Scuola e ora di religione

Tempo di iscrizioni a scuola e tempo di scegliere per le famiglie e per gli studenti più grandicelli che ormai decidono in autonomia se iscriversi per frequentare l’ora di religione, lezione che sempre più, soprattutto alle scuole superiori, viene “snobbata” al punto che sono numerose le classi in cui il numero di chi rinuncia a questo momento formativo e di riflessione supera quello di chi, invece, ne comprende l’utilità e l’opportunità. In occasione della Giornata di sensibilizzazione alla scelta dell’Ora di Religione il Cardinal Angelo Bagnasco, presidente della CEI, si è così pronunciato: «Si parla spesso di una certa fragilità che rende difficile resistere nelle difficoltà della vita, alle quali nessuno può sottrarsi. È segno di uno smarrimento interiore che nasce dal non riuscire a fare sintesi, a ordinare le conoscenze, le emozioni, le esperienze, i sentimenti… Anche il ricco mondo della scuola, con le conoscenze e le competenze che offre chiede un punto di sintesi, perché il giovane non diventi un’enciclopedia, ma una persona matura». In questo senso, prosegue Bagnasco, «l’insegnamento della religione cattolica, anche per la sua valenza culturale, può essere per tutti un momento di chiarificazione e di equilibrio: i contenuti, la storia, il confronto con le civiltà, sono un riferimento necessario per comprendere il tempo e la società che abitiamo, uno strumento per il dialogo con tutti». Alle sue parole vogliamo aggiungere quelle di chi lavora sul campo, di un insegnante di religione, Angelo Bertolone, che gestisce un blog (Religion Hour) e una omonima pagina Facebook, e proprio ieri ha così ricordato agli studenti e alle loro famiglie: «l’ora di Religione è fatta più o meno di 60 minuti che per qualcuno possono essere pochi, ma vi assicuro che ogni istante è aperto ad uno dei misteri che l’uomo fin dagli albori dell’umanità cerca: il senso della vita». Ha quindi poi stilato un piccolo decalogo per convincere e mostrare la bellezza di questi 60 minuti, parole e pensieri che ci piace condividere con voi lettori:

I cinque buoni motivi per avvalersi dell’Ora di Religione

1. L’insegnamento di Religione (IRC) è un’ora curriculare, cioè una disciplina scolastica vera e propria, che si avvale di docenti sempre più preparati e attenti alla vita dei ragazzi. Fa parte quindi dell’orario scolastico e delle discipline scolastiche a tutti gli effetti. La legislazione infatti recita: la Repubblica Italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.

2. La diocesi di Milano è una realtà multi – culturale e multi – religiosa: è importante che voi giovani conosciate bene le tradizioni, la cultura e la religione che ha segnato le radici dell’Italia, per essere aperti al dialogo con tutti. Per questo durante l’ora di Religione si conoscono anche le altre culture, le Religioni e non a caso in molte realtà sono sorte collaborazioni con le Comunità Religiose non cristiane presenti sul territorio. Ciò può essere motivo di arricchimento per ognuno di voi che conoscendo una cultura e una religione diversa dalla vostra può aprirsi all’accettazione dell’altro.

3. Gli Insegnanti di Religione, attraverso percorsi di aggiornamento presso Università accreditate dal MIUR e con i Corsi di Aggiornamento proposti dal Servizio IRC della Diocesi sono sempre attenti alla persona, coniugando l’aspetto dell’istruzione (ambito metodologico – didattico) con quello dell’educazione (ambito psico – pedagogico). Questo perché l’IRC é una materia che mira allo sviluppo integrale della Persona umana senza tralasciare nessun aspetto per un pieno accrescimento delle proprie Competenze in tutti gli ambiti.

4. L’IRC nella Scuola italiana è una preziosa opportunità culturale ed educativa, perché guida voi ragazzi a scoprire le radici della storia, dell’arte e della cultura con agganci alle altre discipline di studio; vi aiuta a rispondere alle domande di senso che tutti – appartenenti ad ogni popolo, cultura e religione – portiamo nel cuore: “Chi sono io? Da dove veniamo? Che senso ha la vita? Perché esiste la morte? Cosa c’è dopo la morte? Come affrontare la vita? Cosa c’entrano gli altri con me?”. Una ragazza o un ragazzo che impara ad affrontare le grandi domande della vita, vivrà in modo molto più sereno i momenti della crescita. Non solo: se scopre il perché di quello che fa e di quello che vuole essere, se impara ad avere uno scopo nella vita, se ha capito che tutta l’esistenza è un cammino di ricerca, allora la vita appare nella sua bellezza e lo studio e la cultura sono l’occasione per compiere questo itinerario.

5. L’IRC é l’unica materia che si può scegliere, infatti, rispetto a tutte le altre discipline che sono obbligatorie, per l’IRC il dinamismo della scelta gioca un ruolo fondamentale proprio perché si tratta di una materia che investe tutto l’essere della persona in tutti gli ambiti della propria vita. Questo però non vuol dire che bisogna per forza “credere” in una determinata confessione (cristiana nello specifico).

Il Papa pubblica il Messaggio per la Pace 2017: La non violenza, stile di una politica per la pace

Nel Messaggio per la 50ma Giornata mondiale della pace, papa Francesco afferma che la nonviolenza è la scelta più ragionevole; la violenza è invece illusoria. Il vangelo dell’amare i nemici è “la magna charta della nonviolenza cristiana”. Le testimonianze di Madre Teresa, Gandhi, Martin Luther King, Giovanni Paolo II. “Nessuna religione è terrorista”. “Le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana”. Le otto beatitudini, manuale di nonviolenza per leader politici e religiosi, imprenditori, dirigenti e media. Il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale aperto alla collaborazione di tutti.

Davanti a un mondo che si presenza con “una terribile guerra mondiale a pezzi” (n. 2), l’unica risposta per costruire la pace è la pratica della nonviolenza come “lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme” (n. 1), abbracciando l’educazione in famiglia fino ad “un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari” (n. 5).

È questa la proposta di papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, che si celebra l’1 gennaio e che nel 2017 giunge al suo 50mo anno. Firmato l’8 dicembre scorso, festa dell’Immacolata Concezione, per chiedere “alla Vergine di farci da guida” (n.7), il Messaggio ha come tema “La nonviolenza: stile di una politica per la pace”.

Citando Paolo VI e il primo Messaggio per la Pace del 1968, Francesco mette in guardia dal “pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali” (n. 1).

Una scelta ragionevole

La nonviolenza è dunque la scelta più ragionevole; la violenza è invece illusoria: “La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi ‘signori della guerra’? La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti” (n. 2).

Amare i nemici, la magna charta della nonviolenza

Più in positivo, la nonviolenza è la “via tracciata” da Gesù Cristo, che “predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia (cfr Mt 5,39)” (n. 3)

Il vangelo dell’amare i nemici è “la magna charta della nonviolenza cristiana”. A conferma, papa Francesco cita un intervento di Benedetto XVI del 18 febbraio 2007, in cui egli affermava che la nonviolenza “è realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di più di amore, un di più di bontà. Questo ‘di più’ viene da Dio”. E ancora: “La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della ‘rivoluzione cristiana’” (n. 3).

I frutti della nonviolenza

La nonviolenza non è “resa, disimpegno e passività”. Al contrario, produce “risultati impressionanti” (n. 4). A dimostrazione di ciò, Francesco cita anzitutto Madre Teresa, “un’icona dei nostri tempi” per gli operatori di pace. Egli cita il discorso che la Madre ha tenuto nel 1979 al ricevimento del Premio Nobel per la pace: “Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo”. E cita la sua stessa omelia per la canonizzazione avvenuta lo scorso 4 settembre, in cui metteva in luce la sua disponibilità: “l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi”.

Il papa ricorda pure “I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale”; l’impegno di “Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia” (n. 4); la “caduta dei regimi comunisti in Europa”, a cui hanno dato un grande contributo “le comunità cristiane… con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa”.

“Speciale influenza – aggiunge – hanno esercitato il ministero e il magistero di san Giovanni Paolo II. Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991), il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia»” (n. 4).

Nel suo impegno “per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura”, la Chiesa cattolica non è sola, ma insieme a “molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita»” (n. 4). E qui egli ricorda che “nessuna religione è terrorista. La violenza è una profanazione del nome di Dio. Non stanchiamoci mai di ripeterlo: «Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!»” (n. 4).

La famiglia e la politica

Gesù Cristo ha insegnato che “il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano” (n. 2). Per questo, papa Francesco parla della famiglia come il luogo originario da cui partire per educare alla nonviolenza: “La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società” (n. 5). Per questo il pontefice mette sullo stesso piano “un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari”, insieme alla richiesta “che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini”, certi che “le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana”.

Le beatitudini, ispirazione per la politica

La “strategia di costruzione della pace” ha anche un “manuale”: le otto beatitudini. Francesco propone “un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità” (n. 6). Ciò significa: “dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale” (n. 6).

Il papa assicura che “la Chiesa Cattolica accompagnerà ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva e creativa” e ricorda che dal 1° gennaio 2017 sarà varato “il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura»” (n. 6)

“Nel 2017 – conclude – impegniamoci, con la preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore, dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace»” (n. 7).

Intervista. Bagnasco: il Giubileo della misericordia finisce, il suo messaggio continua

Eminenza, cos’abbiamo imparato in questo Giubileo?
Il Giubileo non è una storia che si chiude e si archivia, ma l’inizio di un nuovo viaggio. Al di là dell’indubbio successo di un’iniziativa che ha portato a Roma oltre 20 milioni di pellegrini e che sul territorio ha visto una capillare mobilitazione della Chiesa a ogni livello, un bilancio più interiore di questo Anno andrà tracciato senza fretta, pregando e riflettendo. L’esperienza che abbiamo vissuto è stata intensa, un viaggio dentro la misericordia divina, dono e invito a rigenerare nella sua luce le nostre relazioni personali e gli stessi legami sociali. Trovo in questo primo frutto il segno inconfondibile della grandezza e della luminosità dell’intuizione del Santo Padre.
Cos’ha voluto dirci il Papa con il Giubileo?
Il Santo Padre l’ha voluto sulla scorta della profonda persuasione che solo alla scuola della misericordia – comandamento e cuore stesso di Dio – il nostro mondo può ritrovare la speranza e percorrere la via della pace. Senza misericordia ci si affida a una giustizia solo formale che non rende ragione dei bisogni più profondi dell’uomo e, tutt’al più, dà a ciascuno il suo senza tenere conto della sete di comprensione, amicizia e perdono che c’è nel cuore di ogni persona. Il Giubileo della misericordia ci ha davvero insegnato a guardare le persone e le cose comprendendole più a fondo. E ci è risultato chiaro che questo ci avvicina alla verità molto più dell’indifferenza o del rancore.
La formula del “Giubileo diffuso”, con Porte Sante in cattedrali, santuari e parrocchie ma anche in mense per i poveri, hospice e nelle carceri, si è rivelata fruttuosa?
Innanzitutto, ci ha ricordato che il centro sta dove abita Dio e che Egli dimora anzitutto negli ultimi. Anche in questo il Papa ha mostrato tutta la sua sapienza pastorale, rendendo evidente che – come dice Gesù alla Samaritana – Dio non lo si adora in un posto più che in un altro, poiché egli cerca adoratori in spirito e verità. E per ricevere misericordia si deve servirlo nel luogo in cui ci ha posti e amarlo nelle persone che abbiamo a fianco. Questa consapevolezza, impressa nel cuore stesso dell’Anno Santo, ci aiuta a mantenere viva una fonte permanente di conversione, di rinnovamento e di crescita, che si rivelerà efficace in ogni attività ecclesiale, nella stessa missione evangelizzatrice della Chiesa e anche nella nostra vita di credenti chiamati da Dio alla santità.
Alla luce dell’esperienza realizzata sin qui, a cosa è servito dunque un Anno Santo dedicato alla misericordia?
Le parole della fede – redenzione, peccato, grazia, croce, misericordia, perdono, cielo … – sono parole antiche, che hanno attraversato i secoli illuminando generazioni, ispirando i santi e sostenendo i martiri. Queste parole sono giunte fino a noi e ci chiedono di custodirle come care, di non barattarle con niente, di non tradirle. Ecco: il Giubileo ci ha fatto riscoprire la bellezza concreta e affascinante di queste parole che oggi rischiano di svuotarsi nella nebbia liquida del pensiero: l’ Anno giubilare ci ha spinti a chiederci se Dio c’entra ancora con la nostra vita oppure, insensibilmente, è diventando come un soprammobile che arreda la quotidianità. È arrivato il momento di dare una risposta. La conclusione nelle diocesi del Giubileo, in attesa della sua chiusura domenica prossima con il Papa in San Pietro, cade nell’anniversario esatto del giorno in cui terminò il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze. Cosa resta di quell’evento? Quella di Firenze è stata una bella pagina di Chiesa – preparata a lungo e con un’ampia partecipazione, quasi un anticipo della fraternità vissuta nell’esperienza giubilare – attraverso la quale abbiamo toccato la ricchezza e la bellezza della comunione. La sinodalità sperimentata dai partecipanti al convegno ne rappresenta l’esito forse più prezioso. Ed è la via che molte diocesi e comunità locali stanno percorrendo, valorizzandone la bellezza e l’utilità. Abbiamo capito che tutti siamo posti sotto l’obbedienza di Cristo e al tempo stesso siamo spinti all’ascolto vicendevole, al discernimento comunitario e all’azione comune.
Ma cos’ha insegnato Firenze ai cattolici italiani?
Credo che, a conti fatti, abbiamo imparato che le cose, la vita, il mondo, gli altri vanno guardati con gli occhi di Dio che è misericordia, cioè verità e amore, e con la fiducia che tutto può essere corretto e migliorato, che tutto può rinascere. Ma c’è un messaggio forse più profondo che ci arriva da Firenze e dal Giubileo.
Quale?
L’Anno Santo e il Convegno ecclesiale, ciascuno con la propria peculiarità, ci hanno incoraggiati a chiederci come aiutare l’uomo di oggi a ritrovare il suo volto, troppo spesso deturpato. Nelle nostre comunità constatiamo che, sotto le apparenze, brulica la vita silenziosa e umile fatta di famiglia, lavoro, di onestà senza prezzo, di amore fino al sacrificio, di eroismi che non fanno notizia. Questa umanità vera e concreta incontra la misericordia divina che la risana, la abbraccia e ne guida i passi sulle strade del mondo, quelle già note e le nuove che ci attendono.
E qual è oggi la sfida che attende i credenti che simbolicamente escono dalla porta giubilare verso il mondo?
Sulla fragilità estrema, talora drammatica e angosciante, cui questo clima culturale predominante consegna le persone, il messaggio giubilare della misericordia ci consegna grandi scoperte interiori e umane: un patrimonio forse invisibile, ma che sono certo non tarderà a mostrare i suoi primi effetti di umanizzazione della società e di rilancio missionario
nell’azione della Chiesa. Annunciano già questa primavera promessa le tante opere di misericordia fattiva che restano un po’ dovunque nelle nostre diocesi come eredità permanente del Giubileo. Per questo dico che l’Anno Santo finisce, ma in realtà il suo messaggio continua a chiamarci.

Avvento: tempo per accogliere e generare amore

Entriamo nell’Avvento. La successione dei tempi liturgici si rivela provvidenziale in questo momento storico: di fronte alle tante paure che generano emozioni e violenza in ognuno di noi – l’elenco delle fonti di questa paura e violenza si fa ormai lungo: dai profughi al terremoto; dalla guerra in Siria e in Iraq alla crudezza della campagna elettorale americana; dalla fragilità della nostra identità europea alle conseguenze di una crisi economica che sta rimodellando in perdita i nostri ritmi di vita – l’Avvento cristiano si rivela come un dono inaspettato da custodire gelosamente, per la sua capacità di indicarci lo stile corretto per abitare questo cambiamento d’epoca, come ci ricorda Papa Francesco. Accogliere e generare amore.
L’Avvento ci racconta e ci ricorda proprio queste due azioni, questi due atteggiamenti. Sono gli
atteggiamenti di Dio, innamorato perso di noi, dell’umanità; sono gli atteggiamenti di Maria, colei che con la sua fede ha consentito che il Figlio di Dio abitasse la nostra storia e ci rivelasse il volto di Dio come suo e nostro Padre. Accogliere e generare amore. Sono questi gli atteggiamenti migliori grazie ai quali affrontare il futuro che ci attende.
Abbiamo bisogno che l’Avvento diventi lo stile dei cristiani, e poi di tutti gli uomini, per esorcizzare quella violenza che tutti temiamo ma che contribuiamo a gonfiare proprio con le nostre paure. L’Avvento come pratica di vita chiede luoghi e azioni esemplari, che rendano evidenti e tangibili i frutti generati. Proprio una simile cornice consente di comprendere il significato profondo del sostegno che la Diocesi intende dare durante tutto il prossimo periodo di Avvento alla campagna in favore dell’affido familiare promossa da Caritas Ambrosiana.
Non è più utopistico garantire attraverso questo strumento il diritto a una famiglia ad ogni bambino che viene allontanato da quella di origine. L’affido è un modo concreto di fare delle nostre vite un Avvento incarnato. Anche a Milano sempre più famiglie scelgono di aprire le porte di casa per un periodo di tempo ai figli degli altri. Queste famiglie ci dimostrano che l’Avvento non soltanto è uno stile di vita possibile, ma è anche uno stile di vita capace di cambiare la storia, salvando gli uomini dai tanti inferni artificiali che loro stessi hanno saputo creare. Abbiamo bisogno dell’Avvento. Il mio augurio è che il tempo di Avvento che sta per cominciare ci aiuti a moltiplicare i luoghi e le pratiche di Avvento dentro le nostre vite, dentro le vite delle nostre famiglie.

mons. Luca Bressan,
Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale
Arcidiocesi di Milano

Quel tempo che ci è dato per vivere…..

Novembre si apre con la commemorazione dei defunti, festività che subito ci rimanda al tempo che viviamo con una domanda fondamentale, di cui non conosciamo la risposta : quanto tempo mi è dato per vivere?
Secondo l’antiva concezione pagana il tempo, chronos, è una divinità assoluta, inesorabile, che inghiottisce sia gli uomini che gli altri dei. Si rappresenta in forma di una ruota che per un momento porta in alto e subito getta giù. Dipende dalla fortuna, in che punto uno si attacca a questo movimento, vivere la misura del tempo della propria vita.
Va da sé che una tale concezione non può essere biblica. Il Creatore del mondo dà ad ogni creatura e al mondo intero il loro tempo propizio, breve o lungo che sia.
Secondo quale criterio è distribuito questo tempo?
Forse sarà opportuno spiegarlo con un paragone. Immaginiamoci il direttore di una radio che chiama un uomo con questo incarico: “ Ti offro un quarto d’ora per la trasmissione di questa sera. Cerca di approfittarne per dire qualche cosa buona!” Ad un altro dà un compito differente: “Ho bisogno di uno che spieghi agli ascoltatori questo tema. Ti darò tanto tempo quanto ne avrai bisogno per poterlo fare bene”.
Questo secondo tipo si può applicare a Dio. Egli dà ad ogni uomo una vocazione propria e gli offre il tempo necessario per eseguirla.
Lo illustra bene una lettera di San Francesco Saverio, il quale racconta che nel suo viaggio in Giappone incontrò un pericolo mortale sulla nave su cui viaggiava e testimonia che non ebbe la minima paura o dubbio, dato che era sicuro di eseguire la vocazione datagli da Dio.
Certo che la vocazione va scelta e accolta nella preghiera, nella riflessione, cioè in una vita interiore.
Ed è proprio tramite questa vita interiore cristiana che possiamo leggere e credere che il tempo datoci, e che è stato dato ai nostri cari, è un tempo compiuto per realizzare il proprio cammino, quand’anche fosse subentrato un distacco improvviso, rapido a cui non sappiamo dare il nome.
d Romeo