Natalità e speranza di futuro

Un bimbo che viene al mondo è una nuova risorsa per tutta l’umanità.
Rinnovare l’alleanza tra generazioni.
di Francesco Belletti, direttore del Cisf (centro internazionale studi famiglia)

La centralità della questione demografica è ormai sotto gli occhi li tutti a livello internazionale, ria con particolare attenzione in Italia. Il crescente invecchiamento ella popolazione, la crescente diminuzione del numero di nascite, la presenza di rilevanti movimenti migratori, sia in entrata che in uscita dal nostro Paese, sono fenomeni in cui anche la politica ha cominciato a interrogarsi in modo pressante. Finalmente ci si è resi conto che un Paese non ha bisogno solo di un’economia fiorente, di un ambiente non inquinato e di governi efficienti e onesti, ma è anche necessario che la popolazione cresca e si viluppi in modo equilibrato. Se venisse a mancare l’equilibrio demografico, l’organizzazione sociale, economica, politica e persino ambientale verrebbe messa in crisi. Ma l’evoluzione demografica un popolo dipende in misura rilevante da un doppio movimento: da i lato i grandi trend macro-sociali e politici, dall’altro la libertà di scelta delle persone e delle famiglie.
Questa interazione rende particolarmente complesso ogni intervento. Ad esempio il rilevante allungamento della speranza di vita è frutto prima di tutto degli impressionanti progressi della scienza medica e delle condizioni di salute generale, ma anche di lunghi anni di sviluppo economico, che hanno consentito meno povertà, alimentazioni più sane e più sicure, lavori e stili di vita meno usuranti. Si genera così, però, un forte bisogno di cure per lunghi anni, spesso a carico delle famiglie dei figli adulti. Anche il crollo delle nascite è stato consentito e favorito dallo sviluppo di strumenti di anticoncezionali, oltre che da un cambiamento nelle scelte individuali delle coppie. Inoltre, paradossalmente, l’innovazione tecnologica e scientifica consentirebbe oggi anche di “aumentare il numero di bambini nati”, con tutta una serie di tecniche e strumenti di assistenza medica che rispondono a situazioni di infertilità che prima sarebbero rimaste permanenti. In altre parole, la demografia cambia per l’agire congiunto di dinamiche macro-sociali, che si intrecciano con le scelte delle persone e delle famiglie. La natalità si è via via ridotta fino ai minimi storici, con una serie di rischi e di criticità. Qui proviamo ad affrontare due dei temi più controversi della discussione, con rilevanti implicazioni valoriali e
culturali, che rendono più difficile una seria azione sociale di contrasto all’inverno demografico. Un primo nodo riguarda proprio la valutazione complessiva del fenomeno: a fronte di sempre più numerosi interlocutori autorevoli (Istat, ma anche i Rapporti Cisf dal 1990 a oggi), che lanciano segnali di allarme sempre più pressanti, non sono rari, al contrario, gli osservatori e i commentatori che affermano: «Per fortuna nascono sempre meno bambini: meno persone saremo, meglio sarà». Questa polarizzazione su nascite sì/nascite no ha a che fare con un atteggiamento complessivo nei confronti del futuro e con quelle responsabilità che potremmo chiamare “debito inter-generazionale”. Ogni generazione, infatti, deve “decidere” se e quando restituire il debito che ha verso chi l’ha messa al mondo. Ogni individuo entra nella storia senza merito e senza intenzione, ma a lui tocca decidere se rinnovare la continuità nella storia della propria stirpe “di generazione in generazione”. È evidentemente in gioco la libertà di ciascuno, prima ancora che l’osservanza di un mandato sociale di bene comune, come proteggere il sistema pensionistico, argomento utilitaristico non privo di fondamento, ma un po’ deludente sul piano valoriale. Oggi, però, questa “restituzione del dono” non viene più considerata doverosa o inevitabile, e un numero crescente di persone sceglie che i figli non faranno parte del proprio orizzonte esistenziale. E così le nuove generazioni “non nascono”. Dal punto di vista societario, inoltre, una struttura demografica con troppi anziani e pochissimi bambini non solo prefigura una progressiva drastica riduzione numerica di un popolo, ma soprattutto rende questa popolazione meno innovativa, meno dinamica, meno progettuale verso il futuro.

Lo stereotipo sui “limiti di sviluppo” della terra.

Una seconda argomentazione tra chi ritiene urgente la ripresa della natalità e chi, invece, invoca interventi per una drastica diminuzione e controllo delle nascite, rimanda all’idea che gli esseri umani abbiano un impatto negativo sulla sostenibilità complessiva del pianeta. E che, quindi, mettere al mondo un figlio (o “un figlio in più”) sia un gesto di irresponsabilità ecologica, in un pianeta già troppo sfruttato e inquinato. Si tratta di uno stereotipo di lunga data, che riemerge in vario modo da metà Ottocento fino ai giorni nostri, collegato al concetto di “limiti di sviluppo” del sistema Terra. L’argomento è interessante e stimolante anche in ambito ecclesiale, tanto che il Magistero più recente ha affrontato questo nodo con grande serietà, soprattutto con gli interventi di papa Francesco, che ha dedicato alla famiglia e all’accoglienza della vita le importanti pagine di Amoris laetitia, ma ha anche dedicato un altro importante documento alla promozione e tutela dell’ambiente, la Laudato si. A testimoniare che nell’antropologia cristiana persona e ambiente sono alleati, e non nemici. Perché la sfida di uno sviluppo sostenibile è certamente condivisibile, e la tensione tra carico demografico della popolazione e risorse del pianeta è un nodo da tenere in considerazione, in una visione di lungo periodo. Ma bisogna anche ricordare che proprio l’uomo è anche l’essere che maggiormente sa e può custodire il creato, attraverso una tecnologia eco-compatibile, attraverso la propria cura e responsabilità, attraverso il contenimento dell’impatto ambientale delle proprie attività.
L’uomo sa e può contrastare gli eventi della natura per garantirle sostenibilità, e magari tra i bambini che verranno messi al mondo nei prossimi mesi nascerà anche lo scienziato che saprà inventare un sistema economico ed ecologico per ripulire gli oceani dalle plastiche con cui i suoi genitori hanno riempito i mari. Così sono le persone la prima risorsa per un’ecologia ambientale a misura di uomo, ma anche per un’antropologia a misura di ambiente. Contrapporre una vita che nasce alla necessità di tutelare il creato è una posizione ideologica, priva di speranza e capacità di futuro. Mentre un bimbo che viene al mondo è una nuova risorsa di novità, bellezza e speranza, per l’umanità e per il mondo tutto.

42 convegno delle Caritas Diocesane – Sulla via degli ultimi

Dopo due anni di stop causa pandemia, i delegati di 165 diocesi si sono radunati a Milano.
di Luciano Gualzetti Caritas Ambrosiana.

Tra il 20 e il 23 giugno si è svolto a Milano il 42° Convegno delle Caritas diocesane, che ha visto la partecipazione di 547 delegati provenienti da 165 diocesi e circa 200 dalla diocesi di Milano che, dopo due anni di stop a causa della pandemia, hanno vissuto un momento significativo per la Caritas e per la Chiesa italiana. In due anni il mondo è cambiato. Gli interrogativi del 2020 di verifica dei primi 50 anni di vita di Caritas italiana, che avevano avuto nell’udienza di papa Francesco del 2021 la conferma del proprio mandato di organismo pastorale per la promozione della testimonianza della carità della comunità cristiana, attraverso la via degli ultimi, la via dello stile del Vangelo e la via della creatività, sono diventate vere e proprie sfide per una Caritas consapevole di abitare la nuova epoca. E stato un convegno ricco di interventi e di contenuti, difficili da sintetizzare. Alcune consapevolezze, tuttavia, sono emerse in modo condiviso. E su queste lavoreranno le Caritas diocesane, nel solco del servizio ecclesiale cui sono chiamate nella Chiesa di oggi. Va riconosciuto, innanzitutto, il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando. L’emozionante testimonianza del teologo Pierangelo Sequeri ha avvertito come la sfida per la Chiesa è quella di abitare un’epoca che ha perso il riferimento a tutto ciò che è religioso. Per la prima volta nella storia dell’umanità la nostra epoca relega la religione nell’alveo marginale. E a noi contemporanei di questa società secolarizzata tocca il compito di trovare il modo per abitare quest’epoca. Si tratta come Chiesa di chiedersi come dare testimonianza o come si forma la società senza disporre di strutture politiche o di istituzioni pubbliche e di una cultura omogenea delegata a questo compito come era-no abituate tutte
le religioni. E un compito tosto che richiede alleanza tra Chiesa e Caritas. In questo guado ancora incerto nell’approdo, la Caritas è una delle poche realtà ecclesiali che può dire qualcosa di sensato, perché abita le ferite e le contraddizioni della storia e della realtà. Una traduzione di quella prospettiva creativa indicata da Francesco come via per la Caritas. In secondo luogo, la vocazione della Caritas. Essa è chiamata a favorire l’incontro con i poveri perché siano di tutti, della comunità, della Chiesa; stare dalla parte dei poveri e leggere la realtà con gli occhi degli ultimi, perché la Chiesa possa interpretare, alla luce del Vangelo, la realtà che vuole trasformare. Monsignor Valentino Bulgarelli e padre Giacomo Costa hanno chiesto a Caritas di aiutare la Chiesa italiana nel Cammino sinodale in atto. Includendo nel cammino questi compagni di viaggio: ascolto e relazioni. Non soltanto con il racconto delle buone pratiche, ma portando speranza nelle comunità. La Caritas è Chiesa. Il neo presidente Cei cardinale Matteo Zuppi ha ricordato che la Caritas non è un’agenzia esterna a cui la Chiesa affida le opere. Ma un suo organismo a cui è chiesto di coinvolgere tutta la comunità nell’incontro coni fratelli più piccoli. Azione pastorale a pieno titolo. Gli ultimi devono sentirsi par-te della comunità. La Caritas li intercetta e li porta dentro. La via degli ultimi deve diventare la via normale della Chiesa. La Caritas deve ricostruire un tessuto umano in cui tutti si sentono oggetto di attenzione e an-che un soggetto protagonista delle trame di relazioni che dovrebbe caratterizzare le nostre comunità.

La Caritas ha come compito principale l’annuncio.

La Buona Notizia passa attraverso la promozione della dignità di uomini e donne con il metodo della misericordia e della compassione. Solo con l’agape possiamo come comunità annunciare, accogliere e donare in modo credibile. Sequeri ha posto l’interrogativo fondamentale per la Chiesa di come creare le condizioni per almeno ospitare l’agape di Dio per promuovere comunità composte da relazioni autentiche, stima reciproca, attenzione alle storie personali e non solo agli aspetti organizzativi. La Caritas promuova un certo tipo di carità perché sia credibile l’annuncio del regno. C’è carità e carità! Lo diceva già il Concilio: non dare per carità ciò che è dovuto per giustizia, non occuparsi solo degli effetti, ma rimuovere le cause, fare in modo che la persona aiutata non abbia più bisogno del nostro aiuto. Anche l’arcivescovo Mario Delpini, nella messa in Duomo con i delegati, ha ricordato Gesù che pratica un certo tipo di carità mentre dichiara la sua volontà di purificare il lebbroso: «Non la prestazione, ma la relazione; non il sollievo, ma la salvezza; non l’accondiscendenza, ma la vocazione; non l’individuo, ma la persona nella comunità; non la popolarità, ma l’obbedienza al Padre… La sua missione è obbedienza al Padre che vede nel segreto, è docilità allo Spirito che lo spinge sempre oltre, è missione di evangelizzazione che deve giungere anche oltre, anche altrove, anche là dove nessuno lo aspetta e nessuno lo cerca». La Caritas ha nel suo Dna la pace, non solo per l’obiezione di coscienza, ma per tutte le opere non violente e di cooperazione che hanno creato condizioni per una pace duratura.
Su questo tema il nostro tempo ci interroga. E ci chiede di uscire dalla logica delle armi, che ci mette all’angolo nel dualismo amico-nemico, armi sì — armino; ma abitare con l’ascolto delle ragioni di tutti e il dialogo umanizzante la terra di mezzo, spesso più pericolosa perché scomoda per entrambi gli avversari. Con proposte realistiche, realizzabili e convincenti. Ma nel solco della tradizione non violenta e alternativa all’uso delle armi per la soluzione dei conflitti e per costruire la pace anche per le generazioni future. Una Caritas per cambiare le cose per le persone soccorse e quelle che verranno. Coltivando la speranza che c’è sempre una via d’uscita (Laudato sì 61), perché la storia è in mano a Dio, che la conduce tenendo fede alla sua promessa. Aperti alla creatività che non ha paura di rendere protagonisti i giovani che — come dice Francesco — hanno fiuto per scoprire nuove strade. Occorre avere — ha detto padre Giacomo Costa —uno sguardo al futuro, accettando di camminare incontro alla pienezza della grazia che supera ogni aspettativa, per affrontare le enormi sfide che ci stanno davanti. Da parte sua, don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, ha invitato ad abitare la città degli uomini con lo stile del vangelo, senza scadere nel “martalismo” , cioè il solo assistenzialismo, ma scegliendo la parte migliore come Maria: l’ascolto della parola e dei poveri. Ha chiesto, infine, di aiutare la Chiesa a rileggersi a partire dai poveri: di uscire dal guado insieme a quelli che crediamo di aiutare: i veri protagonisti della loro e nostra liberazione.

Ritagli di riflessione – sulla preghiera

Nella preghiera ordiniamo la nostra intenzionalità a quella divina ed agiamo di conseguenza. la preghiera diventa così un radicale affidamento a Dio, in cui chiediamo a Dio non tanto di agire al nostro posto, ma di divenire consapevoli di noi stessi, delle persone che ci circondano e degli avvenimenti che ci accadono attorno. Invece che demandare a Dio i nostri doveri, deresponsabilizzando così la nostra fede in un essere divino, nella preghiera diventiamo consapevoli della nostra responsabilità per il Regno di Dio.
Una storia sufi così racconta: «Un uomo sconvolto da tutto il dolore e la sofferenza che vedeva intorno a lui alzò il suo grido a Dio. “Guarda tutto questo dolore e sofferenza. Guarda tutti questi omicidi e queste tragedie. Oh mio Dio, come mai non sei intervenuto?”. Allora Dio gli disse: “Ma io ho mandato te! “».

Paolo Gamberini, Deus due punto zero.

L’obiezione banale: « Può forse la mia preghiera cambiare qualcosa nei disegni di Dio? Può forse obbligarlo a volere ciò che prima non voleva? », aiuta a porsi nella vera prospettiva, incomparabilmente più alta. La mia preghiera non cambierà niente, certamente, ma quando prego divengo lo strumento vivente e vero voluto da Dio da tutta l’eternità per quest’ora, e che realizza in questo preciso momento ciò che Dio vuole sia l’effetto della mia preghiera. E se Dio vuole la mia preghiera e vuole che essa raggiunga un determinato frutto, come potrà non essere sicura e efficace del suo risultato? « Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare delle cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli ne darà di buone a coloro che ne chiedono! » (Mt., 7, 11); poiché è Dio stesso che per primo suscita la mia preghiera e mi spinge segretamente a domandare, cercare, bussare.
Associati all’opera di Dio, perché siamo figli, la nostra preghiera acquista rango e dignità di causa: Dio ha deciso che certi effetti non si producano che per la preghiera dei suoi figli. Come il lavoro è una delle cause della raccolta, così è la preghiera nella messe di Dio: il mendicante che noi tutti siamo diviene il collaboratore di Dio.

Jacques Loew, Testimoni dell’ Invisibile.

Seconda Giornata mondiale dei nonni e degli anziani

Domenica 24 luglio 2022
Va cambiata radicalmente l’idea che tutti abbiamo della vecchiaia, come un tempo di scarto, di disastro, di fine.

«Anziano è bello», disse papa Benedetto XVI, poche settimane prima di rinunciare al papato, agli anziani di una casa della Comunità di Sant’Egidio. Aveva ragione. Ed è importante ripeterlo: va, infatti, cambiata radicalmente l’idea che tutti abbiamo della vecchiaia, come un tempo di scarto, di disastro, di fine. Non è così. La vecchiaia ha un suo valore proprio, come tutte le altre età della vita. Papa Francesco lo sta ripetendo, da fine marzo, nelle catechesi del mercoledì dedicate agli anziani. E ha insistito nel Messaggio in occasione della 2a Giornata mondiale dei nonni e degli anziani (si celebra il 24 luglio). Gli anziani sono una categoria più vasta rispetto ai nonni e alle nonne. Catechesi del mercoledì e la giornata del 24 luglio costituiscono un dittico di un nuovo affresco sulla vecchiaia. Se non cambiamo l’idea triste che abbiamo della vecchiaia non andremo lontani. La “rivoluzione della tenerezza” — dice papa Francesco — sarà portata nel mondo dai nonni e dalle persone anziane nella misura in cui saranno loro stessi per primi convinti di non essere “inutili”. Soprattutto in Italia, il secondo Paese al mondo, dopo il Giappone, per numero di anziani: noi anziani italiani siamo (ci sono anche io) circa 14 milioni al di sopra dei 65 anni. Ecco l’attualità del Papa quando scrive: «La vecchiaia non è un tempo inutile in cui farci da parte tirando i remi in barca, ma una stagione in cui portare ancora frutti: c’è una missione nuova che ci attende e ci invita a rivolgere lo sguardo al futuro». Gli anziani hanno un ruolo in famiglia, nel portare dialogo tra le generazioni, nel trasmettere la memoria della storia. Ecco le “parole d’ordine” dell’età anziana: consapevolezza di sé, preghiera, pensiero, azione decisa a favore del dialogo tra le generazioni. Nella Chiesa sta nascendo un pensiero sull’età anziana. Nonni, ma non solo, maestri e maestre di sapienza e di senso per la vita. Le istituzioni hanno il dovere di accompagnare il cambio di paradigma. Suggerisco due aspetti da tenere in considerazione: la politica e la Chiesa.
In Italia, in seguito alla pandemia e alla morte di centinaia di migliaia di anziani nelle case di riposo, oggi abbiamo un piano nuovo di assistenza, che è all’attenzione del governo e dello stesso Parlamento.
È necessario cambiare la modalità dell’assistenza: non si tratta di irrobustire i servizi o di dare più spazio agli erogatori dei servizi stessi. Il problema è differente: dobbiamo chiederci come la società si prende cura di tutti i suoi anziani, partendo dal loro domicilio e dando risposte a seconda dei loro bisogni. La priorità dell’assistenza domiciliare integrata e continuativa è un paradigma nuovo perché, ancora oggi, per il ministero della Salute, l’assistenza domiciliare significa 17 ore l’anno di presenza infermieristica. Un’assistenza che non serve. C’è bisogno di ripensare globalmente la presa in carico degli anziani e c’è da inventare, almeno organicamente, tutta una filiera. In questa prospettiva un’apposita Commissione, che ho l’onore di presiedere, ha elaborato un piano organico per riordinare non solo l’assistenza agli anziani ma l’intera politica nei loro confronti. È necessario investire (e le risorse ci sono) su un continuum assistenziale che parte dalla domiciliarità, tenendo presente che la sola domiciliarità non è di per sé la salvezza. C’è bisogno di una domiciliarità all’interno di una ritessitura dei rapporti nell’area ove l’anziano vive. C’è, poi, da favorire il cohousing, con appartamenti che permettano a più anziani una convivenza. C’è bisogno di nuovi centri diurni attrezzati. Al riguardo il Ministero delle infrastrutture è disponibile a restaurare tanti edifici in tutt’Italia, come centri diurni, per sopperire all’abbandono o alla solitudine. E andiamo verso un coinvolgimento non solo delle realtà cooperativistiche, ma anche del volontariato, delle reti umane e sociali, per quell’empatia che deve tornare a far rivivere il tessuto di un’Italia dove l’individualismo non ha ancora sfracellato il contesto sociale. E guardiamo più da vicino il ruolo della Chiesa. A volte sento dire, in senso negativo, che le nostre parrocchie e le nostre Messe sono popolate di anziani, come un giudizio negativo. «Per fortuna ci sono gli anziani!», rispondo tutte le volte. Essi hanno un compito rilevante nella società come nella Chiesa. «Molti di noi», ancora il Papa nel Messaggio per il 24 luglio, «hanno maturato una saggia e umile consapevolezza, di cui il mondo ha tanto bisogno: non ci si salva da soli, la felicità è un pane che si mangia insieme. Testimoniamolo a coloro che si illudono di trovare realizzazione personale e successo nella contrapposizione». Papa Francesco parla in prima persona, e da anziano si rivolge ai suoi coetanei con parole coraggiose e stimolanti: «Care nonne e cari nonni, care anziane e cari anziani, in questo nostro mondo siamo chiamati a essere artefici della rivoluzione della tenerezza!», usando «lo strumento più prezioso che abbiamo, e che è il più appropriato alla nostra età: quello della preghiera» che «può accompagnare il grido di dolore di chi soffre e può contribuire a cambiare i cuori». La politica e la Chiesa possono convergere verso una valorizzazione dell’età anziana: da un lato fornendo assistenza e servizi — cioè speranza di una vita degna — e dall’altro offrendo alle persone anziane un supplemento di spiritualità, dando loro elementi per trovare un senso profondo a questa fase ultima della vita. Ultima, ma non definitiva. La morte è un passaggio verso un’altra modalità della vita. La fede nella risurrezione ci porta a sperare in un “oltre” pienamente umano. Anzi benedetto da Dio. «Cari anziani», mi permetto di dire, «il meglio deve ancora venire!».

Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la vita.

La questione dell’adulto nella trasmissione della fede

Per la trasmissione della fede tra le generazioni c’è da rilevare che la maggioranza della popolazione adulta non prega né legge il Vangelo.
di Armando Matteo (teologo).

Nessuno meglio di papa Francesco ha saputo cogliere il particolare momento drammatico in cui si trova oggi la questione della trasmissione della fede tra le generazioni. Al numero 70 dell’Evangelii gaudium, si trovano considerazioni di speciale chiarezza e aderenza alla realtà dei fatti, che purtroppo non hanno ancora trovato nella coscienza ecclesiale la giusta recezio-ne e il doveroso sviluppo.
Leggiamo insieme: «Nemmeno possiamo ignorare che, negli ultimi decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico. È innegabile che molti si sentono delusi e cessano di identificarsi con la tradizione cattolica, che aumentano i genitori che non battezzano i figli e non insegnano loro a pregare, e che c’è un certo esodo verso altre comunità di fede. Alcune cause di questa rottura sono: la mancanza di spazi di dialogo in famiglia, l’influsso dei mezzi di comunicazione, il soggettivismo relativista, il consumismo sfrenato che stimola il mercato, la mancanza di accompagnamento pastorale dei più poveri, l’assenza di un’accoglienza cordiale nelle nostre istituzioni e la nostra difficoltà di ricreare l’adesione mistica della fede in uno scenario religioso plurale». Viene qui registrato da parte di papa Francesco una sostanziale rottura del processo di trasmissione della fede all’interno delle famiglie. Si tratta di una presa d’atto particolarmente dolorosa che dovrebbe mettere in atto processi di autentico rinnovamento delle prassi ecclesiali relative all’iniziazione cristiana dei più piccoli, ma siamo davvero ancora molto indietro su questo punto. E la ragione è presto detta: come comunità cattolica, facciamo una grande fatica a cogliere quella grande trasformazione della popolazione adulta occidentale, che ha trasformato le dinamiche educa-tive e di iniziazione all’esperienza di fede proprie dell’ambiente familiare. Se di per sé è chiaro che l’esperienza di fede è un’esperienza eminentemente personale, è altrettanto vero che nessun piccolo impara a credere da solo, così come nessun piccolo diventa adulto da solo. I cuccioli diventano adulti e diventano anche adulti credenti sempre ispirandosi all’atmosfera che respirano in famiglia, innanzitutto, e poi nel più ampio raggio della società, man mano che iniziano a frequentarla.
E come gli occhi dei genitori, le loro parole, i loro gesti, la loro postura complessiva sono decisive per la formazione umana dei piccoli, allo stesso modo la testimo-nianza di fede genitoriale è determinante per la formazione credente degli stessi piccoli. Si potrebbe dire che, in linea generale, per i nostri cuccioli lo stile d’essere al mondo dei genitori rappresenta non solo lo specchio in cui il figlio prova a tracciare la sua identità personale, ma rappresenta anche il primo spazio concreto in cui percepire sensibilmente la presenza di Dio e il suo amore incondizionato per ciascuno di noi.
Qui parliamo espressamente del “corpo del genitore”. Per quel delicato processo che è la crescita a ogni livello dei nostri piccoli — e dunque a livello psichico, umano e spirituale — ciò che ha valore ed efficacia di indirizzamento non sono certo le parole o le raccomandazioni genitoriali ad avere il primo posto. Quel posto è proprio il loro corpo, il loro semplice essere al mondo, il loro modo concreto di vivere e, dunque, di manifestare la loro fede.

Gli italiani: «gente di poca fede».
A questo riguardo, purtroppo, c’è da registrare che la stragrande maggioranza della popolazione adulta mostra una lontananza rispetto all’esperienza della fede cristiana. Gli adulti, oggi, non pregano quasi più, non leggono il Vangelo, frequentano poco la parrocchia o un qualche movimento e associazione cattolica e, in genere, esprimono un atteggiamento di poca fede. Non a caso, il sociologo Franco Garelli ha parlato degli italiani come «gente di poca fede». Per la questione della trasmissione della fede questo è rilevante. Per un piccolo l’atteggiamento del proprio genitore rispetto alla fede vale mille volte di più di una bella catechesi, di una splendida omelia e anche di un ambiente parrocchiale particolarmente accogliente. Nel suo cuore è questo ciò che accade: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me; se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita; se non c’è posto per Dio negli occhi di mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza. Nona caso, nella lunga citazio-
ne riportata sopra, papa Francesco insiste sui genitori che non insegnano a pregare ai figli, come una delle cause della rottura della trasmissione della fede tra le generazioni. E, ovviamente, i genitori non insegnano a pregare ai figli perché loro stessi per primi non pregano più o, semplicemente, hanno dimenticato come e perché si prega. Da questo punto di vista, a me pare che sia giunta l’ora che la comunità ecclesiale rivolga più attenzione alla trasformazione del mondo adulto di cui si diceva prima. Lo dobbiamo proprio per la cura che portiamo per i cuccioli di questo tempo, per il desiderio che nutriamo che essi possano crescere bene e credere con gioia, per l’impegno che ancora con abbondanza la comunità ecclesiale profonde nei confronti delle generazioni più giovani e che, purtroppo, sempre più raramente dà i risultati sperati. E tempo, per citare i vescovi italiani, di rimettere l’adulto al centro della pastorale. Nessuno avrà dimenticato quella coraggiosa Nota pastorale della Cei intitolata Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia del 2004. Al paragrafo 9 è possibile leggere: «La parrocchia missionaria, per non scadere in sterile retorica, deve servire la vita concreta delle persone, soprattutto la crescita dei ragazzi e dei giovani, la dignità della donna e la sua vocazione — tra realizzazione di sé nel lavoro e nella società e dono di sé nella generazione — e la difficile tenuta delle famiglie, ricordando che il mistero santo di Dio raggiunge tutte le persone in ogni risvolto della loro esistenza. A questo punto, però, non si può non rileggere con coraggio l’intera azione pastorale, perché, come tutti avvertono e sollecitano, sia più attenta e aperta alla questione dell’adulto».