro, ma deve accontentarsi dell’incerto e del provvisorio. Il suo desiderio è aperto, infinito, mentre la realtà dell’esistenza è quella che è, inferiore. Perché l’uomo – ecco la domanda che non si può eludere – è costruito così, squilibrato, con un’esigenza di globalità e di durata che poi resta insoddisfatta? E accanto all’esperienza della vanità c’è l’esperienza del peccato, che a sua volta sembra condurre al non senso: lo sforzo di liberazione e di redenzione che l’uomo compie, sembra irrimediabilmente condannato alla sconfitta e il peccato appare come il vero dominatore. La parola di Dio, l’amore, i veri valori sono troppo spesso perdenti, combattuti o lasciati nell’indifferenza; le parole degli uomini sembrano più efficaci della parola di Dio, gli idoli più affascinanti del vero Dio, e così il peccato sembra annullare ogni sforzo di liberazione. Il mondo nuovo anziché avvicinarsi sembra allontanarsi, e la storia continua a essere in mano ai potenti e ai prepotenti: il Nuovo Testamento direbbe in mano «alla potenza delle tenebre» (Lc 22, 53). Queste riflessioni ci portano ai piedi della croce, cioè al momento in cui (nella vita di Gesù e nella nostra) l’amore sembra sconfitto dal peccato, la verità dalla menzogna, la vita dalla morte, la promessa di Dio dal suo apparente abbandono. Ma dopo la croce c’è la risurrezione, e con la risurrezione tutto cambia: diventa possibile una diversa lettura e le contraddizioni dell’esistenza mutano significato. La fatica di vivere non appare più come un affannarsi inconcludente. La risurrezione di Gesù mostra infatti che il muro della vanità si è infranto. Naturalmente, non ogni vita infrange il muro della vanità, ma solo quella che ripercorre il passaggio aperto da Gesù: la via dell’amore, della dedizione e dell’obbedienza a Dio.
La via dell’egoismo, della menzogna e dell’idolatria non vincono il muro della morte, ma vanno incontro — come dice l’Apocalisse — alla seconda morte, la morte al quadrato (Ap 2, 11; 20, 6; 20, 14; 21, 8). La salvezza dell’uomo e del mondo sono saldamente nelle mani dell’amore di Dio apparso sulla croce in tutto il suo splendore: il peccato si ostina a distruggere la liberazione dell’uomo, ma l’amore di Dio e la sua fedeltà sono più forti dello stesso peccato. Non sarebbe certo difficile prolungare oltre queste nostre riflessioni, ma quanto detto basta a provare che nella Pasqua del Signore l’uomo trova la sua verità. L’uomo che si apre alla fede nella risurrezione vive la gioia di un’esistenza che ha trovato finalmente il suo fondamento e la sua ragione: un’esistenza che continua a essere faticosa, segnata dalla contraddizione e dalle smentite, ma che, nel contempo, è consapevole di essere vittoriosa sulla morte e sul peccato, perché fondata sulla fedeltà dell’amore di Dio.

Bruno Maggioni

Appunti sulla preghiera

Viviamo in una società che privilegia il fare, l’utile, l’efficace, e darci alla preghiera che è non fare, gratuita, non materialmente efficace, ci appare tempo perso, operazione inutile. Siamo assorbiti da compiti, doveri, urgenze, e così il vacare Deo, il non fare nulla per Dio ci pare una ragione debole rispetto alle ragioni che si impongono nelle nostre vite.

Ostacoli: mancanza di tempo.
Confessa l’Apostolo Paolo: “Non sappiamo cosa pregare e come è necessario” (Rm 8,26), e anche noi confessiamo questa nostra incapacità, questa nostra debolezza nel metterci in preghiera. Perché? Innanzitutto perché non sappiamo tralasciare, non sappiamo trovare tempo per questo mutamento di pensieri, sentimenti, parole, posture, ambiente. Viviamo in una società che privilegia il fare, l’utile, l’efficace, e darci alla preghiera che è non fare, gratuita, non materialmente efficace, ci appare tempo perso, operazione inutile. Siamo assorbiti da compiti, doveri, urgenze, e così il vacare Deo, il non fare nulla per Dio ci pare una ragione debole rispetto alle ragioni che si impongono nelle nostre vite. Abbiamo sempre molto da fare! E la preghiera, che è essere presenti alla Presenza, ascolto di chi è per noi Padre, Amante, Amico, dialogo con chi vogliamo amare, viene così tralasciata e dimenticata con il passare dei giorni.
Durante il giorno abbiamo momenti brevissimi nei quali nella nostra mente o nel nostro cuore appare la memoria del Signore, nei quali sentiamo con il cuore la sua presenza elusiva, ma li lasciamo cadere e riprendiamo i nostri impegni senza accogliere una traccia di quegli attimi di uscita da noi stessi o di ritorno alla propria vita interiore. Così a quello che facciamo vertiginosamente manca spesso ciò che lo renderebbe carico di senso, di profondità, di “spirito”. La preghiera in verità dovrebbe essere la prima urgenza che sostiene e illumina tutte le altre. Se Gesù è l’Apostolo ci hanno invitati a pregare sempre, senza interruzione (cf. Lc 18,1-8; 21,34-36; Rm 12,12; Ef 6,18; 1Ts 5,17), è proprio perché la preghiera è la condizione senza la quale ogni nostra azione e ogni nostro impegno si impoveriscono e rischiamo la loro verità e autenticità.

Ostacoli: distrazioni.
La preghiera è un’azione difficile per noi anche perché la via verso l’interiorità di ciascuno è sovente ingombrata, ostacolata.
Innanzitutto non riusciamo a fare silenzio in noi, perché non appena apriamo la porta del nostro intimo per penetrarvi ci vengono incontro immagini, ricordi, voci, rumori che ostacolano il nostro procedere. Siamo abitati nel nostro profondo da parole efficaci, pensieri tumultuosi, voci di paura, fantasmi infernali che, quando ci affacciamo al nostro pozzo interiore, emergono
e ci vengono incontro. Si tratta di pensieri sovente cattivi, di tentazioni sulle quali dobbiamo subito fare un discernimento, ma anche di distrazioni, pensieri o immagini che ci tirano qua e là e non ci permettono di fissare il nostro pensiero in una sola direzione. Sono momenti in cui ci viene da dire: “Ma perché? Chi sono io? Cosa c’è nel mio profondo? Io sono un altro!”.
Far tacere questi pensieri è una lotta necessaria, che diventa vittoriosa man mano che la si pratica rinnovando l’attenzione, mettendo a fuoco il nostro desiderio. E se troviamo sul cammino della preghiera persone che si affacciano attraverso ricordi o situazioni? Sono distrazioni? Non temiamo, perché gli altri sono il nostro prossimo, che non è mai da escludere dalla nostra vita. Gli altri non soni mai disturbatori, ma si tratta di ricordarli in Dio, di metterli alla luce della sua presenza. Così parliamo a Dio dell’altro, degli altri, e così siamo indotti alla fiducia e alla carità fraterna. Ciò che era un ostacolo diventa così occasione di intercessione. In tal modo la preghiera non è un’evasione ma un entrare nello spessore della realtà, là dove Dio vuole essere presente e operare. La preghiera è un mistero di comunione con Dio, ma anche sempre un mistero di comunione con gli altri esseri umani.

Papa Francesco: l’economia è malata

(…) Papa Francesco offre una panoramica estesa di come questo sia frutto di una “crescita economica iniqua” che prescinde dai valori umani fondamentali. “Nel mondo di oggi – sottolinea – pochi ricchissimi” – “un gruppetto” – “possiedono più di tutto il resto dell’umanità”. Si tratta, evidenzia, di “un’ingiustizia che grida al cielo!”. D’altra parte questo modello di crescita economica sembra indifferente ai danni inflitti al creato, con conseguenze “gravi e irreversibili” come perdita della biodiversità, cambiamenti climatici, distruzione delle foreste tropicali. “Siamo vicini – avverte ancora – a superare molti dei limiti del nostro meraviglioso pianeta”. Disuguaglianze sociali e degrado ambientale hanno “la stessa radice”: il peccato di “voler possedere e dominare i fratelli e le sorelle, la natura e lo stesso Dio”. Di fronte a tutto questo, i cristiani non devono rimanere fermi: la speranza cristiana sostiene la volontà di condividere.
Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio.
Tanti bambini muoiono di fame e non hanno diritto alla scuola.
Nel cuore del Papa, in particolare, le condizioni dei bambini. Per rendersene conto, basta leggere le statistiche:Quanti bambini, oggi, muoiono di fame per una non buona distribuzione delle ricchezze, per un sistema economico come ho detto prima; e quanti bambini, oggi, non hanno diritto alla scuola, per lo stesso motivo. Che sia questa immagine, dei bambini bisognosi per fame e per mancanza di educazione, che ci aiuti a capire che dopo questa crisi dobbiamo uscire migliori.
Amministratori dei beni, non padroni.
Richiamandosi varie volte al Catechismo e al Libro della Genesi, Francesco ricorda che Dio ha chiesto all’uomo di dominare la terra coltivandola e custodendola. Non quindi “carta bianca per fare della terra ciò che si vuole”, nota il Papa, perché esiste una “relazione di reciprocità responsabile” fra noi e la natura. La terra infatti è stata data a tutto il genere umano e i suoi frutti devono arrivare a tutti, non solo ad alcuni. Come ricorda anche la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II “l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri”. Quindi, come un amministratore della Provvidenza, far fruttificare i doni perché anche gli altri ne beneficino.
“Amministratori dei beni, non padroni”, ribadisce Francesco ricordando “una regola d’oro” del comportamento sociale evidenziata anche nella Laudato si’: “la «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni»”.