Il Manifesto della comunicazione non ostile e inclusiva

Virtuale è reale
Comunico in rete come faccio nel mondo reale, rispettando le persone e le loro differenze, le fragilità e i punti di forza. Scelgo di includere, senza giudicare o discriminare.

Si è ciò che si comunica
Rispetto la mia identità e decido liberamente di definirmi per come sono, o di non definirmi affatto. Accolgo la complessità e la molteplicità. Valorizzo la diversità creativa.

Le parole danno forma al pensiero
Evito con cura stereotipi, cliché, allusioni o modi di dire offensivi o sminuenti. Contrasto ogni pregiudizio. Scelgo sempre parole chiare e facili da comprendere, corrette, gentili.

Prima di parlare bisogna ascoltare
Costruisco relazioni fondate sull’ascolto paziente, la comprensione e l’empatia. So che opinioni diverse allargano il mio orizzonte, e che dallo scambio nasce il senso di comunità.

Le parole sono un ponte
Coltivo la curiosità, l’apertura, il dialogo positivo che nasce
quando si superano le barriere mentali, sociali, culturali, gerarchiche. Il mio linguaggio sa creare inclusione e cittadinanza.

Le parole hanno conseguenze
So che le parole possono ferire o curare, sostenere o schiacciare. Parlo in modo tale da comprendere tutte le identità, le condizioni, le appartenenze, gli orientamenti e le culture.

Condividere è una responsabilità
Prima di condividere testi, video o foto mi domando se aggiungono qualità alla discussione e se promuovono il rispetto. Verifico che le fonti siano oneste, neutrali e veritiere.

Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare
Valorizzo la pluralità delle opinioni e delle esperienze e accolgo ogni diverso pensiero come una ricchezza. Se dissento, favorisco un confronto aperto, civile e costruttivo.

Gli insulti non sono argomenti
Insultare è un modo di esprimersi violento e primitivo. È doppiamente deplorevole se si indirizza a chi è discriminato e sperimenta la povertà, il disagio, la paura, lo stigma o l’emarginazione.

Anche il silenzio comunica
Scelgo il silenzio per ascoltare e ragionare meglio, per spegnere polemiche distruttive, o quando non ci sono parole adeguate, e un gesto di empatia vale più di ogni discorso.

La preghiera in tempo di guerra e pandemia

Stiamo vivendo un tempo in cui il monoteismo cristiano e la sua forma cattolica stanno attraversando una profonda crisi. Il cattolicesimo cerca di sopravvivere alle bastonate di pandemia e ora guerra in Ucraina riproponendo una mistura di emozioni/poetiche e religione per far fronte ad una vera e propria dissonanza cognitiva con la realtà. La preghiera è la forma “tipica” di una religione. Come preghi esprimi cosa credi. (…) Molti pregano, pregano, pregano. Consacrano, consacrano, consacrano. Ma mi chiedo: tutto questo Kyrie eleison, Perdonaci, Abbi pietà … che senso ha? Ma Dio non sa già tutto questo e non vuole già il nostro bene? A parole lo diciamo, ma nei nostri pensieri e nelle nostre orazioni, lo neghiamo. Allora, mi chiedo, perché esprimersi così? Mi si dice: Perché la preghiera rivela il nostro malessere. Ma a chi? A Dio o a noi? Perché esprime la protesta contro il male. Ma a chi è rivolta questa protesta? A Dio o a noi stessi? In tutte queste litanie – già iniziate al tempo della Pandemia e ora proseguono – c’è un Elefante nella Chiesa di cui non si vuole parlare. Cioè … “DIO”. Continuiamo a pregare e scrivere poesie come se 2000 anni di cristianesimo non fossero passati. Cosa direste voi a un tizio che incontrate ogni mattino fuori della sua casa in ginocchio verso oriente. “Cosa stai facendo lì?” – gli chiediamo – ed egli vi risponde: “Sto pregando il Sole perché sorga”. Convinto che la sua preghiera è efficace, poiché si è reso conto che “ogni” giorno – poiché così ha pregato – il Sole di fatto sorge. La sua fede è ferma più che mai in questa sua convinzione. Poiché prega … il Sole sorge. Così anche noi quando preghiamo Dio perché faccia smettere la guerra, perché intervenga a togliere la pandemia, perché ci perdoni dato che siamo cattivi con il nostro prossimo. Siamo convinti che solo pregando “così”, Dio farà smettere la guerra, toglierà la pandemia e ci renderà buoni. Ma se Dio è per sua “natura” buono (Dio è amore), non potrà non amarci “sempre” e “comunque”. Come il Sole non può non sorgere ogni giorno – e non perché mi auguro che sorga -, così Dio mi ama e vuole sempre il mio bene. E allora – ecco la domanda essenziale – perché “questo” Dio, che è buono per sua natura, non fa nulla? Risposta, anche questa essenziale: Dio “non” risponde e “mai” risponderà al tuo e nostro posto. Dunque a questa preghiera “non risponderà mai”, non perché non vuole rispondere (chissà per quale motivo….) ma non risponde per necessità interna, potremmo dire. Come Dio non può far sì che il vero sia falso, che 5+2 non sia 7, così Dio non può far sì che la sua “onnipotenza” sia esercitata come fosse una “mono-potenza” ( potente da solo).
La potenza di Dio è essenzialmente un “rendere potenti” le creature ad amare, volersi bene gli uni gli altri, ad essere ciò per cui sono create. Realizzare se stessi e fiorire. Questa è la potenza che si attribuisce a Dio.
E noi che siamo a Sua immagine, siamo abitati ad agire con questo tipo di potenza, che non è “mono-potenza”, potenza da solo, ma essere potenti-con-altri, facendo potenti le altre creature.
Con guerra e pandemia, Dio se n’è andato via! Dio non c’entra un bel nulla con la guerra, la pandemia e con tutti i nostri casini! Non ha alcuna responsabilità e nemmeno deve essere “supplicato” (Kyrie eleison!) perché si coinvolga “di più” nella vita delle creature. Dio è da sempre coinvolto nella vita delle creature, ma lo è “da creatura” e non da Dio solitario.
Le creature sono la mano di Dio, il volto di Dio, il naso di Dio, il gusto di Dio, il braccio di Dio…. Le creature sono “il corpo di Dio”. Dio è Dio mai senza di noi.
Pregare non è un atto “irrazionale” ma esprime la consapevolezza che siamo di natura divina. Più che preghiere poetiche/emotive, viviamo “poeticamente” nella “póiesis” dell’agire potente con cui Dio ha abilitato l’essere di noi creature. Dall’intercessione alla consapevolezza. Piuttosto che “Kyrie, eleison” … “diventiamo Cristo!”.

di Paolo Gamberini S.J. , gesuita e docente di teologia.

Sostare con Te Anno oratoriano 2022 – 23

È il tempo di aprire la cassetta degli attrezzi e di allestire la proposta del nuovo anno oratoriano. Quali strumenti abbiamo a disposizione? Il primo è la Proposta pastorale dell’Arcivescovo Mario che ci invita a mettere al centro delle nostre attenzioni l’esperienza della preghiera. Se ci fermiamo un attimo a riflettere, riusciamo a cogliere l’urgenza e la necessità di questo invito alla preghiera che ci permette anche di recuperare il significato originario della parola oratorio, che esprime questa dimensione completa: un luogo di preghiera che diventa luogo di amicizia. La Proposta pastorale ci offre l’opportunità di lavo-rare attorno all’esperienza della preghiera che i ragazzi e gli adolescenti vivono personalmente e in oratorio. È un’occasione preziosa per aggiornare strumenti e modalità e rivedere complessivamente le nostre iniziative. L’invito dell’Arcivescovo non intende aumentare la quantità della preghiera in oratorio, piuttosto ci interroga sullo stile della nostra preghiera. Il vangelo ci racconta che i discepoli vedono Gesù pregare e si sentono attratti dal modo in cui la preghiera alimenta la sua vita e la trasforma.
Da qui la domanda: «Maestro, insegnaci a pregare». È una richiesta paradossale se ci pensiamo. I discepoli sapevano già come pregare secondo le tradizioni, conoscevano molto bene le preghiere e tutti i riti e le celebrazioni
previste dalla religione giudaica. Ma sono attratti dal modo di pregare di Gesù. Lo stesso vale per noi. Insegnare le preghiere e recitarle è una cosa buona. Ma il cuore della questione è pregare come Gesù. Infatti, quando un cristiano prega viene ospitato nella preghiera di Gesù. Prega con Lui e in Lui. L’invito dell’Arcivescovo interroga la vita di preghiera dei nostri oratori. La preghiera non è una tra le varie attività, è il cuore pulsante dell’oratorio. È la linfa che scorre e che nutre il grande albero dell’oratorio. Il secondo strumento necessario è collegato al primo. Si tratta della diocesanità dell’oratorio. Questo è un tratto specifico degli oratori ambrosiani che —fin dai tempi di san Carlo — camminano con il loro vescovo e, da questa profonda adesione, ricavano le indicazioni per il loro percorso. Più di cento anni fa gli oratori ambrosiani hanno dato vita alla FOM, intuendo la necessità di un organismo autonomo rispetto alle organizzazioni ecclesiali dell’epoca, in cui tutti gli oratori si potessero riconoscere, allo scopo di coltivare lo spirito diocesano e la qualità educativa in ogni oratorio. La FOM è un segno di questa diocesanità. Questo tratto si traduce nell’esperienza di essere Chiesa per i più giovani. Più che un termine da spiegare, la parola Chiesa è un’esperienza da vivere. E’ una bella domanda da condividere all’inizio del nuovo anno: come il nostro oratorio può diventare Chiesa? Buon cammino!

Kyrie, Alleluia, Amen Proposta per l’anno pastorale 2022 – 23

«Propongo di vivere nel prossimo anno pastorale – ma con lo scopo che diventi pratica costante – una particolare attenzione alla preghiera. Non intendo proporre una enciclopedia della preghiera, ma incoraggiare a verificare il modo di pregare delle nostre comunità. Ho l’impressione che sia una pratica troppo trascurata da molti, vissuta talora come inerzia e adempimento, più che come la necessità della vita cristiana. Cioè della vita vissuta in comunione con Gesù, irrinunciabile come l’aria per i polmoni». Queste le parole con cui l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, introduce la Proposta pastorale per l’anno 2022-2023.
Il ricordo di Martini
La Proposta si apre con un significativo riferimento al cardinale Carlo Maria Martini, di cui quest’anno ricorre il decimo anniversario della morte, e alla sua prima Lettera pastorale, La dimensione contemplativa della vita, uscita nel 1980. «Questa lettera – scrive l’Arcivescovo – è stata sorprendente e provvidenziale e (…) mi sento incoraggiato a offrire alla nostra Chiesa diocesana un invito a ritornare su quell’inizio».

Un approccio concreto al fenomeno immigrazione

Cinque proposte serie e intelligenti per sottrarre l’immigrazione alla strumentalizzazione della politica.
Di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio.

Sottrarre l’immigrazione alla strumentalizzazione politica e affrontarla non come un problema da subire, ma un’opportunità da cogliere. E urgente farlo non solo a beneficio degli stranieri che scelgono il nostro Paese come luogo di residenza e lavoro, ma anche delle famiglie e delle imprese italiane, insomma del “sistema Italia”, che soffre di una grave crisi demografica e che, per favorire la ripresa occupazionale in tanti settori, lancia alle forze politiche e alle istituzioni il pressante appello “Cercasi lavoratori”. Come si sta facendo in altri campi, occorre una pianificazione, seria e lungimirante, in grado di liberarsi di quell’approccio burocratico che frena e trasforma ogni procedimento amministrativo in una corsa a ostacoli, fa perdere attrattività al nostro Paese e lascia cittadini e imprenditori da soli davanti a una società e a un mercato del lavoro in rapida trasformazione.
Le associazioni di categoria, dalla Confindustria a Federalberghi, segnalano da tempo una carenza strutturale di manodopera, soprattutto per il comparto agricolo e turistico, l’autotrasporto e la logistica, professioni a basso livello di competenza, per cui l’Italia avrebbe bisogno di 200 mila lavoratori l’anno, sia a tempo indeterminato, sia stagionali. Ma all’appello mancano anche numerosi lavoratori per la cura della persona, soprattutto infermieri e badanti, la cui penuria mette in seria difficoltà il modello italiano di welfare familiare, soprattutto per gli anziani e le persone con disabilità, proprio ora che il governo si sta avviando verso un’ampia domiciliarizzazione delle cure e dell’assistenza. Per questo in un momento difficile per l’Italia, con la guerra in Ucraina che ha sconvolto il piano di ripresa economica avviato nei mesi precedenti, la comunità di Sant’Egidio lanciale seguenti proposte per un approccio concreto e intelligente al fenomeno dell’immigrazione:
• Ampliare e semplificare i decreti flussi. Quello entrato in vigore lo scorso 17 gennaio ha allargato le quote di ingresso regolare rispetto a quelle degli anni precedenti, arrivando a 76 mila persone. Purtroppo non ha ancora prodotto risultati apprezzabili per un complicato sistema di presentazione della domanda per fare ingresso in Italia. Per cui mentre la stagione turistica è già in fase avanzata i lavoratori stagionali non sono ancora arrivati. Si tratta di velocizzare le pratiche ed emanare più decreti flussi nel corso dell’anno per favorirne un’effettiva efficacia. Senza, peraltro, escludere (inspiegabilmente) alcune nazionalità, come Perù, Colombia, Ecuador, le cui comunità sono presenti e ben integrate da anni nel nostro Paese;
Sottrarre l’immigrazione alla strumentalizzazione politica e affrontarla non come un problema da subire, ma un’opportunità da cogliere. E urgente farlo non solo a beneficio degli stranieri che scelgono il nostro Paese come luogo di residenza e lavoro, ma anche delle famiglie e delle imprese italiane, insomma del “sistema Italia”, che soffre di una grave crisi demografica e che, per favorire la ripresa occupazionale in tanti settori, lancia alle forze politiche e alle istituzioni il pressante appello “Cercasi lavoratori”. Come si sta facendo in altri campi, occorre una pianificazione, seria e lungimirante, in grado di liberarsi di quell’approccio burocratico che frena e trasforma ogni procedimento amministrativo in una corsa a ostacoli, fa perdere attrattività al nostro Paese e lascia cittadini e imprenditori da soli davanti a una società e a un mercato del lavoro in rapida trasformazione.
Le associazioni di categoria, dalla Confindustria a Federalberghi, segnalano da tempo una carenza strutturale di manodopera, soprattutto per il comparto agricolo e turistico, l’autotrasporto e la logistica, professioni a basso livello di competenza, per cui l’Italia avrebbe bisogno di 200 mila lavoratori l’anno, sia a tempo indeterminato, sia stagionali. Ma all’appello mancano anche numerosi lavoratori per la cura della persona, soprattutto infermieri e badanti, la cui penuria mette in seria difficoltà il modello italiano di welfare familiare, soprattutto per gli anziani e le persone con disabilità, proprio ora che il governo si sta avviando verso un’ampia domiciliarizzazione delle cure e dell’assistenza. Per questo in un momento difficile per l’Italia, con la guerra in Ucraina che ha sconvolto il piano di ripresa economica avviato nei mesi precedenti, la comunità di Sant’Egidio lanciale seguenti proposte per un approccio concreto e intelligente al fenomeno dell’immigrazione:
• Ampliare e semplificare i decreti flussi. Quello entrato in vigore lo scorso 17 gennaio ha allargato le quote di ingresso regolare rispetto a quelle degli anni precedenti, arrivando a 76 mila persone. Purtroppo non ha ancora prodotto risultati apprezzabili per un complicato sistema di presentazione della domanda per fare ingresso in Italia. Per cui mentre la stagione turistica è già in fase avanzata i lavoratori stagionali non sono ancora arrivati. Si tratta di velocizzare le pratiche ed emanare più decreti flussi nel corso dell’anno per favorirne un’effettiva efficacia. Senza, peraltro, escludere (inspiegabilmente) alcune nazionalità, come Perù, Colombia, Ecuador, le cui comunità sono presenti e ben integrate da anni nel nostro Paese;